Rob Zombie fa inversione di marcia ( e
Stone non sarebbe messo lì a caso), azzera quella
robetta dell'esordio (a questo punto perdonabilissimo, e , intelligentemente, toglie dal montaggio le pagliacciate da allegro chirurgo del dottor Satana/"
Master Blaster ", cambiando, con un colpo di spugna, totalmente registro) e si butta a capofitto nel vero luridume, nel sudiciume incrostato dell'america tanto cara a Charles Bukowsky che va a braccetto con John Waters (impagabili, per sgradevolezza, le copule di Capitan Spaulding con Ginger Lynn sognata a "cavalcare", per poi ritrovarsi una cicciona vogliosa al suo posto nel letto, con lui che si alza cone le mutande sporche) , dei reietti (appunto) dei looser peckinpahniani, del sudore, della puzza, del sangue, della polvere da sparo, del degrado subculturale (i disgustosi discorsi zoofili sui "fotti-polli"), del sole che picchia tra la polvere nel più bel casino del Texas (il bordello gestito da Ken Foree e lo straordinario, silente e sanguinoso raid notturno con i cacciatori di taglie), prende di mezzo quel cinema cormaniano tanto caro a Tarantino e ai fan dell'exploitation (i
Teague, i
Lester), Texas, 1978, sterminateli senza pietà, seguendo la "strada dei mattoni dorati" del
Mago di Oz in mezzo al pattume di
Desperate living.
Zombie riallaccia la continuità di quell'America violenta e selvaggia che ebbe inizio con il redneck ghignante che spara a Wyatt e a Bill nel finale di
Easy rider, inseguendo il fil rouge delle
rabbie giovani malickiane (d'altronde nemmeno Tarantino ha inventato niente).
Un incipit d'assedio mozzafiato che sta tra
L'uomo nel mirino e
Il buio si avvicina, una fuga on the road che mutua i canoni delle sotto-tarantinate e che lo avvcina ai crismi mortiferi (sotto i cieli tersi adombrati dalle nuvole e le strade polverose con scalcagnati motel all'angolo) di
Kalifornia, tenta di creare empatia con il suo terzetto di psicopatici assassini alla Mason-Family (senza, però, riuscirvi, visto che il sottoscritto tifava spasmodicamente per quel gran bastardo del braccio violento della legge sotto forma di un ritrovato, e immenso, William Forsythe, che troneggia a muso duro e si mangia il resto del cast), vola basso con le citazioni stucchevoli, ci infila pezzi musicali da brividi, stocca in momenti registici altissimi (la fine della corsa nel gran finale
penniano, gli stop-frame, gli split-screen, la ragazza che corre a perdifiato fuori dal motel, indossando la macabra e
hooperiana faccia scuoiata del marito, per poi impattare rovinosamente contro un tir), e aggiunge misoginia (del politicamente scorretto fatto virtù), un potentissimo turpiloquio da film porno, nudi integrali di corpi femminili violati, villipesi, offesi, angariati, palpati, profanati, fino ad arrivare in zona
Ultima casa a sinistra, con le insostenibili sevizie sessuali ai danni di Priscilla Barnes (con aggiunta della volgarissima battuta, a posteriori, della canna della pistola, che odora, infilita lì).
Non è tanto la violenza grafica in sè (teste sfondate a legnate, mani inchiodate, grafettatrici all'opera sul torso dei carnefici, pugnalate) ma è proprio la dimensione sudaticcia e sporchissima ad avvolgere questo opus zombiano, dove tutti sono dei gran bastardi e non si risparmia niente e nessuno.
Un divertente battibecco cinefilo post tarantiniano-che, però, mutua in un assolo molto zombiano, (il critico cinematografico che ama i fratelli Marx contro lo sceriffo di Forsythe che idolatra Elvis), Capitan Spaulding che prende a cazzotti le mamme (P.J.Soles) davanti ai figlioletti, Sheri Moon che non sculetta più come un'oca ma da prova di essere anche un'ottima attrice (tutta la parte dello schiaffo e del "sparami sul sederino" nella stanza del motel), e la simpatia zombiana per le prostitute, i papponi e la gente che vive nel disagio ai margini della società, come sarà la straordinaria prima parte in famiglia Myers del suo primo
Halloween.
Poi quell'estasiatico momento di giustizia sommaria da parte di un'invasato William Forsythe , che sta tra
Winner,
Monicelli e i nostri commissari di ferro, di quel cinema reazionario tanto caro a Clint Eastwood e a Don Siegel, dei vigilante
lustighiani e
glickenhausiani, del sadismo occhio per occhio e dente per dente (la caccia notturna, tra le vacche, a Sheri Moon è un'altro gran pezzo di cinema), dove lo spirito incarnato della vendetta sommaria ha fatto fremere di goduria il sottoscritto nella stessa maniera in cui la Kidman massacrava gli abitanti di
Dogville o i marines accoppavano la cecchina viet di
Full metal jacket.
Bellissimi, poi, i titoli di coda tra vallate, strade deserte e cieli azzurri verso l'infinito delle grandi distese americane dall'ampio respiro fordiano.
Senza altro indugiare, per chi scrive, il capolavoro della maturità di Robert Bartleh Cummings.