Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Commedia in cui un amorevole padre divorziato non riesce a rifarsi una vita sentimentale fin quando non incontra, dopo anni, una vecchia fiamma la quale, però, non sopporta i bambini. Qui s'innestano equivoci più tesi a creare tensione narrativa che scene comiche. Opera riuscita in cui spiccano più i coprotagonisti, Ramazzotti e Pisani, che De Luigi, comunque sempre divertente. Potrebbero anche esserci significati diversi come l'inadeguatezza di alcuni adulti a rapportarsi con situazioni di responsabilità, ma sarebbe chiedere troppo a un film che vuole essere solo intrattenimento.
"Alien" Spider perché in effetti il ragno esce dal ventre di un uomo, emette acido e nella prima fase attacca al volto come un facehugger. Ma il capolavoro di Scott non è l'unico riferimento: la bocca della bestiola è mutuata da Predator e il finale in cima al grattacielo... beh. Questo giocattolone dalla modesta CGI ha il pregio di non provarci neanche per un secondo a fare paura, non scostandosi mai dal registro della commedia. Cast in palla, da Grunberg al Sig. Palmer; soprattutto non dev'essere stato facile rimanere seri. Di sicuro non ci si annoia.
Film a conduzione familiare che lascia il tempo che trova e che racconta la storia di tre scatenatissime sorelle alle prese con un principe indiano. Con una trama banale, minima e abusata come questa, è chiaro che l'esito finale non possa che essere inferiore alla media. A parte il discreto ritmo non si salva nulla e ciò non si deve al basso budget: i dialoghi sono puerili, la sceneggiatura priva di idee, i personaggi anonimi, il cast qui non all'altezza della situazione. Forse un pubblico di giovanissimi potrebbe anche sorridere, ma si dimentica subito.
Ennesima distopia nella quale il mondo è sopravvissuto all'ennesima catastrofe. Bypassando la ripetitiva anafora narrativa, si assiste a una metafora multistrato riguardante l'essere genitori (e ciò che comporta, soprattutto in termini di oneri) e scendendo man mano nella stratificazione simbolica, del controllo sociale e politico. Film patinato ma che non ammalia lo spettatore, anche se il finale melodrammatico e speranzoso non è male. La Vikander nettamente una spanna sopra gli altri. Dopotutto discreto, ma ci si attendeva di meglio.
Andrea De Carlo, ambientando il suo film nella Grande Mela, ci racconta che il sogno americano, se mai è esistito, ormai è svanito (già negli anni Ottanta) e che in America c'è un solo Dio, il denaro. Tema importante, ma narrazione molto minimale nonostante l'ottima interpretazione di Sergio Rubini e l'ambientazione inconsueta in una New York molto diversa da come di solto la si vede al cinema.
Ben due registi e un gruppo di attori di buon nome fra cui Robert Hossein, Angelo Infanti, Silvia Monti e Paola Borboni mobilitati per partorire un fallimentare tentativo di western comico che non fa ridere neanche per un attimo. La trama sconclusionata, le situazioni assurde e ripetitive e i demenziali dialoghi dialettali spesso poco comprensibili fanno sembrare interminabili i poco più di ottanta minuti del film. Françoise Girault, moglie del regista in quota francese, offre tramite controfigura una lunga sequenza a seno nudo, elemento abbastanza insolito in questo tipo di film.
Si è sempre sostenuto che la qualità della democrazia, negli Stati Uniti, si vede anche da come permette ai giornalisti di attaccare il potere costituito senza guardare in faccia nessuno; le rivelazioni sul carcere di Abu Ghraib, per esempio, non a caso portate alla luce dalla stessa Mary Mapes qui protagonista, ne sono una delle tante dimostrazioni. Non si pensi, tuttavia, che condurre un'inchiesta sul presidente in carica - nello specifico George W. Bush jr. - possa risultare priva di ostacoli. Le insidie si nascondono in ogni passaggio di notizie, gli avvocati sul piede di...Leggi tutto guerra non aspettano altro che demolire ogni indizio... E Mary Mapes (Blanchett), la produttrice del programma giornalistico "60 Minutes", alla CBS, lo sa bene, quando decide che la nuova stagione aprirà con un'indagine che riguarda proprio Bush.
Siamo nel 2004, durante i mesi che precedono le elezioni poi rivinte da Bush, e alcune testimonianze certificherebbero che agli inizi dei Settanta il futuro presidente venne arruolato nella Guardia Nazionale - evitando così di partire per il Vietnam - grazie a influenti raccomandazioni. In aggiunta ci sarebbe poi da scoprire quali agganci abbia avuto addirittura con proprietà di Osama Bin Laden. Intrecci da chiarire e materiale scottante su cui Mary e il suo team (all'interno del quale si riconosce Dennis Quaid) affonderanno le mani riuscendo a trovare un documento (glielo fornirà un quasi irriconoscibile Stacy Keach) che si rivelerà piuttosto controverso, scritto a macchina, al tempo, da chi denunciò velatamente l'assenteismo di Bush jr. rispetto ai suoi obblighi nella Guardia Nazionale. E' sull'autenticità tutta da stabilire di questo fondamentale foglio di carta che si giocherà l'intera partita, con Mary in trincea costretta a rispondere alle accuse di chi sostiene sia un falso. Al suo fianco un monumento del giornalismo come Dan Rather (Redford), il quale ha preso a cuore il caso e si occuperà di intervistare chi di dovere per preparare le puntate alla base della nuova stagione di "60 Minutes".
In apparenza uno dei tanti film che Hollywood ciclicamente sforna per raccontare dall'interno il competitivo mondo dei media (televisione in primis), se ne differenzia soprattutto in virtù di un finale insolito, lontano dal trionfalismo imperante nel genere, portando a riflettere sulle zone d'ombra della giustizia. I toni utilizzati sono invece quelli consueti: grazie a una regia e un montaggio concitati - sorretti dall'interpretazione impeccabile della Blanchett, che vi si adegua nel migliore dei modi - la tensione si mantiene alta agganciando, all'elemento focale (il documento), altri filoni d'indagine che arricchiscono la storia.
Nessuno spazio o quasi viene riservato al privato dei protagonisti: l'attenzione è costantemente rivolta alle indagini, alle interviste, a tutto ciò che ruota intorno a un'inchiesta televisiva di grande rilevanza che implica il coinvolgimento di alte personalità, ufficiali e militari. La figura di Rather, che Redford restituisce con l'abituale, impareggiabile classe, è meno centrale di quanto si possa pensare e serve per conferire "di sponda" spessore umano a una protagonista totalmente dedita alla professione. Forse l'argomento e l'ambito in cui ci si muove possono risultare non troppo coinvolgenti, per chi non è americano e poco conosce la politica di quegli anni, ma resta lodevole l'impegno con il quale si mette in scena una vicenda esemplare, illuminante per come descrive le dinamiche più comuni legate alle sfide giudiziarie, non necessariamente concluse come al cinema tutti si aspettano. La convenzionalità dell'approccio non deve distogliere da un'impostazione tesa invece a nascondervi conclusioni e spunti tutt'altro che banali.
Dei tanti film a sketch che verso la fine dei Settanta si divertivano a prendere in giro icone cinematografiche, film, personaggi televisivi, programmi et similia, magari riuscendo a ingaggiare uno o più nomi riconoscibili (spesso qualcuno tra i volti noti del "Saturday Night Live"), LOOSE SHOES è tra i meno riusciti, poverissimo di gag e di idee. Naturalmente, sparando nel mucchio, qualcosa di discreto esce fuori, ma decisamente poco a fronte di troppi sketch insignificanti.
La base da parodiare in questo caso è il cinema, con una serie di falsi trailer (il...Leggi tutto film non a caso è anche conosciuto col titolo di COMING ATTRACTIONS) come nella miglior tradizione del genere, che ancora Tarantino e Rodriguez sapranno elevare a stile nel loro GRINDHOUSE. Qui molti vuoti si riempiono con le canzoni, anch'esse del tutto anonime. Il successo di RIDERE PER RIDERE dell'anno precedente aveva rilanciato questo tipo di film tipicamente americani, ma con ben altre trovate... Qui si parte con la “vera” storia di Howard Huge (discreto biopic di un personaggio a dir poco strampalato) e si continua con SKATEBOARDERS FROM HELL, parodia dei bikers movie simpatica nelle intenzioni ma fiacca nella resa finale, con uno spirito politicamente scorretto fine a se stesso. Troppo lunga, come al contrario è forse troppo breve THE INVASION OF THE PENIS SNATCHERS, in cui un uomo al bagno cerca per un po' il suo pene nei pantaloni del pigiama per accorgersi di un qualche orrore che verrà ripetuto. Gli ultracorpi tornano utili solo per il buffo titolo, ma poi...
La parodia del carcerario si esplicita in THREE CHAIRS FOR LEFTY, in cui Lefty è un giovanissimo Bill Murray nei panni di un condannato a morte in attesa di elettrocuzione. Un po' di show da parte di quella che diventerà in futuro una grande star, che qui tuttavia si limita a seguire il copione senza poter dire granché di divertente. La durata dello sketch (ben sette minuti) è delle più consistenti, ma le gag scarseggiano, così come nella successiva ripresa di un qualsiasi film di Woody Allen con un suo sosia protagonista. Il primo colpo di genio (relativo, s'intende) arriva con THE MAGIC AND MYSTERY OF THE GOBI, durante il quale si raccontano le bellezze del deserto asiatico mostrando famiglie accampate con l'ombrellone e il pallone come in una qualsiasi spiaggia, ma con a due passi carcasse di pellegrini arrostiti dal sole.
Da dimenticare il break pubblicitario sull'organizzazione STOP IT, al quale segue uno spassoso messaggio di un cinema che assicura di prendersi cura dei nostri figli per le vacanze chiudendoli tutto il giorno in sala e "assistendoli" a colpi di film e Coca Cola! La dimostrazione di come a volte non servano le immagini, per divertire! Lungo e tedioso lo spazio lasciato a un cagnolone live action della Disney (THE SHAGGY STUDIO THIEF) e un po' meglio A VISIT WITH MA AND PA (ma solo nel finale, il resto è terribile), con un contadino proprietario di un maiale parlante che si divertirà alle sue spalle. Poco centrata la parodia in bianco e nero e muta (con didascalie) di Charlot, suddivisa in molte scene con “monello” annesso e pure quella (SCUFFED SHOES) con le scarpine danzanti indossate dal presentatore del balletto causa morte della proprietaria delle stesse (un'idea che riprenderà Villaggio in più di un suo film).
Ancora interminabile e scadente la parentesi del corrispondente di guerra con qualche scena sul fronte, già meglio la parodia spaghetti western di A FISTFUL OF SOMETHING (“Per un pugno di qualcosa”, avremmo tradotto in Italia), con il solito uomo venuto dal nulla che arriva nel paese di Bad Pasta (notevole!) in Arizona trovandovi gruppi di indiani (ma di quelli col turbante, però!) e pure un collega cieco (il regista del film Ira Miller). Scarsa l'avventura di una strana coppia nel paese dove tutti ti trattano bene e al contrario spassosa quella dei Pon pon boys, bellocci da esibizione utilizzati come macchine del sesso.
La chiusura, prima di un'estesa esibizione musicale di nessuna utilità, è lasciata a BILLY JERK GOES TO OZ, divertita presa in giro del MAGO DI OZ, con lo spaventapasseri e... un nano. Sarebbe un discreto modo di chiudere, se non si fosse lasciata l'incombenza alla citata performance musicale, chiaro riempitivo che neanche l'Aida di ARRAPAHO... Insomma, qualcosa di buono si trova, ma mediamente si vola bassi anche per raggiungere i risultati di altri film simili, non rinomati quanto il classico di Landis. Sul tema, insomma, meglio rivolgersi a lavori precedenti come THE GROOVE TUBE, in cui si notava ben altro impegno in fase di scrittura. Qui il budget è ridottissimo e si vede...
Ingenua commedia - che si vorrebbe comica - totalmente focalizzata sugli imbarazzi di un umile curato di campagna (Préboist) all'interno di un campo di nudisti organizzato lungo una spiaggia della costa francese. Lui è padre Daniel, e nella sua chiesetta persa nel verde della Val d'Oise fa furori: quando c'è la messa il paese si svuota e le code per entrare ad assistervi sono impressionanti. Perché? Facile: Daniel è un comico nato e diverte tutti i parrocchiani chiamandoli a indovinare gli animali che entrano nell'Arca, imitandoli a gesti. Un gioco...Leggi tutto dei mimi che entusiasma il suo pubblico, al punto che un prete di passaggio (Génès) capisce il fenomeno e, non poco invidioso del successo, avvisa il vescovo (Descrières). Quest'ultimo ci ragiona sopra un po' e decide di spedire il buon curato in un campo di nudisti della Costa Azzurra per tentare di introdurre anche lì gli insegnamenti del buon Dio. Una missione già fallita in precedenza, che per riuscire richiede gli sforzi di un uomo di fede particolarmente capace.
Così padre Daniel, ovviamente in incognito, è costretto a intrufolarsi tra gli ospiti nudissimi del campo, gestito dallo spregiudicato Léon (Nicaud). Come si può immaginare, tuttavia, le mire evangelizzatrici si spengono subito a causa delle continue difficoltà a muoversi in un ambiente in cui si è senza vestiti sempre e ovunque. A lui rifilano un'orrenda salopette (per qualche giorno, poi dovrà togliere pure quella, gli viene detto), ma il problema è comunque quello di trovarsi di fronte, sempre e comunque, a donne e uomini nudi a perdita d'occhio...
Il film sta tutto qui, al netto di un finale “giallo” (si fa per dire) aggiunto perché davvero era impossibile proseguire un'ora e venti senza uno straccio di trama. C'è il proprietario del campo che maledice il giorno in cui l'ha affittato a Léon e passa senza sosta lì davanti sparando alle insegne e ci sono soprattutto le facce di Paul Préboist, che dovrebbero rappresentare l'unico motivo per poter catalogare come comico un film che in realtà di battute di fatto non ne conta, limitandosi a una interminabile esposizione di seni e sederi da far invidia ai vecchi “nudies”. Poi però, non potendo esagerare, quando si rischia di inquadrare le “parti davanti” c'è sempre chi ridicolmente le copre con le mani, chi viene occultato da inquadrature ad hoc, mentre la maggior parte viene nascosto dove serve da foglioline stile Adamo ed Eva, borselli a tracolla o utilizzando ogni tipo di espedienti che saltuariamente lasciano spuntare al massimo qualche pelo qua e là.
L'umorismo è parrocchiale, elementare, si direbbe spuntato se solo avesse una punta di satira o di ironia tagliente, ma siamo a livelli talmente bassi che anche definirlo sorpassato, oggi, pare un eufemismo. Potrà incuriosire giusto chi è interessato a vedere belle figliole (molti meno gli uomini) in déshabillé. Patetica la figura del vescovo spinto ad agire contro il povero padre Daniel dal prete invidioso, un po' triste (più che comica) quella di Préboist regolarmente sull'orlo del pianto, triste o sconsolato per la situazione in cui versa fin quasi dall'inizio e che migliora un po' nel finale.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA