Il film a storie incrociate e comunicanti che si rincorrono e sovrappongono in un andirivieni temporale da ricostruire non è certo una novità (c'è chi, come Inarritu, ci ha costruito sopra una carriera intera), ma riuscire ad incastrare i diversi segmenti in modo virtuoso e non pretestuoso non è da tutti. E' necessario che le scene "comuni" a più episodi rimangano impresse nella memoria in modo da essere richiamate all'occasione (un tuffo in piscina, un dialogo da un finestrino di un auto all'altro che di lontano si intuisce appena e in un momento successivo si rivive a piena voce...), che chi guarda possa completare nel proprio immaginario...Leggi tutto la vicenda senza troppo scervellarsi. A dirigere le operazioni in sostanza deve stare un regista in grado di fondere la sofisticatezza dell'intreccio alla semplicità nella narrazione. Virzì ci riesce abilmente, arricchendo il tutto con un'encomiabile direzione del cast: le facce giuste nei ruoli giusti, a cominciare da una Valeria Bruni Tedeschi sottilmente straziante nella sua solitudine di moglie e madre fallita, prigioniera di un mondo di agi e lussi fragilissimo, pronto a sgretolarsi in un attimo lasciandola indifesa, impreparata di fronte alla realtà. E' il personaggio più complesso e sincero, anche se il Dino Ossola di Fabrizio Bentivoglio, caricatissimo nella sua cadenza brianzola, strappa sinceri applausi per come sa mescolare malinconia e sentimenti d'amicizia interessata centrando con estrema precisione una figura di borghese in cui è facile riconoscere le aspirazioni frustrate di molti. Il versante più giovanile, rappresentato dalla bella Matilde Gioli, non possiede altrettanto spessore, ma si rivela funzionale per raggiungere la conclusione del piccolo giallo relativo all'incidente stradale attorno al quale ruota una parte del film. Fabrizio Gifuni, perfetto nel ruolo del ricco imprenditore che son sicumera tutta destrorsa mette sè e i propri affari al di sopra di tutto (ma rivela anche sprazzi di umanità inattesi), si divide bene tra il capitolo di Dino (Bentivoglio), di cui diventa socio in affari, e quello di Carla (Bruni Tedeschi), sua moglie. Di contorno altri buoni attori che danno sostanza alla storia, la cui sceneggiatura rappresenta sicuramente uno dei punti di forza (indimenticabile ad esempio la riunione per organizzare la nuova stagione teatrale del Politeama). Non convince fino in fondo la divisione così netta fra i tre capitoli, quando sarebbe stato piacevole seguire già la prima storia in modo più approfondito fino alla sua conclusione (potendo godere degli eccellenti duetti tra Bentivoglio e Gifuni), ma è forse un modo per non confondere eccessivamente le acque che non lascia comunque delusi, vista la notevole capacità di riagganciarsi con naturalezza alla logica complessiva del disegno dopo le tre brusche interruzioni. Qualche forzatura negli sviluppi più drammatici e in alcune caratterizzazioni (il figlio alcolizzato accusato d'omicidio), ma sono peccati veniali per un film che chiude mirabilmente persino quando decide di spiegare il titolo un attimo prima dei titoli di coda.
Film dalle due facce: più banale quella della storia dall'intreccio thriller che per quanto risaputa (anche nella tecnica narrativa) è scritta sapientemente e sa accattivare nello svelare gradualmente le varie tessere del puzzle; più interessante invece quella della descrizione di un mondo con tutte le sue lusinghe ed illusioni (i
soldi facili), dei suoi ambienti, della sua mentalità. Il tutto è corroborato da una bella prova del cast in cui tutti se la cavano bene, ma i "vecchi" battono nettamente
i giovani. Un buon film.
Tre diversi punti di vista (quello del piccolo imprenditore che tenta il colpo grosso, quello dell'annoiata moglie del grande imprenditore e quello della ragazza più giovane) per raccontare la stessa storia, per capire cosa è successo in una notte. A monte il punto di vista dell'abile Virzì non tanto sulla Brianza quanto sulla normale vita della provincia italiana con i suoi giochi di potere e denaro. Si ride anche, ma forse i personaggi di Bentivoglio e Lo Cascio scivolano troppo nella caricatura.
Virzì sa dirigere gli attori, ma risulta eccessivamente caricaturale nella caratterizzazione di alcuni personaggi, su tutti l'ottuso omuncolo che investe soldi neanche suoi (una sfumatura recitativa più bassa di Bentivoglio avrebbe giovato). Uno dei più convincenti è invece colui che investe i soldi degli altri senza mai esporsi in prima persona, se non quando viene costretto in un angolo dalla situazione (un bravo Fabrizio Gifuni), seguito da Valeria Bruni Tedeschi, che pur Margherita Buyzzandosi (schizzata repressa), lascia il segno. Non male, nonostante la storia dell'incidente sia tirata.
MEMORABILE: I criteri utilizzati dalle compagnie assicurative per valutare la vita di una persona (ovvero il capitale umano: agghiacciante).
Qualche anno di galera per un giovane rampollo vale, in termini economici, 4 volte tanto l'intera vita di un cameriere. La provocazione forte di Virzì è questa e viene scolpita con la didascalia finale, quando il mosaico si è ormai composto lentamente. Fin lì c'è la descrizione malevola e grottesca della Brianza bene, che nonostante le belle prove di Bentivoglio, Gifuni e della giovane Gioli (tutto suo il terzo atto, che per inciso è il migliore) non carbura a dovere e non scalda più di tanto. Curiosa la caricatura antileghista. Soddisfacente ma nulla più.
Quante vale la vita di un uomo? Di un poveraccio, per essere precisi. Virzì lo calcola pesando il valore di altre vite, nel contesto di una Brianza bene, stereotipata, caricata sino al fastidio. Inevitabile la frattura tra lo spettatore e più o meno tutti i personaggi della messinscena. Per il resto la decostruzione e relativa ricostruzione della vicenda reggono, pur senza far gridare ad alcun miracolo. Insomma, funziona ma non lascia il segno.
Scalate e crolli, nella finanza e nella vita: parliamo di capitali e investimenti, restituiti con interessi o risucchiati dagli eventi. Così vanno le relazioni e le avidità, intrecciate in un film che scruta una classe sociale alta (il “vero” protagonista lavoratore è esemplarmente eliminato all’inizio) per svelare orizzonti di vacuità e egoismo che appartengono a tutti. Con montaggio incalzante Virzì ritrae umanità tipiche dei nostri tempi, ben valorizzate da attori in caratterizzazioni talvolta al limite della macchietta, ma sempre calzanti.
Opera corale il nuovo lavoro di Virzì, a un primo sguardo semplice, in realtà stratificata, a partire dalla narrazione fatta di scansioni temporali parallele che analizzano di volta in volta il punto di vista di un diverso personaggio. E sono i personaggi, con la loro umana grettezza, i loro sogni, i loro amori e le loro speranze, a comporre un mosaico che narra uno spaccato di vita del Belpaese in tempi pre e post crisi. Idiosincratico nella messa a nudo delle emozioni umane, pur con qualche eccesso bozzettistico di troppo. Notevole.
Quello che da Virzì non t’aspetti: un drammatico a tinte fosche con inserti gialli (un po’ deboli ma narrativamente funzionali) per un ritratto cupo e amaro di una brianza borghese sempre più alla deriva, piegata all’ambizione e al raggiungimento del successo a tutti i costi tramite il denaro. Personaggi alienati, al limite della perdizione, contraddittori (ottimi Tedeschi e Gifuni, un po' meno Bentivoglio) in cui i diversi punti di vista, con virtù e perizia, s’intrecciano così come le coscienze, disumanizzate prima annullate poi. Buono.
Il solito baraccone di Virzì fatto di italiche miserie umane, tic, manie e tanti altri aspetti che sono alla portata e alla conoscenza di tutti. Ben congegnato nei dettagli e con un cast da non disprezzare, purtroppo alla fine si traduce in poco più di un cinepanettone con ambizioni da grande cinema. Persino Valeria Bruni Tedeschi non riesce ad andare oltre un personaggio tutta cliché e luoghi comuni.
“Brianza velenosa”: così Lucio Battisti definiva la ricca zona in una sua canzone e, in effetti, c'è molta di questa verità nell’opera di Virzì, che mostra semplicemente due famiglie di diversa estrazione economico-sociale unite dall’ambizione del denaro e dai drammi sentimentali dei rispettivi figli. Il cast di attori nel suo complesso concorre efficacemente alla buona riuscita del film (straordinario il duo Bentivoglio/Gifuni); resta comunque alla base una sceneggiatura robusta che unisce tutti i tasselli senza mai incappare in noia.
La Brianza: la parte per il tutto, l'Italia. E c'è tutta la contemporaneità nostrana nel film di Virzì: la crisi economica che muove alla logica licantropica, i residuati d'intellettualismo sessantottino, le aspirazioni di classe frustrate. E c'è tutto il meglio di Virzì: dalla direzione corale - ed esemplare - degli interpreti, al bozzettismo lieve che connota situazioni e personaggi fino a renderli riconoscibili ed empatici. Il titolo è il senso stesso del film: l'elaborata costruzione narrativa non giustifica forse l'ovvietà delle conclusioni, ma mantiene alta la tensione.
A volte un evento non è come appare, ma quanto vale la vita di una persona? Virzì ci dice la sua con un film "ad incastro" girato in Brianza (o presunta tale), che assiste letteralmente glaciale alle gesta di sbruffoni quasi sordiani (Bentivoglio), pseudoaffaristi (bravo come al solito Gifuni) e donne fatue e disperate (la Bruni Tedeschi, una rivelazione). Bravi anche i giovani, per niente costruiti a tavolino. Forse un po' troppo minutaggio, ma resta impresso. Capitale umano ambiguo.
MEMORABILE: Lo squallido amplesso con in sottofondo Nostra Signora dei Turchi; Il ricatto con un'ultima, curiosa richiesta; La riunione del cda del teatro.
Un noir ben costruito e con un gran cast. Virzì si addentra in un territorio per lui inesplorato e porta a casa una prova convincente: l'intreccio procede sottotraccia permettendoci di entrare nell'animo dei personaggi, esponenti di quella borghesia economica e culturale che sta affondando (con) questo paese. Il finale amaro è la ciliegina di questa torta senza zucchero: tutti colpevoli e sorridenti, il capitale umano è stato risarcito. Virzì è finalmente cresciuto? Attendiamo le prossime.
Ancora una volta Paolo Virzì fa centro con un film che ha tutto il sapore di una denuncia nei confronti di una società egoista e arrivista. Fabrizio Bentivoglio sfrutta tutta la sua esperienza professionale e la mette in un personaggio caricato all'inverosimile, eppure credibilissimo per chi come me conosce la Brianza e i brianzoli. Un cast notevole per una storia di tutti i giorni nella quale viene sottolineato il disprezzo per il valore umano a vantaggio di futili interessi personali. Valeria Bruni Tedeschi mi ricorda la Buy di Caterina va in città.
Bel film, ben diretto, ben montato e ben recitato. Virzì ci ragala un'immagine assai amara della società odierna ambientando in un fittizio paese della Brianza questa storia di famiglie borghesi senza alcun valore se non quello dei soldi facili. Ottimi tutti gli interpreti: su tutti svetta un pefetto cinico Giffuni, però Valeria Bruni Tedeschi non è da meno e buono risulta anche Bentivoglio, pur se il suo personaggio appare leggermente sopra le righe (ma non lontano da tizi realmente circolanti). Decisamente da vedere. ***!
MEMORABILE: Le didascalie finali riguardanti "il capitale umano".
Impresa temeraria per gli abituali canoni di Virzì, quella di abbracciare un noir “finanziario” senza rinunciare a strappare qualche aspro sorriso. Il risultato soddisfa: oltre alla recitazione di livello, ma questo è un topos di Virzì, piace l’intreccio emozionale tra figure alla deriva, per nulla scontato e anche la struttura in capitoli retroattivi alimenta la curiosità nella narrazione piuttosto che spegnerla. La maceria umana italiana (e non solo brianzola) è trasversale: plaudiamo a questo cinema, scordandoci che lo schermo siamo noi.
Discreto, soprattutto perché è un Virzì che non ti aspetti quello che scivola dalla commedia verso un simil-noir ben congegnato e che si lascia guardare tentando anche di delineare le miserie della media e alta borghesia italiana. Eppure i personaggi sono alcuni troppo carichi (Bentivoglio), altri troppo scontati (il bravo Gifuni) e altri interessanti ma lasciati troppo in superficie (la Bruni Tedeschi). E poi le storie dei "giovani" nel cinema nostrano mi sembrano sempre girate da un milione di anni luce di distanza, senza profondità.
Un Virzì che diventa un regista maturo, che si stacca dal cinema italiano più mediocre pur rimanendone perfettamente all'interno, suggellando tutta una cinematografia con un respiro profondo, meno banale, più concreto. Sarà merito di una sceneggiatura ispirata a un libro d'oltreoceano, ma si avverte davvero il superamento di una fase di attaccamento morboso all'Italia senza la capacità d'osservarla bene. La scelta degli attori è particolarmente fortunata anche nel caso dei giovani (difficile trovarne, di bravi) e il tutto è ben girato. Bello.
MEMORABILE: La scena a ralenti, che fa gelare per un attimo il sangue.
Un incidente stradale, capitato a un ciclista durante la vigilia di Natale del 2010, è il pretesto che permette a Paolo Virzì di raccontare tre storie che s'intrecciano l'una con l'altra. Uno dietro l'altro, sfilano personaggi perfidi e ingenu, e la cosa che stupisce è che il tutto non annoia affatto, anzi, intriga e molto. Ottima la prova di tutto il cast, specie quelle di Bentivoglio e di Gifuni. Bravi anche i giovani, vedi ragazza del terzo episodio e il cabarettista Bebo Storti. Tratto da un romanzo americano.
Ottimo film di Virzì, bravissimo ad ambientare in Brianza un romanzo drammatico americano e a far funzionare alla perfezione il meccanismo a incastro tra i diversi punti di vista dei protagonisti per raccontare i fatti. Grande prova degli interpreti, con il solo Bentivoglio un po' troppo caricaturale, mentre sorprende per naturalezza ed espressività l'esordiente Matilde Gioli. L'amaro che lascia al termine è quello della società in cui viviamo, sempre più spaccata tra chi ha troppo e chi nulla.
In una notte invernale, un'auto investe un ciclista e si allontana. Chi era alla guida? La ricostruzione del fatto è articolata in vari capitoli, ciascuno dedicato ad un diverso personaggio: ne emerge un quadro desolante di affarismo cinico e lassismo morale, da cui pochi sono immuni. Nel suo film più complesso ed ambizioso, Virzì conferma la sua abilità nel dirigere gli attori e, attraverso il veicolo del "giallo", costruisce un apologo interessante, anche se discontinuo nella resa, a tratti forzato e/o macchiettistico, quando non scopertamente didascalico.
MEMORABILE: "Avete scommesso sullo rovina del paese. E avete vinto...": riflessione giusta, ma incongrua se pronunciata da quel personaggio
La Brianza è solo un pretesto. La sceneggiatura (elemento portante della pellicola magistralmente diretta da Virzì e meravigliosamente interpretata da Bentivoglio, Gifuni e Bruni Tedeschi) è ispirata dall’omonimo libro di Stephen Amidon e potrebbe raccontare la stessa storia ambientandola, oggi, ovunque. Proprio questa caratteristica rende il film universale e inquietante. Per la sua sconcertante umanità, o disumanità. Fa lo stesso.
Il vedere la storia da diverse angolazioni ha il limite che possa presentare un calo di novità e ciò si palesa verso la fine, dove si aspetta solo che si sveli il colpevole. L’attenzione alle interpretazioni fa sì che la Tedeschi domini e renda gli altri macchiettistici, in un ambiente dipinto a tratti larghi. Virzì dirige bene per i particolari, anche se la chiusura con le forze dell’ordine è fintamente spettacolare.
Eccoti servito un efficace thriller che non rallenta un attimo, sfrutta bene il parco attori e grazie alla regia ispirata di Virzì modula bene quel gioco narrativo a visuali progressive che non è facile gestire. Il background sociale è un po' pompato ma regge perché non diventa mai pretenzioso e viene impreziosito dalle prove attoriali della Tedeschi e di un Bentivoglio da schiaffi ma con in bocca autentiche perle di saggezza. Degna di nota anche la esordiente Gioli. Fotografia anch'essa ispirata e discreta colonna sonora del Virzì fratello.
Paolo Virzì confeziona un interessante spaccato di vita che si svolge nel nord Italia con un cast decisamente in forma dove spiccano in bravura Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi. La curiosità sta nel fatto di dividere il film in capitoli, il tutto con coinvolgimento e mestiere.
Grande assente in molti film italiani degli ultimi anni, la sceneggiatura torna prepotentemente in primo piano in questo bel film di Paolo Virzì. A metà tra la commedia drammatica e il giallo, il film mantiene proprio grazie alla bontà della scrittura (che tratteggia un ritratto amaro dell'Italia odierna appena mitigato nel finale) un mirabile equilibrio tra le due componenti. Il regista si conferma formidabile direttore di attori dirigendo una Valeria Bruni Tedeschi mai così convincente. Eccellenti anche Bentivoglio e Gifuni. Da vedere.
Un'Italia di ipocriti, perdenti, irresponsabili, speculatori e avvoltoi: affresco contemporaneo triste e veritiero che Virzì svela a poco a poco attraverso un abile montaggio a flashbacks, ciascuno focalizzato sui singoli personaggi. Il collettivo d'interpreti marcia deciso e ordinato nella direzione giusta, sebbene qualcuno (il baùscia di Bentivoglio) tenda a volte a eccedere sino alla caricatura. Magnifico debutto per la splendida Matilde Gioli: bellezza magnetica e sguardi profondi e sinceri da Eva Green a rassicurare che i giovani di talento nel cinema italiano ci sono ancora.
MEMORABILE: Le amicizie tra i personaggi, false e interessate.
Un film strano, circolare. I primi minuti servono a esporre i fatti per poi tornare continuamente al punto di partenza con una diversa prospettiva a seconda del personaggio su cui si focalizza l’attenzione. Ne perde la scorrevolezza, anche se ne guadagna la tensione drammatica. Resta il ritratto amaro di una società scivolata nella mediocrità in cui ciascuno cerca di arraffare quel che può: denaro, affetti, visibilità. Insomma, piove sul bagnato, come dice il proverbio. Tecnicamente curato e valido il cast intero.
Film interessante con una costruzione particolare dove un singolo spazio temporale viene raccontato da tre diverse angolazioni secondo il vissuto di tre protagonisti. La trama è importante e mai banale, lasciando spazio anche a soluzioni inaspettate. Regia ineccepibile, cast ben diretto e perfettamente calato nei personaggi. Veramente un buon film.
MEMORABILE: L'incontro di Serena con lo zio di Luca che continua a chiedere "Ma questo te lo avrà detto Luca..."
Anche affrontando un tema più impegnato Virzì dimostra, anzi esalta, le sue qualità di narratore e la sua abilità nel dirigere gli attori. Il film ritrae da una parte una certa società brianzola arrivista e classista e dall'altra le vicende umane legate a una specie di thriller. Non sempre le due tematiche si fondono e prevale più il mero fatto di cronaca, rispetto alla denuncia sociale. Sceneggiatura e montaggio virtuosistici fanno il paio con un cast di attori al meglio di sé, specie Bentivoglio e Gifuni e, tra i più giovani, la bella Gioli.
MEMORABILE: Il tentativo di recupero del teatro Politeama; La fragilità delle relazioni sociali e individuali.
Si riconferma (fortunatamente e prepotentemente) il talento "monicelliano" di Virzì, la sua consanguineità al ramo nobile dell'albero genealogico della commedia italiana (da Goldoni al cinema dei '60). La volontà schietta di raccontare il paese in serio ma ridicolo disfacimento economico-morale abbina maturità di scrittura e sicurezza nella regia, culminante nel taglio narrativo, non nuovo ma funzionale al racconto, oltrechè nella direzione di un cast nel quale dispiace solo qualcun sia costretto (Lo Cascio) a scivolare sulla buccia di banana della macchietta.
MEMORABILE: La tremolante burrosità della Bruni Tedeschi; La caratterizzazione capace di diventar personaggio di Bentivoglio; La riluttante schifiltosità di Gifuni.
Sicuramente un Virzi ambizioso per questo nuovo film, dopo il buono ma più semplice Tutti i santi giorni. Con una divisione in capitoli alla Kill bill, viene smontata e rimontata, a seconda dei punti di vista, la vicenda che rappresenta il focus del film. Buona e vincente la caratterizzazione dei personaggi, con un brillante e divertente Bentivoglio. La tensione cresce dopo i sorrisi iniziali fino a un plateau drammatico.
Un bel film di Virzì, a metà tra il giallo e la denuncia di una società sempre più finta e corretta. Grande lavoro sui personaggi, tutti molto realistici e su un intreccio che parte confuso ma si delinea attraverso le storie dei protagonisti, ognuno collegato agli altri eppure universo a sé. Ottimo il cast, con Bentivoglio e la Tedeschi sugli scudi, capaci di una naturalezza non comune. Un po' lento nella prima parte, ma quando decolla è un piacere. Notevole.
Terrificante e irritante al tempo stesso, l'opera di Virzì parte con il piede sbagliato sin dalla costruzione narrativa, che vorrebbe essere "cool" ma che invece naufraga in una banalità sconcertante sia tecnicamente (il montaggio) sia strutturalmente. Ma il punto più basso si tocca con caratterizzazioni cartaveliniche fitte di cliché abusati: l'ignorantello che crede che i soldi crescano sugli alberi, l'imprenditore senza scrupoli, la moglie borghese annoiata che si fa ammaliare dal primo intellettuale che passa, la Gioli che si innamora del delinquetello e via dicendo. Il tutto condito da una regia anonima e senza verve.
Buon film di Virzì, ma lontano dai suoi esiti migliori (La prima cosa bella). Colpa di uno script poco equilibrato tra vocazione da thriller internazionale e inflessioni drammatiche-sociologiche tipiche del cinema italiano contemporaneo. Ottimi la Bruni Tedeschi e Gifuni, meno i giovani (anche se Matilde Gioli è bellissima). Regia mai così pulita.
Virzì cala l'asso e regala una delle sceneggiature più profonde e progressive degli ultimi 15 anni. Regia poderosa, raffinata ed elegante. Attori praticamente tutti straordinari: perfino la Golino, nel poco che fa, rende al massimo di potenzialità forse mai espresse. Film incredibile sotto ogni punto di vista.
Il capitale cinematografico di questa pellicola è decisamente quattro pallini. Virzì non stupisce più e pur senza abbandonare una tendenza all'esasperazione dei luoghi comuni nel tratteggiare i personaggi, riesce ad allietarci con un gradevole spaccato su un'Italia spaccata. Apprezzo le singole prove attoriali: brava la Tedeschi che in un ruolo alla Buy non scivola troppo verso il tedio, eccellente Gifuni e bravi tutti. Virzì dirige con cura e garbo. Ancora un bel successo che fa bene all'Italia.
Un incidente d'auto, un'auto pirata e uno dei tanti decessi insoluti liquidati dalla compagnia assicuratrice con gelidi parametri. Una vicenda drammatica nella provincia lombarda ammantata da una patina di giallo è lo spunto per tratteggiare un ambiente degradato moralmente in cui egoismo e superficialità la fanno da padrone. Efficace la suddivisione in capitoli, buona la prova del cast tra i quali spiccano la Bruni Tedeschi e Bentivoglio.
"Dio è morto!", diceva Nietzsche constatando la fine del valore astratto e spirituale, rimpiazzato con prepotenza da quello materiale, quantificabile, possibilmente accrescibile. La regia di Virzì non fa altro che constatare tale morte nel quotidiano, nella decadenza di quella vita borghese che proprio dal profitto trae la sua linfa vitale. Ma se da una parte abbiamo la rovinosa ascesa-discesa dell'imprenditore Pino, dall'altra ci sono Carla e Serena, tragici emblemi di una sorta di "concetto dell'ostrica" capitalista. Gelido e inesorabile.
MEMORABILE: Il cinico e chiarificatore capitolo finale.
Film a due facce. Un thriller ben costruito (chi è il pirata che ha investito un ciclista?) e una commedia satirica sull'Italia contemporanea, popolata di arrivisti grandi e piccoli, ipocrisie, rapporti sociali basati sulla convenienza, culturame di provincia dai modesti orizzonti. Qui mi pare tutto poco credibile, soprattutto per colpa degli eccessi di Bentivoglio e della Tedeschi, macchiette senza freni. La sostanza drammatica sfuma, i graffi sono alla fin fine superficiali, l'interesse per i personaggi cala rapidamente. Non male i giovani attori.
Il regista livornese confeziona una pellicola semi thriller con venature radical chic in cui emergono buone dosi di cinismo e una interessante voglia di creare situazioni sempre volte al meglio. Un validissimo cast che annovera un meraviglioso Gifuni, spesso poco considerato, una sempre precisa Bruni Tedeschi e una sorprendente Golino affiancata dalla Gioli. Forse troppo sopra le righe Bentivoglio, grande professionista. In definitiva una pellicola solida ben realizzata, che evidenzia certe sfaccettature del cinema italiano.
Un bravo Virzì ottiene dal suo, peraltro notevole, cast un alto rendimento per rendere alla perfezione una tragica vicenda figlia dei nostri tempi, vista da tre diverse prospettive. Il personaggio di Bentivoglio è particolarmente azzeccato ma è comunque l'insieme del racconto e dell'atmosfera via via sempre più drammatica che danno corpo al film. Bravi anche gli attor giovani.
Virzì dirige un thriller con il quale cerca di tratteggiare il carattere di persone appartenenti a diverse classi sociali. L'aspetto più riuscito del film è rappresentato dal tempo che il regista dedica a ogni protagonista della vicenda: significativo, infatti, è il fatto che alla vittima sia concessa una quantità minima e del tutto insignificante di tempo in tutto il film. Per il resto le caratterizzazioni dei personaggi sono scontate e fastidiose, seppur necessarie ai fini della trama. Riuscito a metà.
Virzì sembra ormai ossessionato dalla caduta libera economica che va a determinare o amplificare anche quella spirituale e sociale. Colpito dalla sindrome di Inarritu, si affida alla massima stilizzazione per raccontare un mondo che spira, o forse già morto o in irreversibile coma. Davanti al decesso non resta che l’ariosa forma del funerale. Che avviene talvolta al prezzo della più sconcertante banalità, dello sprezzo del ridicolo della retorica più gretta o di caratterizzazioni spicciole, talaltra di una gestione della drammaticità e del pathos che, piaccia o dispiaccia, ha pochi eguali nel nostrano cinema odierno.
MEMORABILE: L’amplesso ultrascult con [url=http://www.davinotti.com/index.php?f=5499]Bene[/url] a far da infelice sfondo.
Finalmente un film drammatico italiano che mi ha proprio convinto. La società attuale viene rappresentata in modo grottesco ma totalmente verosimile. Un film che appare come un dipinto che immortala qualcosa che è davanti agli occhi di tutti. L'arrivismo e l'egoismo non lasciano spazio ai buoni sentimenti. Quelli sono relegati a chi soffre in silenzio. Ottima la prova di Bentivoglio. La definizione stessa di capitale umano gela il sangue nelle vene, ma rende purtroppo perfettamente l'idea.
Ottimo script, d'origine Usa ma adattato egregiamente da Virzì alla Brianza. Una storia di arrampicatori sociali e arrivisti che crescono figli oppressi, condannati a essere vincenti. Bentivoglio (cui è dedicato il 1° capitolo) è eccezionale nel rendersi sgradevole, anche esteticamente, la Bruni Tedeschi (2° capitolo) è adatta al ruolo, perennemente spaesata in un mondo di cui conosce solo il lusso e poi c'è Matilde Gioli (3° capitolo) che è una bellissima sorpresa. Grande cinema: dalla sfuriata di Lo Cascio all'abbraccio finale della Golino.
MEMORABILE: L'ultima frase pronunciata dalla Bruni Tedeschi: "Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto".
Efficace e agghiacciante quadro del malaffare e del degrado valoriale di una fetta del nostro paese. Un atto d'accusa a tinte forti, con un eccesso di grottesco e caratterizzazioni molto marcate, indirizzato nei confronti di un "profondo nord" smarrito e corrotto, dove in nome del denaro proliferano cialtroni e imprenditori senza scrupoli. L'unica figura pulita e autentica è la giovane Serena, interpretata dall'ottima esordiente Matilde Gioli. Molto ben realizzata la struttura in capitoli con diverse soggettive degli stessi eventi.
MEMORABILE: "Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto".
Film potenzialmente notevole annacquato da un secondo episodio fiaccamente margheritabuyeggiante (con una Bruni Tedeschi non tollerabilissima), da personaggi che sono poco più che efficaci macchiette e da qualche leggera goffaggine piazzata proprio nei momenti sbagliati (il brutto ralenti a ridosso del cinico baratto e del cinico finale). Ma l'evento criminoso a far da collante (poi ripreso in I nostri ragazzi) fa galoppare il film, peraltro (rarità nell'Italia 2.0) dotato di confezione di serie A e con due giovani su tre che sono veri attori.
Un film asciutto, amaro, sensibile e intenso che ben mette in evidenza il lato oscuro e squallido di questo pantano che è il nostro Paese, dove omuncoli e donnucole sguazzano a loro agio, mentre giovani ignari - nemmeno troppo - provano a credere in qualcosa di migliore, poco riuscendoci. Un film riuscito che trasporta pienamente nelle atmosfere ipocrite e borghesi, notevolmente interpretate da Bentivoglio e dalla Bruni Tedeschi, particolarmente brillante e credibile. All'altezza anche tutti gli altri attori.
La vita di un uomo, di qualsiasi uomo-donna, non ha prezzo. Vero? Rivedere gli stessi momenti cambiando il personaggio che li vive per raccontare le diverse vite in ballo non è una novità. Pure i "giochetti" della finanza, la stupidità e l'avidità dell'uomo sono cose risapute. Poco credibile che un personaggio come il figlio di Carla (l'ottima Tedeschi) sia in lizza come migliore studente dell'anno; poco credibile anche l'amore di Serena per Luca (Anzaldo non adatto). Una galleria di stereotipi-macchiette per arrivare a sublimare il finale.
MEMORABILE: La reazione del professore respinto (dopo) dalla Tedeschi, rappresenta bene come Virzì fa muovere i personaggi.
Un film molto abile e piacevole seppur non del tutto convincente. Stupisce la bravura di Virzì nell'orchestrare una sceneggiatura a incastri con onestà (là dove numerosi registi americani hanno imbastito solo spettacolini ingannevoli) e nel dirigere in modo ottimo attori di base certo non eccellenti. Eppure l'abuso di dialetto e cadenza risuona un po' falso, la storia stessa appare del tutto scontata (si prevede dall'inizio dei capitoli ogni svolgimento) e artificiosa, facendo sbiadire la supposta critica sociale corrosa da poca sincerità.
Un investimento mortale da parte di un suv, che lega sapientemente le storie dei protagonisti, è il fulcro del film a cui Paolo Virzi, solitamente dedito alla commedia, sa dare il giusto spessore drammatico. Anche gli attori, seppur rappresentati in maniera caricaturale (Bentivoglio su tutti), sanno creare un buon gioco di squadra. Insomma, una amara riflessione sulla società contemporanea, il cui unico pensiero è il profitto.
Un’opera che prende di mira certa borghesia e la frantuma in piccoli pezzettini, portando allo scoperto la vacuità su cui poggia e il marcio che la corrode dall’interno. Il quadro più desolante emerge sotto l’aspetto umano, mostrando la famiglia distrutta ai piedi dell’ambizione e del falso benessere che spesso si nascondono dietro la ricchezza materiale. Qualcuno potrebbe riconoscersi allo specchio, essendo il ritratto di una parte della società italiana. Il concetto del capitale umano ne è la chiave di lettura perfetta.
Attorno all'investimento di un ciclista si annodano tre tragistorie familiari: quella del viscido arrampicatore sociale Dino Ossola (Bentivoglio), quella della volitiva e infelice moglie (Bruni Tedeschi) dello speculatore finanziario Giovanni Bernaschi (Gifuni), quella del fragile proletario Luca (Anzaldo). Uno dei tasselli più ambiziosi della filmografia di Virzì è, non paradossalmente, un lavoro piuttosto atipico per gli standard del regista livornese, familiarmente corale ma condotto su territori social-noir inediti per quanto, a tratti, caricaturali. Nel complesso riuscito.
MEMORABILE: Grottesca riunione del cda del teatro; La rapida involuzione della relazione fra Carla e Russomanno; Dino e Carla a colloquio nel teatro deserto.
Tratto dall'omonimo romanzo. Il film più ambizioso di Paolo Virzì risulta freddo e condito da poca verve. Un thriller (suddiviso in capitoli) con contorni di realismo che cade purtroppo nei soliti stereotipi italiani, con situazioni e personaggi già visti in varie salse in altri contesti. Finale buonista che di credibile ha davvero poco. In un cast mediocre chi si "salva" è Fabrizio Gifuni.
Non c'è pietà nella Brianza di Virzì, dove tutto è lecito per raggiungere i propri scopi, qualunque essi siano. Prima di sbarcare oltreoceano fisicamente, il regista livornese confeziona il meno italiano dei suoi film. Si parte d'altronde da un soggetto di Stephen Amidon dalla trama complessa ma ben sviluppata tramite tre capitoli collegati da dettagli precisi, creando un'atmosfera sospesa, in una Pianura Padana decisamente ben fotografata. Attori in parte, splendido Bentivoglio trasandato, bene il trio femminile Golino - Gioli - Bruni Tedeschi. Un noir davvero convincente.
MEMORABILE: L'intera prova attoriale di un Bentivoglio quasi irriconoscibile; La riunione per organizzare la stagione teatrale; La spiegazione finale del titolo.
Una regia perfetta, una sceneggiatura nella quale nulla è sbagliato, attori tutti in parte, dialoghi mai banali. Virzì propone uno dei suoi film migliori raccontando la "parte produttiva del paese" tra aspiranti speculatori, veri pescicani, velleità artistiche e egoismi diffusi. Un film che rimane impresso, così come la perfetta ricostruzione dei fatti concatenati tra loro.
Virzì dipinge la provincia bauscia con i suoi intrighi, segreti, denari e ipocrisie e lo fa con uno stile, dal punto di vista della narrazione, un po' tarantiniano. Gustosissimi i personaggi: il Dino Ossola di Bentivoglio, macchietta dell'arrivismo e del voglio ma non posso, il cinico Bernaschi di Gifuni, la bella ed equilibrata Serena della Gioli, unico forse personaggio positivo della storia, la svampita e malinconica Carla della Tedeschi, splendida nei suoi quasi 50 anni; Lo Cascio azzeccato nel suo prof di sinistra. Fotografia fredda un po' sollimana.
MEMORABILE: Lo sfogo della Bruni in macchina; Il "simpatico" zio, Pierobon; Il titolo spiegato nei titoli di coda.
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sto a metà tra chi lo stronca impietosamente -benché non abbia tutti i torti fuori posto- e chi ne è rimasto ammiratissimo -benché non con tutte le ragioni in quadro. personalmente la cosa che ho trovato più irritante e imperdonabile di tutte è stato l'uso ancillare e speculativo che virzì ha fatto dei grandissimi del teatro italiano (castellucci in primis, bene) per denunciare in maniera spicciola e dozzinale la morte del teatro (anche se poi è vero che nei comuni quando c'è da stilare le stagioni annuali si sentono davvero discorsi non dissimili da quelli fatti a quel tavolo). della raffaello sanzio viene liquidato uno spettacolo del 1992, da allora ne hanno fatti una buona altra sessantina, senza contare che sono ancora floridamente attivi. vengono nominati del tutto a sproposito e in maniera tutt'altro che funzionale al discorso. nostra signora dei turchi a far da sfondo all'amplesso tra la bruni tedeschi e lo cascio è probabilmente la vetta più scult e culturalmente criminale del cinema nostrano da 20 anni a oggi...
DiscussioneZender • 28/12/14 07:57 Capo scrivano - 48382 interventi
Capisco la prima parte del discorso, Schramm, meno la seconda. Cosa c'è di Male a tenere Bene sullo sfondo di un amplesso? Culturalmente criminale poi... Non è che un amplesso debba necessariamente svilupparsi guardando Pretty woman o un porno. In un dato momento quel che c'è c'è...
zendy converrai che a prescindere dalle personali idiosincrasie che si possono avere per bene e il suo operato, la bruni tedeschi che doppia la mancinelli reiterando il ti perdono è un affronto -probabilmente involontario- a un film che vuoi o non vuoi il cinema lo ha ecceduto.
da qualche parte qualcuno ha scritto, centrando alla grandissima il problema e togliendomi le parole di bocca, che questa scena "non solo svilisce la carica eversiva della perenne parodia del Cinema (e della Vita, in cui sarebbe coinvolta Carla stessa) presente in Bene, ma trasforma quest’ultimo in un qualsiasi soprammobile (come quello che Carla regala al marito in seguito al suo girovagare per la città), con cui continuare a sviluppare quella recita stessa. Anche Virzì sfrutta Bene come un aristocratico soprammobile e non tanto la reificazione (sia chiaro non vogliamo certo parlare di sacralità dell’arte) è da sottolineare, quanto la dimensione cinica e soprattutto grezza della citazione." ecco.
DiscussioneZender • 19/04/15 16:37 Capo scrivano - 48382 interventi
Ognuno ha diritto di pensarla come crede, naturalmente. Io continuo a credere che non ci sia niente di male a utilizzare Bene come sottofondo, perché centra bene la dimensione del personaggio della Bruni Tedeschi, anche nella sua faciloneria.
Per me buon film che cerca di alzare il tiro nella costruzione della sceneggiatura rispetto a tanta produzione nostrana: ne viene fuori un'opera corale un po' alla Anderson di Magnolia, un po' alla Inarritu, come era successo per Bella Addormentata di Bellocchio, che funziona soprattutto sul piano della tensione narrativa senza però approdare a nulla di significativamente nuovo, come avviene di solito per film che ricalcano forme "altrui". L'esportabilità del prodotto non lo mette in salvo dalla banalità. Per questo credo abbia goduto di riconoscimenti un po' eccessivi.
Sulla questione Bene, direi che sono con Zender, anche perché non è Virzì a usarlo come un soprammobile, ma i personaggi del suo film: in questo senso la scena è funzionale a descrivere una certa classe sociale e la sua "statura" intellettuale. Non sono un estimatore di Bene, quindi per me nessuna lesa maestà ma una provocazione discretamente assestata.
La banalizzazione dei Raffaello Sanzio invece credo rientri nella "rappresentanza culturale" un po' di grana grossa che il film vuole essere: una caricatura divertita e sarcastica più che un quadro oggettivo e pertinente (cosa che è sovente il cinema di Virzì). D'altra parte non si puo' negare che i Raffaello Sanzio, piacciano o meno, siano diventati negli anni l'emblema di tanto teatro contemporaneo cripto-concettual-chic-apocalittico post anni '90: dammi un'impalcatura arrugginita, un cane rognoso, una video installazione e fette di (contro)cultura ermetica grosse così, voi non capirete ma questo è genio al lavoro :)
Rebis ebbe a dire: La banalizzazione dei Raffaello Sanzio invece credo rientri nella "rappresentanza culturale" un po' di grana grossa che il film vuole essere: una caricatura divertita e sarcastica più che un quadro oggettivo e pertinente (cosa che è sovente il cinema di Virzì). D'altra parte non si puo' negare che i Raffaello Sanzio, piacciano o meno, siano diventati negli anni l'emblema di tanto teatro contemporaneo cripto-concettual-chic-apocalittico post anni '90: dammi un'impalcatura arrugginita, un cane rognoso, una video installazione e fette di (contro)cultura ermetica grosse così, voi non capirete ma questo è genio al lavoro :)
quest'ultimo aspetto penso pertenga a tutti gli epigoni che di castellucci non sono riusciti a recepire oltre l'esteriorità, portando allo sbaraglio spettacolini fatti di ideine malamente appiccicate con lo scotch e ferme a un'idea di provocazione, spesso grossolana se non sterile (questo valeva anche quando il loro nome non era così blasonato). il teatro della srs è molto più e molto meno di questo. resta curioso nel film l'aver scelto come riferimento un lavoro del 92, quasi che il film fosse ambientato appena pochi anni dopo (cosa che evidentemente non è) o che loro si fossero fermati là. boh. bisognerebbe chiederne a virzì stesso, immagino.
circa bene trovo che sia una scena se possibile anche più scult di una qualsiasi dell'ultimo grimaldi, e ben al di là del mio essere di parte.
quest'ultimo aspetto penso pertenga a tutti gli epigoni che di castellucci non sono riusciti a recepire oltre l'esteriorità, portando allo sbaraglio spettacolini fatti di ideine malamente appiccicate con lo scotch e ferme a un'idea di provocazione, spesso grossolana se non sterile (questo valeva anche quando il loro nome non era così blasonato). il teatro della srs è molto più e molto meno di questo.
Questo è fuori discussione.
DiscussioneZender • 20/04/15 14:50 Capo scrivano - 48382 interventi
zendy dovresti cortesemente provare a rimandarmela ex novo a parte, altrimenti per motivi a me incomprensibili gmail impazzisce e non me la fa visualizzare. se no copy and past in mp sul davibook va bene uguale.
Io l'ho trovato un film su commissione con una sceneggiatura da thrilleretto dei cestoni del supermercato (cioè, vogliamo parlare del premio per "Il miglior studente dell'anno"? Ma dove siamo, in una puntata di Dawson Creek?!?). Una struttura narrativa adattabile ad ogni paese inserendo a scelta una macchietta tipica (qui il leghista in commissione, in Svezia chissà) edificata sull'ennesio giochetto a incastri stantio già dai tempi di Pulp fiction. Dialoghi da Giallo pomeridiano su Rai-Due, nessuna concessione al vero talento di Virzì: la caratterizzazione del personaggio (se si eccettua una svampitissima Tedeschi e qualche altra cosuccia). Un inspiegabile passo indietro dopo il dolcissimo, realistico e divertente Tutti i santi giorni. Esportiamo pure 'sta roba piatta e inodore, ma almeno non chiamiamola thriller: abbiamo un passato glorioso da difendere con film che ti toglievano il sonno, qui il whodunit è un pretesto spompatissimo (ma del tizio in bici, ma davvero, dopo la prima scena, a chi interessa più qualcosa?).
Sembra una recensione fatta dal personaggio della velenosa giornalista critica di teatro presente alla riunione del politeama.