Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
La scuola capsula pressurizzata di tensione esistenziale e parco giochi del panico borghese. La verità onnicollocata, teletrasportabile e imbiastardita. Reinsve iperuranica a tracolla, Tondel sferra una prima parte rigorosamente latente ed essiccata, con il rigore di quel Bergman di cui porta i geni e una seconda manifesta, incubo lirico cui sopravvivere a stento. Un requiem per l’innocenza, una sbronza psicoemotiva ed estetica da prendere complementarmente con Wandel. Tondel firma il suo nome col fuoco nella tavola dei grandissimi: non come promessa, ma come profezia già compiuta.
Cocente delusione e mediocre operazione commerciale. Scelta sbagliata del regista, già autore di altro remake. Questo nuovo Jason che si rintana in cunicoli sotterranei ha una bella faccia tosta. Un reboot avrebbe avuto senso solo estremizzando gli effetti gore e splatter, scagionandoli finalmente dalle fisime censorie. E invece vengono (ri)proposte morti via machete e coltello già viste nell'arco della saga. Anche il look del killer non è che faccia scalpore (sembra uno dei mutanti di altro remake). E pensare che la retta via era stata indicata dal gorissimo reboot non ufficiale!
Letteratura mitologia neuropsichiatria epica pittura poesia filosofia per un doppio archetipo dell‘agone con potere, solitudine e delirio. Eggers erige oniromanzia delle più audaci e barocche, una sinfonia di simboli e un incubo cosmogonico che danza sublime e selvaggio tra Pro(me)teo e Melville, Jung e Lovecraft, Poe e Jewett, Stevenson e Delville, Platone e Schneider con la cupa iperestetica di Tarr e la guanosa sporcizia di Zeno, una rugginosa odissea psicotica dalla quale è estatico non uscire indenni. I balletti performativi di Defoe e Pattinson sono pura trascendenza attoriale.
Il Vaticano è minacciato da una bomba costituita da antimateria e dietro c’è un preciso disegno destabilizzante ordito da un’antica setta, denominata degli “Illuminati”. Roboante action che descrive Roma e soprattutto la Chiesa Cattolica come solo gli americani possono fare: kitsch, fiabesche, malignamente intricate. Un mix letale di Ian Fleming e Umberto Eco che non può che far sorridere per l’ ingenuità dei contenuti e degli scopi ultimi.
"Una parte di te" è un esempio di come i film nordici riescano ad affrontare tematiche delicate con grande efficacia, riuscendo a evitare i rischi del patetismo. E così la fragilità adolescenziale, che cerca di celare le proprie difficoltà esistenziali, deve venire allo scoperto nel caso di un tragico lutto. Nel film c'è tanto che funziona bene, a partire dall'ottima prova della protagonista, interpretata da una Felicia Maxime che riesce a rendere al meglio quell'intensita' che il ruolo richiede. Da apprezzare anche la regista Sigge Eklund, al suo primo lungometraggio.
Una confezione povera penalizza un film altrimenti buono, che sfrutta il tema razziale in maniera esplicita inscenando un dramma erotico sullo sfondo delle piantagioni. I proprietari sono spietati, trattano gli schiavi di colore come bestie, mentre questi sanno porgere l'altra guancia. La Longo è crudele nel provocare gli schiavi, concedendosi ma poi negandosi sul più bello, in un riuscito conflitto interiore tra passione e odio, ed è pure l'unica che si mostri nuda integralmente. Non tutte le scene erotiche sono girate bene, ma raggiunge lo scopo. Buona Ost. Morale finale.
Il sequel di JAWS OF LOS ANGELES, uno dei più catastrofici shark movie di sempre, riesce a peggiorare ulteriormente le cose abbandonando persino quella lontanissima (diciamo praticamente nulla) parvenza di cinema che poteva catalogare il numero uno alla voce “film”. In comune ci sono una fotografia aberrante, qui resa disgustosa da un filtro ocra disturbante, e il grado zero a livello di tecnica sfoggiato in entrambi.
Si è comunque operata una cristologica moltiplicazione dei pesci che aumenta a dismisura...Leggi tutto il numero di squali presenti sulla scena e che li vede sfrecciare in volo esattamente come nel PIRANHA PAURA di Cameron. Purtroppo, in questo caso, gli effetti non sono di Giannetto De Rossi e la sua équipe ma di un fresco acquirente di Pc dotato di programmino 3D, il quale s'è impegnato a disegnare tanti squaletti in fretta e furia applicando poi un furioso copia e incolla per piazzarli un po' dovunque sullo schermo nei rari momenti di attacco. I pescecani volano orizzontalmente a velocità supersonica e se sei sulla loro traiettoria ti centrano in faccia facendotela rossa come se ti fossi preso una fortissima insolazione. Se qualcuno di loro ha tempo si stoppa d'improvviso e si sofferma per mangiucchiarti.
La trama (se così vogliamo chiamarla e considerando che nulla ha in comune con quella – altrettanto inesistente – del numero uno) mette al centro una presunta squadra di beach volley femminile composta da giovani parecchio in carne che zompano sulla sabbia con scarsa leggiadria, non dando esattamente l'impressione delle campionesse. Quanto accade loro ce lo racconta una del gruppo parlando (in macchina) al proprio video diario, spiegandoci come tutto fosse fantastico, prima della disgrazia. Erano tutte lì per divertirsi, cercare maschi, giocare sulla spiaggia, quando decine di squali volanti sono arrivati a guastare loro la festa.
A fare una brutta fine è dapprima l'allenatore – ricoverato in fin di vita con il viso arrossatissimo e sbattuto in terra dal passaggio di una mandria di squali in volo – quindi le ragazze, vittime di una fine non dissimile. La trama sta tutta qui, perché è difficile ad esempio far rientrare nella stessa un presunto pugile (passa il tempo in casa ad allenarsi tirando pugni all'aria al tempo di “The Final Countdown” in versione tarocca) che combatte gli squali volanti in spiaggia prendendoli a calci e pugni mentre puntano verso di lui: è probabilmente la scena più delirante dell'intero film, conclusa con un pescecanone gigantesco che gli piomba dalle nuvole sulla testa senza lasciargli scampo.
A riempire metraggio, poi, benché il film si arresti prima dell'ora lasciando spazio a interminabili titoli di coda che presentano tutti i personaggi (e relativi attori) come se avessimo notato che esistevano, ci pensa la nostra squadra di volley sovrappeso: tutte insieme a ballare lungamente in casa a più riprese a tempo di rap come nei più inutili video di TikTok. Salvare qualcosa in un simile guazzabuglio diventa impresa impossibile anche per il più incallito dei trashofili, mentre in chi guarda resta in testa un solo, inquietante interrogativo: cos'è quel gigantesco muso di squalo che a metà film, d'improvviso e dal nulla, ascende in cielo come una visione mistica, ruggendo paurosamente e spaventando gli astanti? I più inspiegabili sette secondi del film...
Il rapporto genitore-figlio continua ad essere centrale e dominante, nel cinema di Ivano De Matteo. Sofia (Francesconi) è figlia di una famiglia apparentemente integerrima come lo era Mia nel film con Leo, e come lei vive in un mondo che è lontano da quello di suo padre Piero (Accorsi), senza nemmeno desiderare che si possa trovare un terreno comune sul quale confrontarsi. Soprattutto ha un rapporto conflittuale con Chiara (Thony), la compagna di Piero subentrata alla madre morta. Per quanto quella provi a coltivare una relazione pacifica,...Leggi tutto a suo modo matura, Sofia punta allo scontro aperto: semplicemente non la sopporta; a lei non permette nemmeno di nominarla, sua madre, e se appena Chiara si avvicina tentando il dialogo, Sofia ringhia.
Un giorno, con Piero fuori casa, Sofia invita lì il suo ragazzo credendo di poter passare la serata da sola insieme con lui, ma Chiara è rimasta: non sta bene e promette di chiudersi in camera senza disturbare. Non basta: Sofia è furiosa e, durante un aperto diverbio in cucina, con movimento si suppone solo parzialmente involontario colpisce Chiara con il coltello, uccidendola. Lo shock è fortissimo. Piero torna e trova disteso sul pavimento il cadavere della compagna, Sofia è in stato catatonico e vaga in trance per la strada, dove la polizia la trova e la accompagna in Centrale.
Comincia la lunga fase in cui l'adolescente non dice una parola, subendo le decisioni di chi l'ha in cura e senza che il padre, col quale ha comunque sempre mantenuto un buon rapporto, abbia modo (né poi desiderio) di vederla. Mariella (Cescon), l'amica avvocatessa di Piero, accetta di occuparsi del processo; ma non è il processo, che il regista vuol raccontare. Di Matteo punta invece la lente soprattutto sulla vita di Sofia all'interno dell'istituto di correzione dove è reclusa e dove fatica a integrarsi, ancora vittima di una incapacità di “metabolizzare” quanto avvenuto. Le compagne di camera la scuotono senza porsi troppi problemi, ma quello che accade all'interno di un luogo che ha la forma precisa del carcere non sembra risultare granché significativo; la constatazione di una condizione inevitabilmente penalizzante è osservata con fin troppa neutralità, con spirito neorealista che non trova nella Francesconi (non per colpe sue) la sponda ideale per caricare il personaggio della necessaria centralità.
Quanto ad Accorsi, che si strugge in separata sede, non si va molto oltre l'ordinario, con l'unica vera intuizione rappresentata dal giudizio severissimo nei confronti della figlia, dal momento che la vittima era pure incinta. Un doppio binario condotto senza fantasia (non che fosse necessariamente richiesta) e scene poco capaci di veicolare un messaggio diverso da quello elementare che si può trarre dall'analisi dello stato dei fatti. Rispetto alla forza dirompente dimostrata dal regista in altre occasioni precedenti (non solo in MIA ma anche nell'eccellente I NOSTRI RAGAZZI, ancora una volta giocato sulla distanza tra genitori e figli), qui si smarriscono lungo la via gli ottimi spunti che potevano nascondersi in un'azione tanto imprevista e definitiva come l'omicidio, per sviluppare reazioni tutto sommato ordinarie e mai intriganti come si poteva sperare; mantenendo inalterata la maturità nell'approccio al tema ma restando piuttosto in superficie...
Rapiscono la figlia del suo capo e lui parte in caccia per recuperarla. Potrebbe esaurirsi qui, il riassunto di un soggetto che non fa certo dell'originalità il suo punto di forza. D'altra parte parliamo di un genere - all'interno dell'action di marca prettamente hollywoodiana - che non ha bisogno di null'altro che di un protagonista carismatico e di un regista che sappia dirigere con sapienza ritmo e azione, per garantirsi un pubblico. Qui però in sceneggiatura (e pure alla produzione) troviamo Sylvester Stallone, la cui mano in qualche passaggio ironico si sente....Leggi tutto Trovato in Jason Statham un credibile alter ego al suo Rambo (o Cobra, se vogliamo rimanere in ambiti più simili), Sly gli cuce addosso parti di sé e questo, dal punto di vista della godibilità nel tratteggio del personaggio, fa guadagnare punti al grugno impassibile di colui che più di ogni altro, negli ultimi anni, ha saputo incarnare l'eroe invincibile capace di annientare da solo intere legioni di criminali.
Qui il nemico ha le tante facce della mafia russa, che sequestra la figlia (Rivas) del costruttore edile (Peña) per cui Levon Cade (Statham) lavora. Lo vediamo all'opera nell'incipit, il nostro "working man", a capo della sua squadra di onesti operai che se male ti comporti nelle sue vicinanze ti fa nero. Quando il padre della rapita lo supplica di aiutarlo a ritrovare la ragazza, lui risponde deciso che non fa più quel lavoro, ma poi passa dall'amico non vedente che conosce bene il suo passato nei Royale Marine inglesi e gli annuncia di aver deciso: riporterà indietro Jenny Garcia, costi quel che costi! Il che significa, lo sappiamo tutti, imbracciare il fucile per trasformarsi in una macchina da guerra inarrestabile, avviando indagini che sortiranno un'infinita scia di cadaveri. Non vuoi parlare? T'ammazzo. Parli? T'ammazzo lo stesso, che mi frega.
Dal pesce piccolo al pesce più grosso - come si autodefinisce Dimi (Osinski) - è solo questione di tempo, perché prima o poi tutti finiscono nella rete di Levon. Il quale, per entrare nel giro giusto, si finge spacciatore e comincia a salire i gradini verso il vertice. Incappando negli inconvenienti di sempre, naturalmente: gente manesca dal grilletto facile, poliziotti corrotti, brutti ceffi dal ghigno sadico e l'intero campionario del genere. E lui lì, a spiaccicare quattro parole, lanciarti un'occhiata di fuoco e poco dopo a spararti in faccia. E la rapita? Lei è un peperoncino: morsica i suoi rapitori, scalcia e si rende degna figlioccia del giustiziere amico di papà. Il quale avrebbe anche una figlia propria, a dire il vero, pure più piccola, ma questa è un'altra storia, una storia di quelle che van bene come riempitivo: baci e sorrisi, la madre morta, il suocero insopportabile.
Il film sta altrove, e David Ayer (che già aveva diretto Statham nel meno centrato BEEKEPER) replica con un po' di brillantezza in più e il film scorre che è una bellezza, senza pause fino all'immancabile epilogo (che ci potevano risparmiare, per quel che serve...). Azione ben diretta, le facce giuste e un bel po' di violenza gratuita che tale non può in verità essere definita, in un film che vive di quello e di una discreta dose d'ironia. Al mafioso che si vede puntare minacciosamente la sua arma addosso e gli domanda se è uno sbirro, il nostro risponde solo: “Ti piacerebbe, che lo fossi...”; mentre al superboss seduto sul trono e circondato dai suoi sgherri che gli fa la stessa domanda per capire se è uno affidabile replica: “Io no, e tu?”.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA