L'amore e il matrimonio dal vangelo secondo Fincher, che coltiva, nel suo inconfondibile stile dentro la caliginosità della magnifica fotografia di Jeff Cronenweth,
Bergman e
Mendes a suon di sgozzamenti splatter (attimo superlativo, per tecnica di regia, crudeltà e perfezione del cinema della violenza), colpi di scena (a metà film) che destabilizzano e sorprendono, toccando vette di assoluta genialità (la fuga, il cambio di connotati, la diabolica pianificazione nei minimi dettagli, il cadavere che fluttua sott'acqua, l'auto martellata in faccia, poi l'aggressione, la rapina, la disperazione, l'aiuto provvidenziale del fesso di turno, la lussuosa villa hi tech, la pantomima dello stupro e della segregazione tra colli di bottiglia infilati lì, vino come sangue vaginale, i polsi fasciati e stretti dalla corda, il ritorno a casa, improvviso,col corpo imbrattato di sangue).
Basterebbero questi elementi per portarsi a casa un gran film (per il sottoscritto il migliore di Fincher che si aggiunge a
Seven e a
The game), che non molla mai la presa e la tensione emotiva per tutti i suoi 142 minuti (e per una volta la lunga durata non è un difetto) in mezzo a false amicizie (la vicina di casa incinta), urina trafugata dalla tazza (la vicina cafona, con buona educazione, non tira lo sciaquone), diari più o meno segreti, punti di vista differenti che, almeno all'inizio, mettono parecchio in discussione l'evolversi dei fatti e su tutto la devastante follia muliebre che spaventa e ghiaccia il sangue, per quanto simili persone possano davvero esistere nella realtà.
Fastidiosissime (e per questo ancor più ficcanti) le reazioni dei media, con una specie di insopportabile Barbara D'Urso che pontifica giudizi di misandria, dando addosso al povero Affleck senza lo straccio di una benchè minima prova, accusandolo addirittura di incesto con la sorella gemella.
Al diavolo la verosomiglianza e i cosidetti "buchi di sceneggiatura", quando un'opera filmica tiene incollati saldamente allo schermo, scardina le presunte regole del thriller classico con cinico e beffardo sarcasmo (quella chiusa cupa, raggelante e rassegnata , che porta alla scena d'apertura, in un mezzo sorriso di soddisfazione che fa venire i brividi), mettendo in guardia lo spettatore su quale specie di mostro potresti andare ad incontrare e poi a sposare.
Raffinate autocitazioni fincheriane (lo scantinato di
Zodiac, la scatola di
Seven, i pupazzi e le missive di
The game, la New York di
Panic room, sotto la doccia nudi, con lei mezza insanguinata alla
Fight club), un cast quasi perfetto (la Pike avrebbe meritato la vittoria dell'Oscar e non soltanto la candidatura, Affleck è di una tenerezza arrendevole nel suo personaggio titpicamente hitchcockiano (s)travolto dagli eventi, un pò come succedeva all'inconsapevole Michael Douglas di
The game) e una confezione filmica che sfiora la perfezione.
Tra il melò andato in acido, il thriller classico, la soap opera degenerata, strascichi stephenkinghiani (più di una volta mi è venuto in mente il bellissimo e sottostimato
Rose Madder, con le dovute differenze e il ribaltamento dei ruoli matrimoniali) e l'anima nera dell'autore di
Seven che tutto sovrasta e incupisce.
Il sottoscritto non ha mai nascosto di essere un fervente sessista, Fincher rinsalda le mie convizioni.
E la calunnia
wyleriana non è passata invano, mietendo ancora vittime innocenti.