Da Sidney Lumet un dramma familiare impostato (almeno nella prima parte, in cui la cosa è più evidente) seguendo la moda che impone di rimescolare il tempo per ritornare più volte all'azione chiave con sempre maggiore cognizione di causa. L’azione chiave qui è una rapina operata maldestramente da due fratelli (Ethan Hawke e Philip Seymour Hoffman) per diversi motivi a corto di soldi ai danni della gioielleria di famiglia. Imprevisti a catena, tracce da cancellare ma polizia sorprendentemente assente dalla scena. La sceneggiatura focalizza l'attenzione sui due fratelli e sul padre (Albert Finney) descrivendone con buona profondità i caratteri. E’...Leggi tutto però la regia di Lumet a perdere un po' di colpi: lenta, macchinosa, avrebbe senz'altro giovato di una buona mezz'ora in meno. Le parti con Hawke sono più vivaci e coinvolgenti, quelle con Hoffman (ma la colpa è del personaggio, muto per lunghi tratti e poderosamente riflessivo) tendono a trascinarsi un po' troppo facendo perdere di incisività a un film comunque scritto cercando di evitare le banalità e costruito con criterio. Molto meglio la prima ora, a ogni modo, perché a lungo andare il desiderio di capire come si concluderà la vicenda tende a cronicizzare i difetti di sceneggiatura e regia. Un Lumet cupo e pessimista, che a una situazione già di per sé poco allegra aggiunge particolari insoliti come la tossicodipendenza “controllata” di Hoffman. Buono con riserva.
La costruzione del film sulla base degli sfasamenti temporali (si sa quello che succede già dall'inizio) è indubbiamente azzeccata nonchè realizzata con una certa maestria. Diciamo che il mio giudizio è contrastato: da un lato l'ho trovato noioso per la lentezza, dall'altro ho apprezzato la capacità del regista di portare sullo schermo il complicato rapporto fra il padre e i due figli (tutti e tre si macchiano con il delitto). I tre attori principali sono bravi, con Hoffman sempre adatto a intepretare personaggi sgradevoli.
Questo è un film che si regge sulla buona prova degli attori (specialmente l'immobiliare) e su una costruzione atipica che permette, grazie a piccoli salti temporali, di ricostruire i momenti più significativi dei protagonisti, poco prima, o poco dopo il fattaccio. Detto ciò, il ritmo è penalizzato proprio dai continui salti, che interrompono il normale svolgimento della vicenda; e alla lunga si inizia q sperare che non ce ne siano più, per poter arrivare all'epilogo, che non dirà nulla di più di ciò che ci si poteva aspettare. Nel complesso, comunque, resta un buon dramma familiare.
MEMORABILE: Il rapporto tra i due fratelli (il dominante e la marionetta senza carattere); Le cose si complicano e gli omicidi si moltiplicano.
Splendido noir girato da un vecchio leone come Sidney Lumet che qui è in stato di grazia e raggiunge uno dei punti più alti del suo cinema regalandoci un film cupissimo e disperato che non concede ai suoi personaggi (ed allo spettatore) alcuna speranza o possibilità di redenzione. Il risultato è eccezionale anche grazie ad una sceneggiatura che nella sua sobrietà è semplicemente grandiosa e ad un montaggio serratissimo che sfrutta al meglio i continui andirivieni temporali attraverso i quali ci viene svelato ogni volta qualcosa di più.
Il grande Sidney Lumet ad oltre ottanta anni di età da ancora parecchi punti a molti colleghi più giovani, dirigendo questo ottimo noir, cupo, teso e claustrofobico ennesima dimostrazione del suo grande talento di narratore e direttore di attori. La bella sceneggiatura del film (che utilizza ottimamente l'espediente della scomposizione temporale per i punti di vista dei diversi personaggi) parla ancora una volta della violenza e della perdita dei valori, affidata ad un cast di grandissimi attori nel quale spiccano Hoffman e Finney.
Al di là della trama che può piacere o non piacere e che personalmente trovo una eccessiva forzatura volta più a colpire che a intrattenere, il film scorre un po' troppo lentamente. Lo spettatore è sempre in attesa di un qualcosa che poi non arriva. Bravi però gli attori ad interpretare l'angoscia dei vari personaggi e a trasmetterla agli spettatori dal cuore tenero.
Parenti serpenti. Tutti contro tutti, in un fiorire di dinamiche malate da perdercisi dentro come un labirinto. Centrale la dinamica tra i due protagonisti, ma attorno a questi ruotano una giostra di comprimari tutti ugualmente pessimi dal punto di vista morale. Non un personaggio si salva: neppure la madre (l'unico che poteva restare estraneo al fango, ma solo non avendone il tempo materiale in quanto subito morta), che resta infangata dal dubbio, postumo, dell'adulterio.
MEMORABILE: La scena in cui la moglie lo pianta; il suo darle i soldi per il taxi e il successivo momento di riflessione.
Tremendamente floscio e moribondo nella prima metà (che istiga a lasciare la sala, complice un catatonico doppiaggio da cilicio), si risolleva con soprassalti nevrastenici nella seconda, i cui sviluppi restano tuttavia prevedibili. Vedibile, e non tutto sto profumo di capolavoro che molti gli hanno spruzzato addosso.
Lumet dimostra ancora mestiere e gli incastri temporali funzionano abbastanza bene. Peccato per la prolissità e un eccessivo insistere sui problemi dei due fratelli. Mi ha ricordato Fargo per i killer "dilettanti allo sbaraglio" e Mystic River per l'atmosfera torbida e pessimista che non risparmia nessuno. Ma non eguaglia nessun dei due nonostante gli attori siano scelti bene.
Bravo Sidney Lumet a regalarci, a ottant'anni e passa, ancora un bel film; per ottenere il risultato si fa aiutare da un buon cast di attori (su tutti il sempre ottimo Albert Finney e Philip Seymour Hoffamn). Detto questo bisogna anche ammettere che la pellicola non è quel capolavoro che taluni hanno acclamato ma è un onesto prodotto, realizzato molto bene, che ci mostra un ritratto, senza possibilità di scampo, dei suoi protagonisti, dove nessun personaggio riesce ad emergere dalla "melma" che lo avvolge. Da vedere.
Magnifico affresco di un'America malata ad opera di Sidney Lumet che adotta una narrazione complessa e per nulla lineare. Avanti, indietro, stop: come se fossero tante marionette ciascuno con il proprio ruolo. Al contrario di molti altri film, il regista vuole trasmettere il pessimismo generale senza via d'uscita. Non ci sono buoni né cattivi e nessuno è disposto a perdonare. Ottime le interpretazioni di Philip Seymour Hoffman e Ethan Hawke. Maria Tomei fa una parte abbastanza insulsa e per la maggior parte del film è nuda.
Lezione di cinema da parte di un grande vecchio, che riprende l'immortale tragedia greca, la rilegge con gli occhi della contemporaneità e racconta di famiglie e morte con un piglio forte e appassionante che sorprende. Sceneggiatura pressochè perfetta negli intrecci, nei personaggi e nei dialoghi, regia fresca e solida, con lampi d'ironia e inventiva che rispolverano il grande cinema di una volta. Attori ai loro massimi.
Buonissima pellicola di Lumet che si fa apprezzare per una sceneggiatura solida e attori alle prese con ottime prestazioni. Nonostante alcuni passaggi lenti, non viene mai meno l'attenzione verso l'intreccio narrativo anche se, è necessario dirlo, una maggiore sintesi avrebbe giovato al ritmo. Philip Seymour Hoffman migliore del cast, davvero straordinario. Da vedere.
Diciamo la verità, se non fosse perché è diretto con mano salda e per la bella prova del cast, non sarebbe nulla di rimarchevole. Questo perché tutto è già stato detto e visto tantissime volte ormai. Lumet, regista a cui piace fare la morale, ruba la struttura a Kubrick (Rapina a mano armata) e passa il tutto per il cinismo dei Coen. Dopo mezzora sopraggiunge già un senso di noia e prevedibilità. Per fortuna, come si diceva, la confezione è davvero buona. Meglio prenderlo come un film di attori. La Tomei possiede un corpo invidiabile per i suoi 45 anni!
Rapina e omicidio ad opera di borghesi piccolissimi, che devono pagare i debiti di una vita precedente o i vizi di un presente avviato al fallimento. Ovviamente i panni sporchi si lavano, è il caso di dirlo, in famiglia. Su una classica struttura kubrickiana, Lumet sembra bruciare il climax dopo 11 minuti, poi il film decolla, o meglio si inabissa nel fango dei suoi personaggi. La giustizia è assente, resta solo la vendetta. Il finale sembra suggerire una chance per i due fedifraghi: mi pare un grave buco di una storia altrimenti notevolissima.
Discreta opera di Lumet che racconta la storia di due fratelli che intendono derubare la gioielleria dei genitori. Non sarà cosa facile e si darà inizio a una serie di situazioni il cui risultato sarà l'effetto delle cause che qui vengono ben ben poste in sequenza. Ottimo il cast, su tutti Hoffman.
Dramma familiare ottimamente diretto da un esperto come Sidney Lumet. Due fratelli organizzano una rapina ai danni della gioielleria dei genitori, finirà in tragedia. Il film si regge su spazi temporali che porteranno a non salvare nessuno. Attori tutti bravissimi, Hoffman su tutti. Stupisce la Tomei!
Dopo un mezzo passo falso (il non memorabile Prova ad incastrarmi), Lumet dimostra alla bella età di 83 anni di avere ancora buone frecce al suo arco. Dramma familiare nerissimo, costruito in maniera temporalmente destrutturata, può contare su grandi interpretazioni, in primo luogo di Hoffman, che si conferma di mostruosa bravura e del sorprendente Hawke, di febbrile intensità. Dopo la prima parte, un po' faticosa da seguire per il suo carattere a puzzle, i pezzi si incastrano e la storia inchioda, fino al finale, crudelissimo e disperato.
MEMORABILE: Il momento di ira "fredda" di Hoffman dopo l'abbandono da parte della moglie.
Una storia nera come raramente se ne vedono. Tutti i personaggi sono carichi di una dolente propensione al male, che ha un qualcosa di involontario, inevitabile, autodifensivo. C'è tutta l'assoluta sfiducia del vecchio maestro Lumet nei confronti dell'uomo. Ogni personaggio è disturbante, anche quelli secondari. Ogni azione è una tappa necessaria verso l'annichilimento finale. Un film che attrae morbosamente ed al contempo repelle. Magnifica interpretazione di Seymour Hoffman, che spicca su tutti. Appena inferiore Hawke. 4 pallini e mezzo.
Scellerata l'idea di rapinare la gioielleria dei genitori onde racimolare qualche soldo per riparare ai propri errori e/o furbate. Scellerato il compimento della rapina stessa. Scellerato chi ha pensato ed eseguito. Tutto questo non può che portare ad una tragica catastrofe, come puntualmente avviene. Nel mentre, una sceneggiatura essenziale (forse pure troppo), ottimi attori ed un grande Sidney Lumet elevano questo drammone noir ben al di sopra della media. La deframmentazione temporale del racconto aggiunge poi quel tocco in più. Molto bello.
La violazione del quarto e settimo comandamento innesca l'irreparabile crollo di una famiglia e, di riflesso, di una più generale eticità: crollo filmato al rallentatore, a distanza ravvicinata e da differenti angolazioni e montato secondo l'ormai comune prassi della destrutturazione cronologica. Alla maniera di Tarantino e dei Cohen, una tragedia nera - con uno dei finali più agghiaccianti mai visti al cinema - agìta con sapiente padronanza di gesti, silenzi, sguardi, pacatezza ed eccessi: di vibrante intensità Finley, Hoffmann, Hawke; splendida la Tomei, brunita e desnuda.
Viziati dalle iperboli e dai virtuosismi noir dei vari Coen, Raimi e Tarantino, rischiamo di intendere il classicismo di Lumet come obsoleto e tardivo. Inoltre, l'articolata struttura a incastro non aggiunge granché al racconto - che rispetta pedissequamente i tòpoi del genere - ma induce solo ad elevare la soglia di attenzione. La seconda parte, addensando le derive relazionali con cupa misantropia, cattura l'interesse malgrado scoperte approssimazioni (la droga commutata in denaro) e personaggi campati in aria (Hawke, Tomei). Hoffman ha una bella rotondità drammatica. Esito prevedibile.
Lumet come Monicelli? Perché no: la stessa cattiveria, la stessa severità e lo stesso cinismo; e soprattutto la stessa vecchiaia, che sola riesce a legittimare tanto cupo pessimismo sul mondo d'oggi e a renderlo accettabile. Seymour Hoffman si degrada riempiendo il suo adipe di saltuarie (e per questo ancora peggiori) incursioni nell'eroina: un Caino fregato perfino da Abele. Finney assurge a un ruolo iroso e vendicativo da Dio del Vecchio Testamento, rovesciando il mito di Medea. L'Eden non è un paese per vecchi, ma neanche per giovani.
MEMORABILE: La trasformazione di Albert Finney nel finale.
Un vecchio leone che ruggisce ancora: Lumet, alla sua veneranda età, ci mostra come si fa grande cinema, prendendo una sceneggiatura lineare, ma destrutturandola in un efficacissimo montaggio discronico e facendo lievitare, insidiosamente, un clima malato di cinismo e disperazione, che implode nelle raggelanti sequenze finali. Eccellente prova del cast, con plauso particolare, sempre in tema di età, ad Albert Finney, Ma anche Seymour Hoffmann e la Tomei sono strepitosi. Monumentale.
Dramma con la D maiuscola. In effetti fin dalla prima scena, il 90 gradi tra una carinissima Tomei ed un laido Hoffman, si percepisce il senso di grottesco che andrà peggiorando di scena in scena. Molto bravi gli attori diretti da un maestro che, con più dinamicità rispetto al passato, specie nel montaggio, traccia la linee dell'ennesimo fallimento sui pellicola. La famiglia ne esce a pezzi ed anche il nostro umore. Folle ma azzeccato il finale. Sicuramente i fan del nostro Lumet non rimarranno delusi, anzi.
A 83 anni Lumet dimostra di saper realizzare un film classico come pochi saprebbero fare al giorno d'oggi. Scevro di virtuosismi fuori luogo, lucido senza essere didascalico, elegante senza sforzarsi di esserlo, è un sistema a più equazioni sulla famiglia, sull'America odierna e sulla natura umana in generale. Il male non è qualcosa di metafisico e assoluto, ma una parte integrante delle azioni dei personaggi, intrappolati in una struttura che loro stessi hanno creato e che non lascia scampo a nessuno. Hoffman alla testa di un grande cast.
MEMORABILE: Il padre dei due protagonisti (un superbo Albert Finney) nel finale.
Il finale del film mette i brividi di tenerezza (mentre l'intero film ci avrà lasciato una smorfia di disgusto imperitura) se si immagina che ad allontanarsi barcollante nella luce diafana non è il figlicida Albert Finney ma il vecchio Lumet, costretto ad uccidere tanto suo cinema nero ma alfine costantemente "progressista" con un testamento in pellicola lucidamente pessimista e in cui la pietas si ritaglia ben pochi frame. Viscido il giusto Hoffmann, convincente il "ragazzo perduto" di Hawke, brava al solito la Tomei.
Lumet descrive con stile cupo una famiglia americana in cui l'amore è ridotto ai minimi termini (giusto tra i due anziani) essendo i rapporti tra i membri o strumentali o di disprezzo. Di conseguenza la famiglia come istituzione non riesce più ad essere sintesi di nulla: ognuno va per conto proprio (a questo proposito la struttura temporale - peraltro a mio parere non impeccabile dal punto di vista narrativo - restituisce la frammentazione degli egoistici punti di vista) e al disfacimento economico segue implacabilmente il disfacimento morale.
Grandissimo dramma e intensa radiografia cupa e ferocemente pessimista che, in modo inesorabile, traccia ciniche linee guida nei confronti di una famiglia – e allo stesso tempo una società - in balia di un profondo crollo etico e comportamentale. Il tutto filmato servendosi di una destrutturazione temporale, sempre più dolente e luciferina, raccontata con fare partecipe e accurato, attingendo da più psicologie e sfumature, dove sopra ogni cosa emerge il lato oscuro, il Male, quello invisibile che si cela dietro le persone di tutti i giorni. ****
Nella sua lunga e prolifica carriera con alti e bassi, l’ottantaquattrenne Lumet ci riserva un picco di dura analisi di sentimenti distruttivi, con intense riflessioni sui ruoli familiari e pesanti questioni di natura morale alla base. Si alternano sequenze tra passato e presente, accelerazioni e rallentamenti del ritmo, per calibrare meglio l’intensità riflessiva. Gli attori danno un saggio di maestria interpretativa. Il titolo italiano, una volta tanto, risulta più adatto di quello straniero. ***!
Tutto dipende dalla prospettiva da cui si guarda. Questo è quello che scaturisce dalla visione di un'opera come quella de qua. Un incubo familiare che si palesa a poco poco agli occhi di ciascun membro e sfocia nel più tragico degli ending immaginabile. Gli attori sono all'altezza dal primo all'ultimo e la durata non esigua non pesa giammai sull'economia della pellicola, anzi ne rafforza l'equilibrio complessivo. Dramma duro e riflessioni assicurate. Da vedere e rivedere.
MEMORABILE: Lo strepitoso (nella e per la sua terribilità) finale.
Bel pugno nello stomaco l'ultimo lavoro del maestro Lumet: cupo e potente affresco di una società occidentale in disfacimento in cui nemmeno il più universale dei comandamenti viene rispettato. Prendendo in prestito da Sofocle la foga tragica, il vecchio leone mette il suo stile pulito e classico al servizio di una storia destrutturata temporalmente ma che non perde nemmeno per un momento la presa sullo spettatore: si viene trascinati di forza all'interno di un brutale Dies irae. Il terzetto Finney, Hoffman, Hawke completa l'opera. Grande cinema.
Ci sono troppe pistole in questo film, d'altronde siamo in America. Il primo piccolo revolver serve per la rapina, con il solo compito di minacciare, ma la seconda pistola (nel cassetto, un classico per i negozi Usa) ha la malaugurata idea di sparare e tutto parte da lì, la vittima è vittima di se stessa. Dietro quegli spari si scoperchia del tutto il dramma di diverse persone, un dramma che già esisteva ma che poteva prendere pieghe diverse e forse anche guarire. Uccidere è una spirale che, una volta innestata, non si sa dove vada a finire.
Grande sceneggiatura, dialoghi taglienti, tensione continua, risvolti psicologici raffinati, ottimo cast. Tutto questo per un film di altissimo livello dove Lumet dimostra ancora una volta di saperci fare alla grande dietro la macchina da presa. È un film che ti tiene sulle spine fino in fondo e il finale viene quasi vissuto come una liberazione. Consigliatissimo.
Philip Seymour Hoffman nei panni del fallito tossicodipendente è una garanzia, la narrazione è frammentata e rende interessante una storia tutto sommato prevedibile. Per il resto praticamente il solito film di rapina finita male, reso interessante dagli elementi gia citati e dal fatto di aver scelto dei "colletti bianchi" come criminali, proponendosi quindi come metafora dello sbando morale-ed economico- della middle class americana.
Due fratelli in bolletta e senza scrupoli decidono di derubare la gioielleria dei... loro genitori, ma tutto andrà storto, in un crescendo di violenza inaspettata. Sidney Lumet ruggisce ancora, tuonando sulla famiglia, creatrice di distorsioni e quindi dei peggiori misfatti. Grandi attori, oltreché una solida regia, guidata con mano ferma.
Thriller scespiriano moderno, il cui andamento a recuperi temporali a ritroso spiazza inizialmente, ma poi si fa via via più funzionale alla rivelazione del come e del perché. Recitato ottimamente dai due protagonisti (meno indimenticabili gli altri, inclusa la Tomei), il film rappresenta la disillusione verso la vita, ed è in questo aspetto perfettamente adatto ad un regista ultraottantenne. Davvero notevole.
Spesso Lumet non viene celebrato a dovere ed è un peccato, perché anche in questo film dimostra la propria bravura. Qui fa a pezzi il concetto di famiglia mostrandone il lato più nero e nichilista. Un comandamento non rispettato porta la furia del destino a punire i peccatori in tutta la sua crudeltà. La sacralità della famiglia viene offerta su di un altare pagano e dilaniata senza pietà. Grandissimo Philip Seymour Hoffman.
MEMORABILE: Tra le tante scene bellissime si ricorda la scena di sesso tra Hoffman e la Tomei.
Coppia di fratelli biechi e senza scrupoli agiscono contro natura per infilarsi in scorciatoie di vita. In un comparto attoriale di livello (Hoffman ha una marcia in più) è Lumet a stupire per una regìa che centra gli incastri temporali variando la prospettiva dell’inquadratura. Fotografia cupa e livida in una NY che si nota solo per i taxi e un paio di scorci dall'alto. Nel finale qualche tassello resta scoperto (tra cui la polizia che sembra abbastanza indifferente).
MEMORABILE: La casa dello spacciatore; La sberla del padre; Il volto spaventato di Hawke in macchina; La piccola parte di Shannon.
Il crimine si inserisce in un contesto fatto di matrimoni falliti, infedeltà coniugali e incomunicabilità tra genitori e figli. Il film più tragico di Lumet, che distrugge l'istituto della famiglia ma mette a dura prova anche la pazienza dello spettatore, costretto a fare i conti con un ritmo lento e una serie di incastri temporali che in fondo aggiungono poco. Bravissimi Hoffman e Hawke, Finney emerge nel finale, la Tomei splendida ma poco incisiva (e il doppiaggio italiano non la aiuta). Alcuni buoni sprazzi, ma nel complesso è noioso.
Lumet ci lascia con un dramma familiare scaturito da una rapina finita male; un film tutto sommato dai toni calmi (e freddi), che si dedica all'introspezione piuttosto che all'azione. Nonostante questo il regista riesce a maturare ansia nello spettatore – e è qui soprattutto che si nota la differenza tra chi ha fatto cinema per cinquant'anni e chi è novizio –, anche grazie a intrepidi stacchi e una calibrata colonna sonora. La fotografia è apprezzabile, mentre del cast elogio solo Hoffman. Non coinvolge quanto dovrebbe, ma è un più che buon film.
L'ultimo film di Lumet dimostra tutta la grandezza di un regista mai domo nemmeno in tarda età. Un noir cupissimo, dall'ottima struttura che ci porta avanti e indietro nel tempo, spezzando la narrazione in modo da rendere il ritmo veloce nonostante la lentezza delle singole scene. Personaggi costruiti abilmente, ricchi di sfumature, interpretati da un cast in stato di grazia in cui Hawke e Hoffman offrono tra le loro prove migliori. Bella colonna sonora, fantastico finale in crescendo. Da non perdere.
Intreccio drammatico a tratti noir che mette a nudo, svelandoli lentamente con una serie di flashback che si intrecciano, personaggi diversi ma tutti accomunati dalla decadenza morale e spirituale. Da questa abiezione nessuno si salva, nemmeno i personaggi che compaiono per pochi fotogrammi e che appaiono delle vittime. Ritratto fosco e disilluso di un'America affatto diversa da ottimistici luoghi comuni.
Lumet mette in scena un'opera a dir poco emozionante e ricca di colpi di scena, inserendo chiavi di lettura differenti per ogni tipo di personaggio del quale si mostra la storia. Forma un cast davvero eccellente, dominato da Seymour-Hoffman e Hawke, oltre a Finney (peggio la Tomei). Lo script è eccellente, con continui balzi temporali e una non linearità che rende il tutto interessante; la fotografia è ottima e la regia nello stile solito di Lumet. Davvero un film tutto da scoprire, ricco di tensione e di coinvolgimento emotivo.
Un precipitare inarrestabile negli abissi del cupo questo noir di Lumet, che gioca su due fattori chiave: le prove di Hoffman, Finney e Hawke (quest'ultimo un gradino sotto, quanto a intensità, ma più che altro per un fattore di scrittura) e un montaggio che decostruisce la vicenda, ricombinandola in un mosaico nemmeno troppo difficile da decifrare. Nonostante l'incedere e l'esito abbastanza scontati, il quadro complessivo risulta sì amaro ma decisamente godibile. New York è giusto uno sfondo a stento riconoscibile.
Lumet sperimenta un intreccio temporale che alla resa dei conti raggiunge il suo scopo. Il film si costruisce pezzo dopo pezzo, la tensione aumenta, le interpretazioni sono all'altezza delle aspettative e un finale che può apparire scontato diventa una sorta di liberazione. Atmosfera cupa e colonna sonora minimale ma d'effetto. Insomma ci si può mettere seduti e godersi un bel film.
Un bel thriller dell'anziano Lumet, che sconcerta per l'intreccio giocato totalmente sulle dinamiche familiari, particolarmente drammatiche. Anche la tecnica di destrutturazione temporale contribuisce, soprattutto nella prima parte, a rendere incisiva la visione. Nella seconda, man mano che il quadro si chiarisce, l'andamento diventa più classico e scontato, fino al tremendo finale. Le indagini di polizia sono del tutto assenti. Ottima la prova della coppia Seymour Hoffman/Hawke.
Un dramma familiare tra i più tristi che si possano ipotizzare il cui vortice distruttivo non si arresta un istante, fino a chiudere in un epilogo ancor più devastante. Bisogna pazientare prima di capire il montaggio intrecciato che consente di avere un’idea più approfondita dell’insieme. È un film diretto, carico di una violenza improvvisa, adatta per esprimere il contesto malato di una famiglia a suo modo disfunzionale. Non c’è un raggio che illumini di positivo e il senso di smarrimento morale è ben rappresentato da attori in buona forma.
Due fratelli con problemi di liquidità vivono un Pomeriggio da cani tentando una Rapina record a New York nella gioielleria dei genitori. Giunto all’ultima regia Lumet firma un’opera cinica e spietata ma poco avvincente. La struttura a flashback frammentaria e disordinata nega alla vicenda l’adeguato crescendo narrativo. Bravi gli attori malgrado il pessimo doppiaggio, soporifere invece le musiche di Burwell. Fotografia incolore. Insomma, non è proprio il grande film indicato da molti ma comunque un’opera che costringere lo spettatore a guardare il male direttamente negli occhi.
MEMORABILE: L’iniziale scena di sesso tra Hoffman e la Tomei; Il rapinatore vagamente tarantinesco; La visita di Finney dal ricettatore di diamanti.
Due scapestrati fratelli, al verde per svariati motivi (l'uno è dissanguato da un'odiosissima ex moglie, l'altro è un vizioso eroinomane con un matrimonio a rotoli con una moglie bellissima ma da lui poco apprezzata che va a letto col fratello), decidono di procurarsi soldi rapinando la gioielleria dei genitori... Gran film con ritmo serratissimo, una vincente struttura a flashback con diverse inquadrature e punti di vista dei personaggi che lascia lo spettatore senza fiato negli ultimi venti minuti. Un Cast immenso in cui giganteggia Albert Finney. Sempre bellissima la Tomei.
MEMORABILE: L'escalation di follia di Philip Seymour Hoffman.
A fine carriera si può fare ancora un grandissimo film. Ci insegna questo Sidney Lumet, che ci lascia come testamento artistico un film straordinario per intensità. Il regista sorprende nell'abilità con cui mescola insieme thriller e dramma facendoli prcedere su binari perfettamente paralleli e senza mai stonare. Una grande regia. Il terzetto di protagonisti con la loro prova eccellente fanno il resto e contribuiscono a un grande film, che forse senza qualche scivolata esagerata nel patetico poteva essere un capolavoro. Ma lo sfiora. Assolutamente da vedere.
Ultimo film di Lumet e insuperabile sua lezione di thriller. Con una storia di rara cattiveria, il vecchio Sidney descrive la disgregazione della famiglia americana tipo, in cui si arriva a una feroce resa dei conti per ragioni di denaro in termini quasi biblici. Metafora di una società in cui per mezz'ora di paradiso si accetta il rischio della dannazione eterna, come da titolo originale, qui tradotto in modo da edulcorarne il senso. Tensione senza respiro e superba direzione artistica ne fanno un quasi capolavoro. Hoffman da Oscar, Finney anche. Entrambi incredibilmente ignorati.
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Della serie "licenza di titolare": il titolo originale è tratto dal detto irlandese "May you have food and raiment, a soft pillow for your head. May you be in Heaven a full half hour before the Devil knows you're dead", ovvero "Possa tu avere cibo e vestiti, un soffice cuscino per la tua testa. Possa tu trascorrere mezz'ora in paradiso prima che il diavolo sappia che sei morto".
Disponibile in edizione Blu-Ray Disc dal 12/09/2012 per Medusa Video:
HomevideoRocchiola • 7/06/20 18:43 Call center Davinotti - 1320 interventi
Un prodotto buono con video panoramico 1.85 pulito e discretamente dettagliato malgrado una fotografia dai colori quasi inesitenti, ma è lo standard odierno a cui anche un vecchio leone come Lumet si è dovuto adeguare. Audio dolby digital 5.1 non molto potente ma chiaro.