Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Film simpatico che non si discosta molto, come qualità e stile, dalle fiction in divisa che spopolano da anni in televisione. È un capolavoro? No. Ma non aveva certo la pretesa di esserlo. È il totale disastro del quale tutti parlano? Nemmeno. Tanti poliziotteschi degli anni '70 erano decisamente più squallidi, con l’aggravante del volersi prendere sul serio. Qui invece il tono ironico è dichiarato a esaltare l'indole guascona di Tomba. Tutti sanno che non è un attore, ma, nonostante questo, non fa peggio di certi sex-symbol (o comici culto) che ne fanno una professione da decenni.
Ci propina dei Cenobiti tra i più brutti della serie (Chatterer versione tronco è orrido, le due ladies lascive un tributo al low budget più sgangherato), eppure è un thriller limaccioso con ramificazioni poliziesche e mefistofeliche che scudiscia lo spettatore a ragion veduta e che cala, errore mortifero, in concomitanza con l’entrata di scena di un Pinhead a cui vien da chiedere perché si trovi lì. Derrickson partecipa con volontà, Sheffer altrettanto, Bradley si gira i pollici durante il liberatorio ritorno, perlomeno, del pilastro dei tormenti. Più che cinque, Hellraiser Seven.
Il ritrovamento di un'urna pare scatenare Mater Lacrimarum, il cui scopo è quello di iniziare una nuova era delle streghe. Potremmo stare qui giorni a ridere di quanto il film sia mal scritto, mal recitato, di tutti gli scivoloni nel comico involontario e di quanto ogni trovata superi per ridicolo la precedente, ma la cosa peggiore è che ormai qui il tutto è talmente mal girato, sciatto e grossolano che non ci si crede e persino una mitologia interessante come quella delle tre madri diventa una trama da episodio di una serie Rai.
Tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King, il film deve molto all'interpretazione dei due protagonisti: James Caan e Kathy Bates. Il primo, pur trovandosi in una situazione da incubo, riesce, con le espressioni del suo volto, a dare connotati ironici, che non stonano, alla crescente tensione del film. L'ironia si ravvisa quando piano piano questi constata la follia della donna che gli ha salvato la vita in seguito a una caduta dell'auto in un crepaccio. La seconda offre una delle migliori performance tra gli attori che hanno interpretato uno psicopatico. Valida anche la fotografia.
Harmony chiama al dovere Chloé (si conoscevano), assolda un cast di attori inesperti che ricambiano la fiducia, uno narra (brividi) c'è un ragazzino errante che funge da narratore silenzioso (che impressione). Regia classica mista a filmini amatoriali, le ambientazioni sono case e luoghi di aggregazione comune, posti dove gli angoscianti copioni hanno un impatto sconvolgente. Risulta accurata anche la scelta musicale, ennesimo elemento angosciante e disturbante, Buddy Holly assume sfumature sarcastiche (ha anche l'aria da maniaco), Madonna è sempre spudorata. Innovativo e ben diretto.
"Risalire quel fiume era come tornare indietro nel tempo". Così scriveva Conrad in "Cuore di tenebra", il libro che Coppola ha ridotto in immagini tra le più forti del cinema e trasportato dal Congo al Mekong, ricostruito nelle Filippine. Ma il Vietnam è solo una metafora della guerra, una scusa per un racconto che sfiora l'antropologia e si insinua nelle anse e nei rivoli più bui della mente umana, nella sua corruzione. La regia si fa così via via evocazione, fotografia cupa e sonoro destabilizzano, l'orrore gratuito e primitivo, che la versione redux amplia ma non distorce, sgomenta.
Definirlo un film per famiglie vorrebbe dire dover prima verificare lo stato mentale delle suddette, perché produzioni del genere - rigorosamente giapponesi - contengono un tasso di innocente demenzialità talmente alto che li fanno piuttosto avvicinare a qualche favola pazza per bambini, qualcosa che non è facile nemmeno concepire, da queste parti. Già il fatto che il protagonista sia un granchio fa capire molto. Ingigantitosi a dismisura (diciamo a dimensioni umane, visto che nel pesantissimo costume deve infilarcisi un uomo) a causa delle solite mutazioni imputabili...Leggi tutto a poco precisati disastri avvenuti sulla crosta terreste, questo strano essere dalla pancia bianca e la crosta rossa, dotato di grosse chele ma perfettamente in grado di reggersi sulle gambe come noi, viene raccolto sulla spiaggia da un bambino che, accortosi di come questo parli e sia cortese, lo invita a casa presentandolo ai genitori. Mamma e papà, tuttavia, avanzano pesanti riserve, alla richiesta di tenerlo lì da loro, anche perché in questo caso non è un modo dire: l'ospite puzza, e ben prima dei canonici tre giorni!
Ma la famiglia è povera e al padre è già venuto in mente di vendere il bestione per farlo bollire e ricavarci un bel po' di denaro. Fa l'errore di dirlo a voce alta, però, e il granchio (non ha nome, lo chiamano tutti così, e d'altra parte lui finisce quasi ogni frase inserendo a sproposito la parola "granchio"), che ascoltava dietro una porta, fugge giustamente di casa andandosene all'avventura. Lo vediamo nella metro mentre nessuno gli bada, come se fosse normale trovarsi una cosa simile seduta a fianco. D'altronde, in caso contrario, l'intero film dovremmo passarlo ad ascoltare gente sconvolta che urla al solo apparire del nostro eroe... Il quale intanto capisce che per farsi una posizione dovrà trovare un lavoro. Finisce così a fare il cameriere in un night, mentre un giorno, al mercato del pesce, notando quanto la "polpa" di granchio sia rinomata, si apre una fenditura nella corazza ed estrae la sua, rivendendola a caro prezzo. Ottimo, se non fosse che, senza di quella, il nostro perde i sensi e quando li riprende si ritrova completamente "scemo"! Un tallone d'Achille di cui nel corso del film qualcuno approfitterà.
Al lavoro il buon granchio conosce un'avvenente entraîneuse e non sarà l'unica donna di cui s'innamorerà. Perché il poveretto prova anche dei sentimenti, e quando abbraccerà un'altra ragazza per cui stravede (e che salva dal suicidio) proverà sensazioni indescrivibili! Su di lui, frattanto, ha messo le mani la yakuza, scoprendo come sappia fare delle splendide bolle di sapone (la cui utilità poi... mah).
Passiamo però al motivo per cui diventerà portiere, come suggerisce il titolo: mentre una sera è alle prese con il suo nuovo lavoro di servitore al bar, qualcuno nota come Granchio si sposti a velocità incredibili orizzontalmente (come tutti i granchi, del resto), passando da una parte all'altra del bancone in una frazione di secondo. Perché non provare a vedere se riesce a fare la stessa cosa anche mettendolo in porta? Eccolo così arruolato nei God Hands da un allenatore lungimirante, nonostante il presidente della squadra faccia giustamente notare che il loro campo "è sacro! Non è fatto per i frutti di mare!".
Non sarà una lunga avventura, quella nel calcio, tutta concentrata com'è in un'unica partita. I rivali sono i temibili Daemon Stars, pronti a estrarre (quando il gioco si fa duro...) coltelli e altri arnesi appuntiti assalendo gli avversari uno a uno senza che nessuno protesti più di tanto. Ma a contare le follie, in film così, si perde presto il conto. Il make-up del granchione si limita a lavorare bene giusto sulla bocca a tanti denti, il resto è parecchio rigido, con le gambe dell'animatore che spuntano sotto.
Fondamentali il rapporto col bambino amico fedele, presenza costante in ogni favola giapponese (affiggerà pure un manifesto con un rozzo disegno e la scritta sotto “Cerchiamo questo granchio”!), il carattere ingenuo e sincero del granchio... Sarebbero in questo caso fondamentali anche gli effetti speciali, che invece non si rivelano purtroppo all'altezza di quelli visti in altre produzioni analoghe, ridotti a un uomo mascherato che saltella, cammina di lato e quando è in porta viene velocizzato da rozzi effetti in moviola. Dialoghi elementari, regia approssimativa di Kawasaki. L'importante era inventare un buon numero di idee demenziali ed effettivamente quelle non mancano...
Piacevole racconto di vita che usa il calcio come pretesto per inquadrare il personaggio di una madre che sogna per il figlio un futuro da calciatore vedendo in lui le potenzialità (il mancino naturale fa riferimento al tiro del ragazzino) per portarlo a giocare ad alti livelli. Ma è solo l'amore cieco di una madre che dopo aver perso il marito si ritrova a riporre tutte le sue speranze nel figlio o davvero il piccolo Paolo (Perinelli) ha le qualità che la donna nota in lui? Isabella (Gerini) segue il piccolo con foga dietro la rete che delimita il campo, si lancia in commenti...Leggi tutto accesi irritando gli altri genitori seduti sulla tribuna e, non appena Paolo segna, esulta senza freni. Lavora come rappresentante dolciaria, un lavoro che non ama e che la troppa attenzione dedicata al figlio non le permette di svolgere con la dovuta attenzione.
D'altra parte Marcello Dapporto (Ranieri), una specie di procuratore con l'aria del losco traffichino, le ha promesso di far partecipare Paolo al provino per una squadra di serie A, se recupererà tremila euro. Ma la cifra non è indifferente, per Isabella, e intanto Paolo a scuola va male, è diventato un asociale, pensa solo agli allenamenti e la vita pare andare un po' storta per entrambi. Fino a quando, come vicino di casa, arriva Fabrizio (Colella), sceneggiatore televisivo senza grandi prospettive che prova a relazionarsi in qualche modo con la bizzosa Isabella, cresciuta pensando solo al denaro e al suo Paolo. Una situazione che pare stagnante ma che invece la ricerca dei tremila euro stravolge, facendoci conoscere ancor meglio la protagonista, la quale, per rintracciare il denaro necessario per il provino, non si ferma di fronte a nulla. Per questo ricontatta i suoceri di Vicenza (Bressanello e Ricciarelli), con cui non corre buon sangue. Ma se il padre del marito è uomo di buon cuore, che non pensa mai troppo al passato, di altra pasta è la madre, che con tutta evidenza non l'aveva mai considerata la moglie giusta per suo figlio.
Claudia Gerini si prende tutto lo spazio per sé e mostra la faccia della donna decisa, risoluta, tormentata ma con le idee ben chiare, senza fortunatamente mai scadere nella macchietta. E questo è merito soprattutto di una sceneggiatura calibrata che la regia di Salvatore Allocca mantiene nei ranghi del ritratto simil neorealista moderno, cedendo ogni tanto nel mostrare la sfacciataggine di Isabella ma trovando nella Gerini l'interprete ideale a rappresentare la madre (di Latina) che deborda com'era giusto fare per donare veracità al personaggio.
Meno riuscite le parentesi dedicate al bambino e alla sua amichetta di classe, l'insistere troppo sul mutismo del piccolo che invece già meglio funziona quando interagisce con il vicino di casa, ben interpretato da un Colella sufficientemente disilluso nei confronti del suo lavoro eppure ancora in grado di idealizzare l'amore. Il rapporto tra lui e Isabella riserva forse le cose migliori di un film non certo perfetto ma in fondo piacevole, dai tratti commoventi (nel finale) e non privo di qualche spunto ironico che non guasta. Riuscita anche la pur scontata figura del procuratore, che Ranieri dipinge con anima napoletana da “chiagni e fotti”.
Se nei suoi noir Kitano mescolava con sapienza la ferocia a quella comicità che gli è sempre appartenuta, qui scinde nettamente le sue due anime, mostrando come lo stesso tipo di storia possa risultare completamente diversa a seconda dell'approccio scelto. Il primo approccio è quello più tradizionale, nel quale seguiamo le avventure di uno cupo tizio detto "il Topo" (Kitano), un sicario come tanti. Si fa consegnare al bar le buste (rigorosamente firmate "M.") con le istruzioni per la missione da svolgere, va a casa, apprende le due o tre cose...Leggi tutto da sapere sull'obiettivo da eliminare e parte in missione. La sua prima vittima è un giovane delinquente, avvicinato in discoteca mentre è seduto con i suoi amici. Una strage, dalla quale l'uomo poi si allontana senza alcun problema scomparendo nel nulla, pronto a ripetere la stessa cosa poco dopo: puntata al bar, busta, istruzioni e via dicendo. Un tran tran interrotto solo dalla polizia, che finisce col beccarlo e lo convince ad arruolarsi come agente sotto copertura per sgominare una banda di narcotrafficanti.
Un plot tradizionalissimo, composto da elementari stereotipi, l'ideale per essere parodiato nella seconda parte del film, quella che in fondo è la più “vera”, quella che cioè gli dà un senso giustificando l'ovvietà della microstoria narrata fin lì. "Spin off", quindi (come dichiara una didascalia), e si stravolge tutto: il nostro sicario (sempre interpretato da "Beat" Takeshi, naturalmente) fa le stesse cose della sua controparte seriosa ma ottenendo risultati opposti. Entra nel bar e crolla sulla sedia rotta, sbatte dappertutto, dà per errore fuoco alla casa in un crescendo di episodi fantozziani che fanno sorridere ma senza che mai si riesca ad apprezzare la gag geniale in grado di dare, alla rilettura in chiave comica degli stessi eventi, la dignità che meriterebbe. Perché a volte certe battute sono raggelanti (magari anche perché poco alla portata di noi occidentali), perlopiù incomprensibili, e viste con gli occhi di chi è abituato a ben altro potrebbero portare a domandarsi se Kitano ci fa o ci è.
Come spiegare il fatto che il protagonista ogni tanto s'infili una maschera da lottatore, ad esempio, senza motivo alcuno? E certi scatti verso il demenziale puro (l'apparizione di una maschera da topo quando qualcuno lo chiama il Topo) possono lasciare interdetto più d'uno, così come la scena dell'ottico che fa leggere la tabella con le lettere al suo paziente prima d'impazzire completamente. Senza contare che alcune gag, come quella (vetusta) del ragazzino nello zaino che legge la lettera consegnata al protagonista, se solo avesse avuto il coraggio di farla qualcuno con meno "titoli" di Kitano sarebbe stato dileggiato...
Insomma, sembra quasi che il nostro si sia lasciato andare liberando tutta la sua vis comica senza arretrare di fronte a qualche passo falso di troppo, azzeccando comunque molti passaggi e riuscendo a non tradire uno stile consolidatosi negli anni, che lo porta a gestire in modo intelligente le pause e i silenzi. Che siamo di fronte a poco più che uno scherzo lo confermano comunque i messaggi stile telefonino che passano su schermo nero d'improvviso, qua e là, commentando quanto appena visto... E la durata di poco superiore all'ora lo conferma. Da non prendere sul serio, insomma.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA