Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Kevin Spacey sembra fare il verso a se stesso interpretando il ruolo di un celebre lobbista che si arricchisce a più non posso incarnando il classico personaggio dell’uomo disposto a tutto pur di raggiungere i piani alti. Il risultato è discutibile, poco convincente e spesso piatto nella sceneggiatura, ma con qualche ruggito lacerante sul finire del film. La corruzione si spalma bene sul volto del protagonista che sarà messo, ovviamente, k.o. da un sistema molto più grande di lui.
Woody Allen riprende temi già trattati in Crimini e misfatti. Stavolta però non vi è quella prosopopea e quella lentezza di base, perché il regista va dritto al sodo e gira un thriller avvincente, nonostante il genere non sia proprio nelle sue corde. Perfetta la psicologia dei personaggi, ottima la fotografia così come la recitazione, con una Scarlett Johansson particolarmente brava. Giova al film anche il taglio dei dialoghi, intriganti e più leggeri, con poche citazioni colte e pesantezze inutili. Uno dei migliori lavori di Allen della seconda parte della sua carriera.
Roma, capitale dei gatti randagi, è lo sfondo di questo simpatico monologo di un felino che svela abitudini e curiosità dei mici sparsi tra i monumenti. Testo gustoso per il suo bonario umorismo. Immagini oscillanti tra il cartolinesco degli scorci pittoreschi della Capitale e il documentario para-etologico, che in verità si concentra soprattutto sui ritratti e su qualche azione degli animali. Il cortometraggio è insomma moderatamente piacevole, certamente per gattofili e gattare, ma anche per curiosi delle immagini degli anni 50.
Dopo Damiani e appena prima di Leone, anche Corbucci dà la propria versione sul western a sfondo rivoluzione messicana. Diciamo subito che il buon Sergio ci sapeva fare, lo testimonia la storia, scorrevole e dinamica, la varietà e accuratezza nella caratterizzazione dei personaggi (Palance psicotico, Rey pacifista doppiato da un De Angelis magistrale), le musiche-tormentone di Morricone. Poi ci sono le note dolenti: Milian che sputa, rutta e parla romanesco, una tendenza a buttarla troppo in farsa, soprattutto nella prima parte. Un grande film a metà, in sostanza.
Racconto sociale diretto bene da Jacques Audiard, il quale sceglie due protagonisti atipici, di nazionalità dello Sri Lanka, un paese che si vede poco nel cinema e che merita attenzione e considerazione; soprattutto qui che si parla di guerra e di persone costrette a scappare e cambiare identità. Ottimi i due, molto abili a cambiare personalità quando il film prende tutt'altra piega dopo un'oretta di tranquillità e in cui tutto sembrava scorrere in maniera tranquilla. In sintesi un buon film che parla di una storia di vita reale poco conosciuta.
Ribellione assoluta di chi non ha colpe e vuole vivere la sua vita serenamente, con regole e valori ben precisi fra i quali c'è il rispetto del prossimo. Eppure... on the road che denuncia l'assurda violenza istituzionale scatenata semplicemente da ciò che non si comprende. Scenari naturali e umani mozzafiato, mille volte più sorprendente di Easy rider e tutto sommato ancora più amaro nell'imprevedibile autodistruttivo finale. Protagonista perfetto, i rari e brevissimi flashback ci dicono tutto su di lui: Kovalsky con calma determinata è il simbolo di una libertà impossibile...
Mike Myers - che in fin dei conti ha trovato il vero successo, dopo i primi exploit con l'amico Dana Carvey in FUSI DI TESTA, solo con la saga di Austin Powers - ritenta nuovamente la via del demenziale scrivendo per Netflix una serie in sei puntate di mezz'ora ciascuna (il risultato raggiunge quindi nel complesso giusto la durata di un film Marvel...). L'idea è buona, perché la setta di "Illuminati" (chiamati qui appunto pentavirati) che dal 1347 si nasconde agli occhi del mondo per dirigerlo nell'ombra...Leggi tutto (non si capisce bene in che modo) si prende simpaticamente gioco del complottismo con spunti non peregrini che dimostrano una certa conoscenza del campo; quello che tuttavia manca è una realizzazione all'altezza dal punto di vista comico: non basta a Myers interpretare ben otto personaggi (tra cui il protagonista e tutti i membri del Pentavirato tranne le due "guest star" chiamate a rimpiazzare il quinto, che muore già nell'incipit) per rendere sufficientemente dinamico e divertente il tutto.
I difetti che già affliggevano i due seguiti del riuscito CONTROSPIONE si ripresentano puntuali e riguardano in primis una carenza preoccupante di gag in grado di andare a segno. Certo, da noi parte della colpa va anche al doppiaggio italiano, in difficoltà nel riproporre giochi di parole e cadenze giuste e comunque poco indicato per il genere, ma già la storia diventa presto un guazzabuglio faticoso da seguire, con figure mal tratteggiate (le "guardie del Liechtenstein" a protezione del Pentavirato) o semplicemente irritanti nella loro vana sguaiatezza (Jennifer Saunders nei panni del Maister of Dubrovnik e di sua sorella).
Il ruolo principale di Myers è quello di Ken Scarborough, conduttore televisivo canadese pensionato anticipatamente dal canale per cui lavora e che per trovare uno scoop in grado di rilanciarlo decide di andare con la sua cameraman (West) a un congresso dove conosce un rozzo complottista (Myers stesso, truccato in modo quasi irriconoscibile) che gli propone di infiltrarsi nella misteriosissima setta dei Pentavirati. In realtà questi sono un gruppo di fessi che si atteggiano a Gran Maestri e hanno appena introdotto nel loro gruppo (suo malgrado) un fisico nucleare (Key) per sostituire il quinto membro morto di fresco. La missione di Ken sarà ricca di imprevisti che si vorrebbero spassosi ma il più delle volte si infrangono contro la scarsa spiritosaggine con cui sono portati in scena o infilati nei dialoghi.
Le gag spesso s'ispirano alla parodia stile ZAZ (si prendano come esempio Rob Lowe che fa l'uomo immagine dei Pentavirati sui video di presentazione o la voce di Jeremy Irons che apre ogni puntata ironizzando metafilmicamente sul concetto di introduzione nelle serie) e qualcuna - grazie anche alla simpatia di Myers - funziona, ma il procedere della narrazione è pesante, la regia di Tim Kirkby poco adeguata: ci voleva maggiore agilità, perché spesso ci si sofferma troppo su battute scadenti senza valorizzare a dovere quelle invece valide. Azzeccate ad esempio le intromissioni dell'executive di Netflix che blocca le scene con eccessi di volgarità riproponendole edulcorate o fa piazzare etichette di censura sulle nudità degli attori durante un congresso orgiastico. Insomma, si capisce che alle spalle c'è un lavoro non indifferente di chi il genere lo conosce, eppure nell'insieme il risultato fallisce l'obiettivo principale, anche perché non riesce a centrare una satira che possa dimostrarsi acuta. L'umorismo è spesso puerile, di grana grossissima (si veda come viene sprecato Ken Yeong), interrotto solo a tratti da lampi geniali. Marcel M.J. Davinotti jr. Chiudi
Come e dove nacquero (in un paese della Germania) due tra i brand in assoluto più noti al mondo non solo in ambito sportivo. Sono i fratelli Dassler, Adolf detto Adi (Duken) e Rudy (Liebrecht), a condurre inizialmente l'azienda produttrice di calzature Dassler: il primo si occupa della parte manifatturiera studiando e perfezionando modelli di alta gamma, il secondo delle vendite, sfruttando un'abilità nel marketing ereditata dal lavoro precedente. Unitisi con la convinzione di poter diventare i migliori nel campo, Adi e Rudy vivono quasi in simbiosi nella stessa villa insieme...Leggi tutto alle loro famiglie, senza poter evitare inevitabili contrasti dovuti a due caratteri profondamente diversi (Adi più riflessivo, mite, buono, Rudy al contrario impulsivo, spesso irritato, donnaiolo, comportamento da cui gli deriva il soprannome di Puma) ma sapendo che il loro lavoro di coppia li sta portando a diventare, nella Germania di Hitler, una delle più importanti aziende del paese.
Nel 1920 il partito nazionalsocialista sta avanzando, le simpatie verso il Führer si diffondono e i due fratelli non si fanno problemi ad aderirvi, pur se magari senza crederci fino in fondo. E' in questo quadro ricostruito con la necessaria cura che si fa lentamente strada una divisione interna alla famiglia da imputarsi anche a due mogli che mal si sopportano. Nel raccontare quindi una storia che dal 1920 prosegue fino al 1954, anno del cosiddetto "MIracolo di Berna" (la finale dei Mondiali di calcio vinta dalla Germania Ovest contro la favoritissima Ungheria), il regista Oliver Dommenget riesce ad abbracciare più sottotrame: i conflitti in famiglia (particolarmente azzeccato il sottotitolo), i rapporti con l'emergente fenomeno del nazionalsocialismo, lo sviluppo della fabbrica, la divisione e la nascita dei due marchi, l'entrata in scena degli americani. E' questo che regala varietà alla narrazione rendendola interessante anche coprendo i difetti di una regia un po' statica e un effetto un po' fasullo della messa in scena (dovuto in buona parte a una fotografia piuttosto piatta che toglie profondità alle immagini).
Ad ogni modo i due protagonisti ricoprono bene il ruolo pur senza eccellere particolarmente e la sceneggiatura li aiuta nel conferire loro lo spessore necessario. Gli intrecci sentimentali volgono perlopiù al brutto con la tenerezza sostituita spesso da sguardi di ghiaccio tutti da interpretare (e in questo nulla si fa per chiarire certi sospetti) mentre altri parenti, a cominciare dai figli, restano sullo sfondo senza mai intervenire con decisione nei momenti cruciali. La forza del film sta comunque in un soggetto che bene sfrutta la singolarità della vicenda (due marchi tanto importanti originati dalla stessa famiglia) lasciando che essa evolva naturalmente seguendo un percorso per una volta lineare (con l'eccezione del prologo, che annuncia di fatto il finale), piacevole e serioso quanto basta. Un valido esempio di come allontanarsi dal documentario mantenendo un bel focus sulle emozioni, che trasudano anche attraverso i volti rigidi dei protagonisti. Manca un po' l'imprevedibilità e la vivacità del miglior cinema americano, ma la ricostruzione storica è buona e il tutto si fa seguire senza problemi. Marcel M.J. Davinotti jr. Chiudi
Il film rimesta nello squallore massimo dell'esistenza borderline di un cantante austriaco che, dopo aver assistito al funerale della madre in patria, torna a Rimini dove sopravvive esibendosi nei locali di fronte a una sparuta platea di anziani che ricordano i bei tempi. A fine show non disdegna di portarsi a letto le attempatissime fan di allora dietro compenso ritagliandosi un doppio lavoro come gigolo gerontofilo per poi sperperare i guadagni alle slot machine o bevendo.
La trama non aggiunge molto alla situazione di partenza concentrando tutta l'attenzione sul personaggio. Michael...Leggi tutto Thomas conferisce al suo Richie Bravo una statura quasi eroica; da eroe maledetto beninteso, che indossa sempre la stessa pelliccia in una Rimini invernale (e nevosa, perdipiù!) decisamente irriconoscibile, tutta vissuta al limitare della spiaggia (ma il mare non si vede quasi mai, con la nebbia costante a coprire l'orizzonte) popolata nei suoi scorci da torme di extracomunitari disseminati come mute statue quasi da arredamento scenografico. Una scelta singolare che contribuisce a caricare l'ambientazione di un'aura di disfacimento e di abbandono che fa il paio con la mestizia opprimente destinata a diventare la cifra primaria del film. L'insistenza con cui la regia mette in scena i rapporti sessuali, senza risparmiare particolari anatomici né posizioni audaci, è l'ulteriore conferma di quanto si ricerchi in ogni particolare uno squallore che coincida quanto più possibile con un realismo agghiacciante, senza trascurare di valutare l'aspetto grottesco che le situazioni comunicano.
L'enfasi interpretativa che porta Bravo a cantare i suoi brani "da balera" con un trasporto che talvolta sconfina nello sfogo personale, non può non far sorridere, per quanto non vi sia ombra di ironia vera in quanto accade in scena. Al contrario siamo tra le pieghe di un dramma profondo, accentuato dalla comparsa della figlia diciottenne (Gottlicher) la quale, dopo dodici anni di assenza, si fa risentire esigendo dal padre soldi che l'uomo non ha. Bravo si sente in colpa, subisce l'ira e le offese della ragazza ma cerca ugualmente di darle una mano. Sembra insomma che tutto ciò che possa accrescere le difficoltà del protagonista a raffrontarsi con un mondo che l'ha pressoché dimenticato non venga trascurato, lasciando che gli unici veri momenti in cui si trova realmente a suo agio siano quelli sul palco, anche quando è davanti a una platea minima: rivedere la commozione negli occhi degli anziani spettatori è forse l'unica cosa che può ancora inorgoglirlo facendogli tirare fuori il meglio, portandolo a sorridere, a sentirsi il centro dell'attenzione.
Il resto è un eterno vagare nel vuoto, in un sapore di desolazione e solitudine che non può che farsi metafora della misera condizione di Bravo. E non si può dire che Ulrich Seidl non sappia cogliere questo aspetto, nonostante un autocompiacimento autoriale che a tratti suona forse eccessivamente spinto. In perfetta simbiosi con il suo personaggio Michael Thomas domina ogni scena, con quelle di sesso che naturalmente più colpiscono per la loro crudezza ma anche per la dolcezza che a fine rapporto si contrappone allo scatenarsi della libidine (vero? simulato?). Un ritratto a tutto tondo (in ogni senso, la pancia dell'uomo è prominente) che a suo modo commuove. Marcel M.J. Davinotti jr. Chiudi
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA