Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
I coreani sembrano prediligere serie imperniate su gruppi di sconosciuti costretti a misurarsi in giochi vieppiù pericolosi, attirati da somme favolose messe a disposizione da misteriosi paganti. Il riferimento a Squid game è evidente, comunque la serie ha una prima parte che si distingue per originalità; purtroppo nel prosieguo si accentua (anche qui) il tasso di violenza fine a sé stessa e con accenni a Arancia meccanica, ma senza possederne l'ironia e la qualità. Questa lunga parentesi, disturbante e inutile, sminuisce in parte l'ottima prova del cast e il commovente finale.
Film sentimentale di discreta qualità. La storia di per sé è interessante e non cade mai nel mieloso o nel melodrammatico. Intrattiene perlopiù. Ovviamente non mancano momenti che si perdono in lungaggini o che addirittura potevano essere esclusi. Keanu Reeves e Sandra Bullock si confermano un buon duo di attori. Apprezzabile la fotografia, meno la colonna sonora.
Con tecnica che raffinerà poi nell'elegia per la Hollywood fine anni '60, Tarantino ci trasporta nell'atmosfera adrenalinica del secondo spettacolo al cinema della sua giovinezza. Ecco quindi gli inseguimenti in auto dei polizieschi, l'omicidio di giovani donne dei thriller; ma soprattutto gli stuntman. Quello della finzione, l'eccellente Russell, ennesima sua riscoperta; e quello vero, Zoe Bell, controfigura di Thurman in Kill Bill, erede di Jackie e Beatrix nel ruolo di eroina. B-movie per finta, dato il budget e la qualità di riprese e montaggio. Ma nella storia puro Grindhouse.
Robbie Williams sceglie di farsi rappresentare da una scimmia animata in CGI e costruisce, insieme a Michael Gracey, una bella metafora di quella che è stata la sua travagliata parabola artistica, diverso sin da bambino e poi travolto da una fama desiderata e cercata. Il biopic che ne salta fuori è patinato nella confezione, a tratti lisergico come un Moulin Rouge, non particolarmente rigoroso per quanto riguarda la cronologia, con piuttosto qualche libertà nell'abbinare i vari pezzi ai momenti chiave della sua vita. Ritmo alto, una prospettiva che prova a essere onesta, niente male.
Divertente opera corale, non così dispersiva come sarà Grandi Magazzini, che preferisce condensarsi in quattro storie principali. Celentano rifà Il bisbetico domato sostituendo la Muti con la Giorgi, tanto è uguale. Abatantuono sfodera i suoi rinomati sfondoni e calembour "terruncielli" come mago di Segrate; Montesano si sdoppia per amore figliale, mentre Verdone è un pugile con poco talento e molti vizi. Spazio diviso non proprio equamente per una commedia che parte frizzante ma poi tende ad afflosciarsi e ripetersi. Qualche taglio d’alleggerimento qui e là non avrebbe guastato.
Spassosa e raffinata commedia in cui una famiglia spaccata e in bancarotta intraprende un viaggio, più della disperazione che della speranza, pur di accontentare il più piccolo membro del gruppo, una bambina ammaliata da un concorso di bellezza. Opera che colpisce per il dosaggio con cui ogni protagonista viene progressivamente alla ribalta contribuendo a creare un lavoro in cui si raggiunge un non comune amalgama. Si aggiungano l'assenza di pause, i dialoghi mai banali, l'accurata fotografia, il felice commento sonoro ed ecco che siamo dalle parti del piccolo capolavoro.
La novità è di quelle che non sembrano proprio promettere bene: la splendida Val di Sole, teatro di tutte le avventure di Don Donato & friends nonché uno dei pochi punti di forza della serie grazie alla freschezza dei suoi suggestivi paesaggi montani, viene abbandonata in favore di Cinecittà World, espediente piuttosto desolante utile a fare un po' di promozione al parco tematico del titolo. Il nuovo capitolo porta insomma i consueti protagonisti a Roma, come “scorta” ai freschi sposi Luna (Murgia) e Luigi (Dianetti) in viaggio di nozze.
Ci...Leggi tutto sono tutti, con l'aggiunta dei recenti acquisti "coatti" Angelo (gemello del monsignore sempre interpretato da Mattioli) e Zara (Massera), la sua giovane compagna "ultraromana". L'arrivo in pullman ce li mostra sbarcare felici nella Capitale direttamente a Cinecittà, dove Angelo procura per loro dei braccialetti "vip" donatigli dalla signora francese (Clery) che si occupa della gestione del parco, la quale ha assunto come lavorante suo fratello, un tipo che non sembra avere proprio tutte le rotelle a posto (d'altra parte lo interpreta Ceccherini...). I nostri alloggerano in un albergo interno allestito con fogge draculesche e cominceranno presto a divertirsi con le attrazioni del posto nel chiaro obiettivo di pubblicizzarlo.
Edoardino (Milano) è ossessionato dal ruolo di padre da quando sa che sua moglie Gina (Stafida) è incinta, mentre lei è preoccupatissima dai "piedi a caciotta" (conseguenza della gravidanza) e da un corpo che si dice certa vedrà sfiorire. Più defilati invece – almeno inizialmente - Don Donato (Salvi) e il Monsignore (Mattioli), che lascia il campo libero soprattutto al gemello rozzo Angelo. Le altre tre donne invece, Luna, Zara e la single Olivia (Marchione), sono quasi sempre insieme con l'invadente e rumorosa Zara a prendersi la scena anche quando – secondo la storia - al centro dovrebbe stare Olivia, alla ricerca di un partner sull'immancabile app di incontri. A scaldare l'intreccio, tuttavia, è il fatto che il Monsignore si è portato dietro dalla Val di Sole quattro lingotti d'oro su cui ha messo gli occhi il fratello mezzo pazzo della signora francese, assistito da due tirapiedi che maltratta da par suo.
Sarà la caccia ai lingotti a movimentare una seconda parte in cui Ceccherini - anche ricorrendo a qualche volgarità inedita, per la saga - si impone come il personaggio più vivo e meno inquadrato del lotto (la ancora affascinante Clery interviene invece poco), che dà una sveglia a una formula da tempo stantia e che fatica a trovare gag in grado di donarle smalto. Fortunatamente Mattioli e Salvi sono piuttosto in vena (quando nella seconda parte possono imporsi) e Marco Milano in versione ringiovanita per l'occasione (si tinge i capelli e cambia look dopo che la commessa di un negozio di abbigliamento per bambini pensava, vedendolo, fosse il nonno e non il padre, del nascituro) qualche timida gag la offre.
Se quindi da una parte la location è indubbiamente molto più scialba, canonica e spenta, rispetto alle verdi montagne del Trentino, sottraendo suggestione al film, dall'altra la sceneggiatura meglio strutturata del consueto e la buona prova del cast (con Ceccherini miglior acquisto) permettono, con l'aiuto della regia vivace di Raffaele Mertes, di tenere a galla il tutto. Conosceremo poi una "particolare" ex di Luigi e un veggente con palla di vetro interpretato dal simpatico Jonathan del Grande Fratello. Più in funzione di “disturbatore solista” il Don Gabriele di Carbotti, prestigiatore dilettante, meno "inutile sfondo" rispetto alle puntate precedenti.
La prima montagna da scalare era sostituire un attore talmente fenomenale, nel suo ruolo, da diventare l'icona di un intero genere. Leslie Nielsen nella PALLOTTOLA SPUNTATA è l'equivalente di De Niro in TAXI DRIVER o, per rimanere nello stesso ambito, Peter Sellers nella PANTERA ROSA. Incarnò meglio di chiunque altro un nuovo modo di intendere la comicità che a tentare di confrontarti ci...Leggi tutto puoi solo perdere. Liam Neeson (curiosamente ha le stesse iniziali) poteva essere la scelta giusta, per quanto a livello di espressività nel campo non possa rivaleggiare: un attore (eccellente) del cinema drammatico e d'azione da reinventare per l'occasione in funzione comica.
Vedere Neeson alle prese col demenziale una sua efficacia ce l'ha; ciò che invece non è purtroppo allo stesso livello è il lavoro sul copione e dietro la macchina da presa, perché UNA PALLOTTOLA SPUNTATA, Nielsen a parte, era prima di tutto il parto di un trio dallo straordinario senso dell'umorismo: Zucker-Abrahams-Zucker avevano già fatto sbellicare l'America nel RIDERE PER RIDERE di Landis passando poi a dirigere in prima persona con L'AEREO PIU' PAZZO DEL MONDO, in cui Nielsen aveva in fondo solo una piccola parte. E per quanto pure loro in tre, Gregor, Mand e Schaffer (anche regista) faticano non poco a reggere il confronto. Per provarci recuperano subito alcune caratteristiche della formula originale: la voce di Drebin fuori campo in funzione di narratore posato e serioso in netto contrasto con ciò che si vede in scena, la femme fatale che fa sognare un po' tutti (Anderson, che ha un'unica, per quanto prolungata, gag in cui eccelle ed è quella in cui si esibisce in un folle canto "jazz"), i giochi di parole insistiti, le trovate buffe sullo sfondo spesso rilevabili solo in seconda lettura, i titoli di coda con il fermo immagine in cui a sorpresa qualcuno si muove...
Il tentativo di replicare la formula vincente con un remake (da intendersi come sequel solo perché perché Frank Drebin jr. è il figlio di cotanto padre) si pone come obiettivo di mantenere una serie di elementi riconoscibili che possano solleticare la memoria degli appassionati. In questo senso l'operazione funziona, anche se poi, mancando Nielsen, l'impressione è un po' quella delle tante imitazioni che già all'epoca cavalcavano l'onda ricalcando lo stesso tipo di formula. Le maggiori risate arrivano però dall'ennesima riproposizione delle "ombre" che da lontano suggeriscono ardite posizioni sessuali (Austin Powers ci ha costruito sopra i suoi momenti più riusciti). Le buone trovate, anche in linea con lo spirito della fortunata saga, non mancano (si pensi alla gru che solleva il rottame dell'auto incidentata allo stesso modo), ma intanto si capisce come tradurre i tantissimi giochi di parole presenti in lingua originale porti a risultati talvolta imbarazzanti per inefficacia quando va bene o totalmente fuori luogo quando va male.
A difettare poi è il numero delle gag, che nel modello erano sparate spesso talmente a getto continuo da generare sequenze irresistibili. Qui vengono disseminate con parsimonia o diluite in modo eccessivo (si pensi alla parentesi sentimentale, cui si aggiunge il pupazzo di neve animato), con un Neeson a volte spaesato o comunque lontano dalla resa impeccabile del suo formidabile predecessore. L'impressione è che l'impatto di ogni punto di forza della PALLOTTOLA primigenia sia stato dimezzato: inevitabile che pure il risultato non possa ambire alle vette dell'originale e neanche - minimamente - a quelle degli altri episodi della saga ufficiale, sovente sottovalutati. Lo spirito è conservato (per quanto limitatamente), l'efficacia complessiva purtroppo no, ma fa comunque piacere ritrovare al cinema un modo diverso e “coraggioso” di far ridere il prossimo, che non si preoccupa di apparire anche un po' puerile, sciocco, desueto. Interpreti promossi: Neeson il phisique du rôle ce l'ha, Danny Huston è un antagonista in linea con quelli di allora, Pamela Anderson sa prendersi in giro quanto basta.
Nuova ripresa della "Morte di Belle" di Simenon a molti anni di distanza dal film di Molinaro, che in bianco e nero aveva per primo trasposto lo strano caso in cui si dibatte ora Pierre (Canet), professore di matematica trovatosi ad essere l'unico testimone della morte di Belle, un'attraente ragazza ospite nella loro casa. Era la figlia di Aurélie (Nyrls), cara amica di Cléa (Gansbourg), la moglie di Pierre, e abitava da tempo con la coppia, vivendo però molto per conto suo e lontana...Leggi tutto soprattutto da Pierre, del quale tuttavia conservava nel telefonino un gran numero di fotografie: è una persona ambigua - scriveva la ragazza - indecifrabile, e aveva ragione. Pierre è introverso, si chiude nel suo stanzino (dal quale tuttavia spia la dirimpettaia che si spoglia) a correggere i compiti dei suoi alunni, ad ascoltare musica, a leggere libri di matematica.
Quella maledetta sera di pioggia Belle ha intravisto Pierre attraverso la finestra, poi è entrata in casa senza nemmeno parlargli. O almeno questo è quello che dice lui, fin da subito coinvolto in ogni interrogatorio dal momento che a quanto pare a quell'ora, in casa, era solo (Cléa era fuori da amici). E' andato a letto, si è risvegliato e gli ci è voluto un bel pezzo, prima di scoprire che Belle era stata strangolata (nuda) nella stanza in cui dormiva. Cléa è sconvolta (e non sa come dirlo ad Aurélie), lui molto meno: impassibile, quasi disinteressato a quanto accaduto, si accontenta di ripetere che lui non c'entra nulla, che con Belle non esisteva alcun rapporto e che i due, di fatto, quando si incrociavano in casa si ignoravano. Ma allora perché lei sembrava ossessionata da lui (e per nulla da Cléa)?
"Chi ha ucciso Bella Shermann?", si domandava fin dal titolo il vecchio film mantenendo per la giovane vittima il cognome originario del romanzo di Simenon, qui modificato in Steiner. Ma le indagini non proseguivano tradizionalmente e lo stesso accade qui, perché non si pensi di aver a che fare con un giallo classicamente inteso: indizi pochi e mai risolutivi, con Pierre che risponde alle domande cortesemente poste dal detective e dalla giudice limitando le parole, a volte spiaccicando monosillabi, magari solo un sì, un no... Snervante, perché oltretutto lo sguardo è perso nel vuoto e le risposte sono indolenti, di chi nemmeno pare capire perché ci si debba accanire su di lui.
Il film è il lungo viaggio nella mente turbata del vero protagonista, con sua moglie che lo asseconda e che, per cercare svago, si getta tra le braccia di un suo ex incontrato per caso in stazione. Lo studio sul modo con cui Pierre si interfaccia con i suoi interlocutori diventa il vero fulcro del film, soprattutto perché il personaggio si nasconde dietro un alone di ambiguità dichiarata che resterà a lungo, prodromo di un finale che lascia spazio a più di un'interpretazione e che potrà deluderà molti. Eppure lo studio psicologico di una situazione anomala gestita da figure che lo sono pure di più permette di assaporare un film diverso dalla norma, che parte da un testimone non-oculare dai tratti indubbiamente originali. Guillaume Canet lo interpreta bene, ricamando sulle sfumature per dare vita a un'autentica sfinge, affrontata di volta in volta da chi cerca di capire quanto sappia in realtà di un omicidio tanto oscuro. Meno incisiva la vicenda dell'adozione, un progetto di Pierre e Cléa destinato per forza di cose ad essere rimandato.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA