Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Rigadin è al ristorante che gioca a carte con i suoi amici. Uno scambio di abiti, però, lo metterà nei guai nel momento in cui dovrà destreggiarsi tra la moglie e l'amante. Monca porta sulla schermo per l'ennesima volta il personaggio di Rigadin rendendolo protagonista della più classica delle storie di fraintendimenti, che vedono l'uomo non riuscire a gestire la sua vita fedifraga. Grazie alla mimica di Charles Prince il personaggio riesce a conquistare il pubblico mentre la storia è un po' confusionaria e soprattutto ripetitiva. Non uno dei migliori corti del regista ma passabile.
Siamo alle solite. L’Argento del Ventunesimo secolo fatica a elevarsi oltre la meschina media dei thriller commercial-televisivi. A parte l’inizio promettente sostanziato da presagi celesti, si atterra velocemente alle quote consuete. Recitazione approssimativa o sciatta (male la protagonista), personaggi rabberciati o inutili (il bimbo, i poliziotti), psicologie incise con la scure. E uno snodo semplicistico che sfocia in un finale puerile che induce gli ex fan al malinconico sconforto. Espressivo il cane, tuttavia.
Ennesima trasposizione cinematografica di un racconto di King, questa volta affidata alla regia di Osgood Perkins. Il materiale di partenza, per quanto buono, non era assolutamente semplice da portare sul grande schermo condensando tutto in un'ora e mezza. L'atmosfera che si respira è quella di un tempo che fu, tipico anche degli horror anni Ottanta con l'aggiunta di una spruzzata di Final destination. Questo cozza un po' con i moderni effetti speciali, che contrastano con l'ambientazione in cui si viene immersi. Qualche buon momento di tensione c'è. Sufficienza più che meritata.
Un tizio mascherato da mostro tende agguati a belle bagnanti su una spiaggia, iniettando loro dosi di eroina e ipnotizzandole con una strana composizione organistica. Piccolo esemplare di exploitation argentina, morigerato tanto sul fronte erotico (non si va oltre qualche topless, tra l'altro neanche esibito esplicitamente) quanto su quello violento (giusto un paio di cadaveri con un pugnale nel petto). Un plot ripetitivo e pretestuoso, più vago che bizzarro, si appaia a una messinscena poveristica, salvabile solo nell'ottica di una rivalutazione su scala "vintage schlock". Bruttino.
Londra. Due attori disoccupati che condividono l'appartamento decidono di passare un fine settimana nella tenuta dello zio di uno di loro in campagna. Siamo nel 1969 ma soltanto qualche macchina e poco altro ce lo fa intuire. Il film sconta cali di ritmo, una regia che non incide e l'interpretazione a tratti non convincente di McGann. Molto bene invece Grant, che resta in testa così come Brown (soprattutto) e Griffiths. Molti momenti di buon umorismo e una sceneggiatura che mostra l'arguta intelligenza di Robinson rendono non inutile la visione. Stavolta è buono il titolo italiano
Qui ci si arrangia con gli avanzi (è il caso di dirlo). Stavolta l’asse portante concettuale riposa sullo scontro dei gruppi di prigionieri fra la Legge (con allusioni messianico-cristologiche) e una fantomatica “libertà”: simbolismo profondo, nel nostro caso, come una pozzanghera. Il resto sono urlacci e botte conditi dai soliti flashback che vorrebbero sostanziare i personaggi-manichino. La protagonista ha un volto interessante, ma rimane preda della mediocrità generale.
Quando si cerca di preconfezionare un cult ad ogni costo, il rischio di sbattere la testa contro il muro è altissimo. I riferimenti di TERMINAL sono il cinema pulp, Tarantino, quel modo di intendere la violenza che te la serve stemperata da dialoghi ricercati e personaggi bislacchi (in questo caso senza esagerare se non nel finale, quando finisce col sembrare fuori luogo).
Protagonista è Margot Robbie, già magnetica presenza che in film come SUICIDE SQUAD aveva mostrato il proprio lato più irridente e...Leggi tutto beffardo sotto la maschera di Harley Quinn: una maschera recuperata idealmente attraverso il trucco di occhi e labbra e quello sguardo killer che si stampa su di un viso senza imperfezioni, di bellezza statuaria eppure fortemente espressiva. Bastano un ammiccamento, un movimento d'occhi per sedurre e lasciarti a osservarla ammirato. Si presenta in confessionale ma di fronte a lei non c'è un prete, piuttosto qualcuno che lei mira a conquistare facendosi ingaggiare per nuovi "contratti". E' un killer? Forse no, perché quelli già ci sono (Fletcher e Irons) e se ne stanno chiusi in un appartamento al buio, in attesa di capire quale sarà la loro missione. Anche chi guarda se lo chiede, dal momento che non si può dire siano illuminanti, i loro scambi, parole che si perdono nel vuoto come un po' tutto quello che nel film accade.
In una stazione ferroviaria, ad esempio, un professore (Pegg) è in attesa di un treno senza che nulla gli importi della direzione in cui proseguirà la sua corsa. E' notte e lì incontra un inserviente (Myers, seppellito dal trucco) che lo consiglia di raggiungere un diner aperto h 24, dove verrà servito - guarda un po' - proprio da una splendida cameriera con le fattezze della Robbie. Con lei si confiderà, mentre i due sicari continueranno a pontificare sul nulla fino a quando non se ne andranno al night dove ammireranno danzare una coniglietta sensuale e provocante (sempre la Robbie!), che consegnerà loro una valigia. Si continuerà tra detto e non detto, con Pegg a lanciarsi in dotte dissertazioni e la Robbie a rintuzzarlo con malizia mostrandosi più matura di lui.
Tutto giocato su contrasti di luci artificiali di indubbio fascino (per quanto fin troppo artificiose) che lo immergono in un'atmosfera quasi cyberpunk, dominato in lungo e in largo da una protagonista plastificata da pose eccessive che la rendono a tratti fastidiosamente caricaturale, il film di Vaughn Stein è una coproduzione sterminata (partecipanti dall'Ungheria a Hong Kong, passando per l'intero universo anglosassone) che impiega troppo tempo a trovare una sua dimensione; soprattutto nelle scene con i due sicari azzecca di tanto in tanto qualche timida battuta, sciorinando però poi minuti interi di vuoto pneumatico; solo nell'ultima parte - con un Myers che torna sorprendentemente sugli scudi - prenderà finalmente coscienza della direzione in cui vuol virare, facendoci scoprire come tutto quello che sembrava costruito senza fondamento esclusivamente per stupire ha invece una sua traccia ben precisa da seguire, che si chiuderà nel kitsch e in uno sdoppiamento pretestuoso ma illuminandoci sui molti interrogativi che pareva non dovessero trovare risposta. Quasi mai divertente come si proponeva, un film con qualche guizzo ma che perlopiù annaspa, faticando a galleggiare. Piuttosto insignificante...
Variante “british” dei "Sette uomini d'oro", mantiene inalterato il numero dei protagonisti della saga di riferimento, anche se il settimo diventa l'elemento in più e non è sempre lo stesso: quello ufficialmente legato alla banda sarebbe Bernard (Ferro), costretto a rimanere in carcere a coprire la fuga, ma all'esterno, durante il colpo, il settimo diventa un cialtrone aggregatosi ai nostri per caso, Sam (Stander). Quindi il numero corretto dice 6 + 2: Bernard partecipa attivamente alla riuscita del piano, Sam è invece l'elemento disturbatore...Leggi tutto coinvolto loro malgrado perché, in quanto malato cronico, è presenza costante nell'infermeria da cui tutto parte.
Siamo a Londra, e il direttore del carcere cui dà il volto Adolfo Celi fronteggia da par suo – quindi con sublime sadismo – la rivolta messa in atto dopo il suo divieto a mostrare ai detenuti l'attesissima partita di Coppa d'Inghilterra tra Sheffield Wednesday ed Everton, per seguire la quale pare che l'Inghilterra intera si fermi. Dopo qualche giorno di faticosa resistenza da parte di sempre meno detenuti, arriva il momento di organizzare un colpo di cui nulla sappiamo. I sei del titolo (Moschin, Vianello, Mitchell, Gozlino, Zamperla e Corrà), coadiuvati da Bernard – che rimane in carcere per verificare che pure lì tutto proceda come stabilito e a trasmettere a beneficio delle telecamere di sorveglianza un filmato preregistrato che mostri come in infermeria nulla di strano stia accadendo – mettono in atto il loro piano: approfittare del calo generale di attenzione dovuto alla partita per fuggire e... rientrare! Avranno a disposizione esattamente un'ora e quarantacinque minuti (la durata del match) per realizzare una rocambolesca evasione e stampare nella zecca di Stato (dopo essersi procurati la filigrana) migliaia di sterline autentiche, da nascondere e recuperare in un secondo tempo, a scarcerazione avvenuta.
Agli ordini di Benjamin (Moschin), di fatto la mente (lo chiamano “Brain”, infatti), gli altri sfrutteranno le loro abilità per portare al termine la rischiosa impresa. Il film è la cronaca quasi in tempo reale di quanto accadrà durante la temporanea e segreta evasione, utile a procurarsi l'alibi più di ferro che si possa immaginare. L'idea, piuttosto originale, segue quella degli heist movie classici senza che però nulla ci venga anticipato, di modo che chi nulla sa potrebbe avere qualche difficoltà a capire cosa accade in scena.
Scelto come mezzo per spostarsi un autobus a due piani (cosa c'è di più inglese?) e dovendo subire l'esuberanza perniciosa di un insopportabile elemento disturbatore come lo sciatto, rumoroso e irritante Sam (ruoli simili purtroppo Stander li ha spesso ricoperti con esiti non felici anche in altri film), i sei cominciano a spostarsi da una parte all'altra della città portandoci a scoprire begli scorci di Londra. Si muovono sui tetti (notati dalla coppia Erika Blank/Ray Lovelock, veloci camei di utilità nulla), si travestono da pompieri, fanno un po' di tutto fronteggiando ovvi imprevisti, accompagnati da qualche bello stacco musicale jazzato di Trovajoli e dalla brillante “Seven Time Seven” cantata dai The Casuals.
La regia di Michele Lupo è piuttosto spigliata e la sceneggiatura è congegnata discretamente, anche se certi inserti di umorismo inglese “artefatto” (si veda lo sketch con il solito Terry-Thomas) e personaggi scarsamente sopportabili - come la vecchina petulante interpretata da Gladys Dawson e soprattutto il debordante Stander - non aiutano ad apprezzare il risultato. Vianello in chiave semiseria è depauperato, Moschin come architetto geniale anticipa un po' l'Ugo Piazza di MILANO CALIBRO 9. Si lascia vedere più di altri film in tema grazie all'originalità dell'ingegnoso piano, da scoprire un po' alla volta...
Thriller poliziesco scarsamente avvincente, s'aggroviglia in una trama piena di buchi e spiegata come capita, faticando alla ricerca di un movente decente da dare alle azioni del solito gruppo di sconsiderati che, già nella prima scena, vediamo entrare in un ristorante giapponese, sfondare la porta di una saletta intima dove una coppia sta mangiando e sequestrarne l'occupante maschio. La donna resta indietro, colpita di striscio e lasciata lì, mentre la povera cameriera giapponese viene ammazzata senza pietà.
Fine dei titoli di testa e si riavvolge il nastro,...Leggi tutto ma questa volta di sole sei ore, il che comporta che alla stessa identica scena assisteremo di nuovo dopo appena dieci minuti (dando uno strano senso di triste ripetitività); il tempo di spiegarci chi è il poveretto brutalmente rapito: si tratta di Larry Sorenson (Mehler), felice per aver trovato impiego come dirigente in una grande azienda come la MaxGen. Un ufficio di lusso e come collega una sventola (Openshaw) che lo invita subito fuori a mangiare. Al ristorante giapponese, per l'appunto, e ci risiamo; viene sequestrato da un gruppo di presunti terroristi che gridano contro l'imperialismo, lo legano a una sedia e diffondono un video di minacce: o pagate o lo ammazziamo.
Tutto molto improvvisato, a quanto pare. Per fortuna che a indagare c'è uno bravo, Jimmy Kelsoe (Kramer), il classico sbirro che non ride mai, con la faccia da duro che sa pure essere dolce, quando vuole; con la moglie (Gold) di Larry, ad esempio, decisamente sconvolta e che lo abbraccia per farsi consolare. Jade Marlo (Givens), la collega di Kelsoe, glielo dice chiaro: quella ti sta puntando, altro che preoccupata per il maritino... E poi quella coppia ha di sicuro qualcosa da nascondere: non vengono da Boston come sostiene la moglie (l'accento è troppo diverso), per esempio. Kelsoe ha capito subito che quella storia puzza di marcio...
Intanto i rapitori hanno messo una cimice in casa dei Sorenson e ascoltano quello che si dicono il poliziotto e la moglie non troppo inconsolabile... E questo ci introduce all'unico vero personaggio azzeccato del film: un ex galeotto russo (Danyliu) che mostra un'acutezza straordinaria. Smonta la cimice, spiega chi le produce e molto altro, facendo più lui in un cameo di pochi minuti di tutti gli altri nel corso del film. E' l'unico momento in cui ci si sveglia un po', sedati come eravamo dallo sguardo da marpione di Kramer, poliziotto dai modi spicci che quando c'è da fermare una rissa al biliardo mica esibisce il tesserino: prende tutti a pugni perché non gli piacciono le scartoffie da compilare. Meglio risolvere la cosa alla Bud Spencer. Anche la collega lo chiama John Wayne e la cosa fa pensare. Ancora di più quando quello indossa un giubbotto con spalline esagerate fuori moda da due decenni.
Regia fiacca, finale raffazzonato con la solita sparatoria notturna. E dire che si fa di tutto per dare ritmo al film: musiche, azione concitata, pistole spianate... Non basta: la storia, con colpetti di scena risibili e retroscena gangsteristici da quattro soldi, sa proprio di dozzinale, e non c'è verso di rianimarla. Non per colpa del buon Kramer, per carità, che in fondo il suo ruolo da poliziotto umano, comprensivo e con gli attributi lo sa interpretare...
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA