Se con THE CHASER Na Hong-jin aveva saputo inserirsi nel solco dei thriller complessi e davvero ben organizzati rilanciando il genere e sfoggiando doti indubbiamente non comuni, con THE YELLOW SEA ricade nella trappola del noir ad azione ipercinetica passando da una prima parte in cui sottolinea con toni amari la vita disgraziata del tassista Gu-nam (Ha Jung-Woo) a una seconda ben più ampia in cui il nostro si trasforma nel classico eroe indistruttibile dando il via all'abituale circo su strada.
Tutto comincia in una sorta di terra di nessuno, dalle parti di Yanbian, tra Cina, Russia e Corea del Nord. Vivere lì è...Leggi tutto come sentirsi appestati; si è guardati male da tutti, e Gu-nam non fa certo eccezione: anzi, per lui è pure peggio perché i pochi soldi che ha se li gioca perdendo a mahjongg e perdipiù sua moglie se n’è andata in Corea e non si fa sentire da un pezzo. Reietto della società, tanto per cambiare viene contattato dall'immancabile gangster che gli propone il tipico lavoretto che (su grande schermo almeno) a certi individui non si rifiuta mai: dovrà andare proprio in Corea ad accoppare un uomo di cui sa solo il nome e l'indirizzo (dopo che li hai letti ricordateli a memoria o la tua famiglia morirà). Sulle prime Gu-nam rifiuta, ma è ovvio che - anche al pensiero di poter rintracciare sua moglie - non ci vorrà molto perché torni sui suoi passi. E infatti eccolo lì, clandestino, sbarcare in Corea e raggiungere subito il palazzo dove lavora la sua vittima. Ha suppergiù una settimana, perché il 16 del mese la nave per il ritorno è già fissata.
Trovato l'uomo tocca studiare un piano per ucciderlo ma, il giorno previsto, incredibilmente Gu-nam viene anticipato dall'autista di quello, che lo massacra nello stesso luogo previsto da lui. Al nostro non resta che assistere alla scena e limitarsi a tagliare il pollice da consegnare al suo committente come prova dell'avvenuta esecuzione. Tutto finito? No, è quasi solo l'inizio, perché da qui la trama avrà una caotica impennata che d'improvviso passerà dai tempi lenti, le cupe esplorazioni delle periferie del mondo, i silenzi carichi di mestizia... all'action ipervitaminizzato, che nei momenti clou frulla mille stacchi al minuto rendendo a tratti quasi incomprensibile quanto accade in scena.
Insomma, niente di nuovo prima e niente di nuovo dopo, per quanto la mano di Na-Hong jin si confermi di qualità superiore. Se tuttavia, come in questo caso, diventa uno sterile esercizio di stile in cui si alternano come in una strampalata sinfonia sequenze velocissime ad altre quasi statiche, riesce difficile lasciarsi coinvolgere dalla storia, e il livello di saturazione viene presto raggiunto trasformandosi in noia, accentuata non poco dal fatto che il film raggiunge le due ore e quindici facendole sentire tutte. Certo, singolarmente analizzate le scene efficaci e ben realizzate non mancano, ma messe in fila e confuse tra troppe altre in cui la storia si sfilaccia, si perde e si rischia di perdere il filo tra nomi e volti per gli occidentali facilmente confondibili.
Nemmeno delle fasi d'azione forsennata ci si può dire soddisfatti, forse proprio per quel turbinare eccessivo della mdp che eravamo abituati a subire faticosamente già in certi action moderni da mal di testa (vengono in mente Michael Bay e i suoi scontri tra Transformer, per citare solo un esempio). Alla singolare conduzione che aveva saputo creare con THE CHASER, un'opera nuova e per certi versi travolgente anche attraverso una storia molto ben ideata, il regista sostituisce una serie di colpi di scena che vien poco voglia di seguire e che anche una fotografia desaturata dai toni bluastri non aiuta a rendere attrattiva.
Oppresso dai debiti, il protagonista accetta l'incarico di uccidere un uomo, ma altri hanno commissionato lo stesso delitto... Dopo il bellissimo esordio, la conferma di un nuovo grande regista subcoreano con un'opera complessa e non sempre decifrabile, che alterna il quadro sociale (le condizioni misere dei sinocoreani, le terribili sequenze dell'immigrazione clandestina) con il thriller classico (la preparazione dell'omicidio), il cinema di inseguimento ed il furore dei combattimenti ad arma bianca, corpo a corpo. Finale elisabettiano, chiusura straziante, un film da ricordare.
MEMORABILE: Di notte, in campo lungo, la barchetta dalla quale viene gettato in mare un corpo ed un fagotto
Decisamente tirato per le lunghe, The yellow sea non ha certo la forza espressiva di The chaser. I fili della trama si distendono sul thriller vendicativo ma nel rush finale gli snodi si affastellano e l’intensità generale viene smorzata da inseguimenti reiterati; laddove serviva un approccio più sobrio, chiarificatore e riflessivo, Na schiaccia ingiustificatamente l’acceleratore. Rimane un affresco nero pece di una società decadente nonchè l’allarme, giustamente sbattuto in faccia, delle tragiche dinamiche dell’immigrazione. Discreto.
Sceneggiatura che parte esile e poi si dipana in troppe vendette e rese dei conti, con una durata eccessiva e poco appeal del protagonista. Personaggio credibile a spanne, un disgraziatello che incute poco pathos ma si salva come un supereroe. Regia che filma mossa e quando passa all’azione imita lo stile americano, confuso e zeppo di incidenti. Fotografia di blu pregnante e fredda, incide poco e resta pesante. Ci si aspettava un dramma da disperati e invece capita un thrillerone sbiadito diviso in capitoli.
Epopea del pavimento geopolitico lavato col sangue, saga del balenar di coltelli che affondano nelle carni della storiografia e di accette che sfondano il cranio al falso benestare interetnico, collasso che si fa kolossal. Poi c'è il film, una carta geografica tracciata col sangue, starover di vendette e controvendette vieppiù iberboliche, di efferatezze vieppiù enfatizzate, di trame e sottotrame ipertrofiche che giocano a cavallina e che si snodano e riannodano senza soluzione di continuità (e non sempre limpidamente) in 157' corposi come la vinaccia che imbriaca malamente al primo sorso.
Film coreano che ha per protagonista un giovane che cerca di affrancarsi da una condizione di estrema disperazione personale ed economica. Il regista mescola assai abilmente il noir all'action, dimostrando una padronanza non comune del mezzo (evidente nelle scene d'azione) e dirigendo una vicenda assai cupa, che fa ricorso a scene di violenza estrema sempre funzionali alla storia. La seconda parte presenta un escalation narrativa di grande tensione. Notevole la prova del protagonista.
La conferma che Hong-Jin non è uno qualsiasi, ma ci sa fare eccome. Come nel precedente film, anche qui le tinte sono nerissime e disperate e c'è grande capacità nel mantenere alto il ritmo ed il livello di coinvolgimento. Anche la tecnica è ad alti livelli e le scene di
azione sono girate magnificamente, anche se forse si può lamentare qualche eccesso di spettacolarità e nel rendere certi personaggi quasi immuni a tutto. Finale che non chiude perfettamente il cerchio, ma credo fosse la volontà del regista.
Il bravo regista coreano confeziona un altro film ad altissima tensione, dove la violenza e la disperazione degli emarginati sfociano in una caccia all' uomo senza tregua e senza speranza. Da sottolineare come ancora una volta, nei lavori del regista, il crimine sia assoluto centro della vicenda e la polizia un puro e inutile intermezzo comico. Tecnicamente molto ben girata, la pellicola conta anche attori particolarmente adatti, soprattutto il bravo protagonista.
Il film getta con sicurezza le sue premesse, ma le sviluppa limitandosi a una vicenda d'azione che si sfilaccia, a tratti, persino in sequenze fracassone alla Squadra Speciale Cobra 11. Alcune esplosioni di violenza sono girate con mano sicura: sorge il sospetto, tuttavia, che siano inessenziali, nella loro evidente brutalità, all'economia della trama. L'impressione, a posteriori, è quella d'un prodotto formalmente sopra la media, privo d'una reale profondità (il rapporto del protagonista con la moglie e la condizione di joseonjok).
Un noir coreano diretto e sfrontato che trova il tempo di mostrare la difficile condizione dei Joseon. Si entra presto in una escalation di violenza inarrestabile che assolve la sete di adrenalina dello spettatore, ma guardando oltre ci si accorge che Na Hong-Jin ha anche altro da dire. L’unica vera pecca la si trova nelle scene d’azione e nelle colluttazioni che intaccano il livello di credibilità di alcune situazioni. Il minutaggio non è indifferente, forse spropositato per un film del genere, anche se raramente di ci si annoia per davvero.
Gu-nam è un tassista frustrato che deve venire a sordidi patti con la malavita per far fronte ai debiti di gioco. Poi il tassista si trasforma in Jake Blues, comincia a ridicolizzare la polizia e a seminare panico tra la criminalità organizzata. Quello che sembrava un noir crudo e disperato si perde in un action violento e poco credibile, dalla trama sempre più intricata e confusa. L'eccessiva durata e la regia da "mal di mare" non aiutano a renderlo più digeribile.
Dopo il brillante esordio, Na Hong-Jin si conferma su alti livelli anche se può risultare spiazzante lo scarto tra le due anime del film. Infatti a una prima parte autoriale, introspettiva e sociologica, ne segue una seconda in cui l'intreccio si complica notevolmente, caratterizzata da numerose sequenze di azione (non sempre verosimili) e di efferata violenza. Ma avercene di film che durano oltre due ore senza mai annoiare. La polizia, come da consuetudine nel cinema coreano, non ci fa una bella figura e il finale è davvero amarissimo.
Da un'idea molto semplice (ludopatico accetta di compiere un omicidio per pagare i propri debiti) un film complesso, nella seconda parte perfino troppo. Per apprezzarlo a pieno è preferibile avere un'infarinatura geopolitica delle zone ove si svolge l'azione - non tutti sanno cosa sia un joseonjok - o si rischia di perdersi qualcosa. Ciò detto, regia e montaggio sono straordinari, così come la messa in scena, incredibilmente violenta ma mai gratuitamente. I tre protagonisti sono ben delineati e il doppiaggio è buono. Enigmatica scena post credits.
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DiscussioneDaniela • 28/11/13 08:30 Gran Burattinaio - 5937 interventi
Galbo ebbe a dire: Mi ha colpito parecchio, mi chiedevo se fosse reperibile in edizione italiana o almeno con i sottotitoli (non me la cavo granchè con il coreano :) ) il film precedente del regista, The chaser.
Contenta che ti sia piaciuto Yellow Sea, quanto a The Chaser non so se recentemente sia stata fatta una edizione doppiata in italiano, ma è reperibile certamente con sub-ita (se non lo trovi, fammi un fischio).
Gran bel film anche questo, uno di quelli che motivano la mia personale "fissa" per il cinema sud-coreano.
Daniela ebbe a dire: Galbo ebbe a dire: Mi ha colpito parecchio, mi chiedevo se fosse reperibile in edizione italiana o almeno con i sottotitoli (non me la cavo granchè con il coreano :) ) il film precedente del regista, The chaser.
Contenta che ti sia piaciuto Yellow Sea, quanto a The Chaser non so se recentemente sia stata fatta una edizione doppiata in italiano, ma è reperibile certamente con sub-ita (se non lo trovi, fammi un fischio).
Gran bel film anche questo, uno di quelli che motivano la mia personale "fissa" per il cinema sud-coreano.
Grazie
DiscussioneDaniela • 5/01/17 11:33 Gran Burattinaio - 5937 interventi
x Cotola
perché parli nel tuo commento di finale che non chiude perfettamente il cerchio? Sono curiosa perché a me invece è sembrato proprio chiuso, in modo tragico.
DiscussioneRufus68 • 12/02/17 22:42 Contatti col mondo - 222 interventi
Nella versione italiana si usa il termine sinocinesi (ma forse sono duro d'orecchi e mi sbaglio). Volevano forse tradurre il termine joseonjok (sinocoreani, ovvero individui residenti in Cina di discendenza coreana)? E poi: che significa sinocinesi? Sarebbe come dire nippogiapponesi. Boh.
DiscussioneZender • 13/02/17 07:30 Capo scrivano - 48339 interventi
DiscussioneDaniela • 13/02/17 07:47 Gran Burattinaio - 5937 interventi
Rufus68 ebbe a dire: Nella versione italiana si usa il termine sinocinesi (ma forse sono duro d'orecchi e mi sbaglio). Volevano forse tradurre il termine joseonjok (sinocoreani, ovvero individui residenti in Cina di discendenza coreana)? E poi: che significa sinocinesi? Sarebbe come dire nippogiapponesi. Boh.
Io ho visto la versione originale sottotitolata, consigliabile anche per via dei tagli presenti nella versione doppiata. Mi pare che il termine fosse tradotto come "cinocoreani" e non "sinocoreani", ma comunque si tratta di due sinonimi.
Certo "sinocinesi" non significa nulla, come osservi giustamente, dato che "sino" è prefisso che indica la Cina.
Su questo fenomeno di consistente immigrazione, sviluppatosi a partire dalla metà dell'Ottocento prima per sfuggire alle conseguenze di disastri naturali, poi alla durissima occupazione militare della Corea da parte del Giappone, si possono trovare informazioni su wikipedia nella versione inglese (la voce italiana è troppo stringata):
https://en.wikipedia.org/wiki/Koreans_in_China
DiscussioneRufus68 • 14/02/17 14:48 Contatti col mondo - 222 interventi
Grazie per le risposte.
Questo episodio conferma una mia convinzione: un film orientale doppiato è un altro film rispetto all'originale. Non è peggiorato, è proprio un'altra cosa. Stavolta ho ceduto all'ozio e l'ho visto in italiano ... non succederà più.
DiscussioneDaniela • 14/02/17 18:41 Gran Burattinaio - 5937 interventi
Rufus68 ebbe a dire: Grazie per le risposte.
Questo episodio conferma una mia convinzione: un film orientale doppiato è un altro film rispetto all'originale. Non è peggiorato, è proprio un'altra cosa. Stavolta ho ceduto all'ozio e l'ho visto in italiano ... non succederà più.
Concordo in pieno.
L'avevo visto in originale con sub tempo fa, l'ho rivisto doppiato per curiosità dopo uno scambio di opinioni con Cotola: non è solo una questione di tagli più o meno consistenti, c'è anche una sorta di "appiattimento" (non trovo un termine migliore per definirlo), credo legato all'omologazione di voci e toni, che toglie immediatezza e soprattutto drammaticità ai dialoghi, rendendo il film doppiato una sorta di fotocopia un poco scolorita dell'originale.
L'avevo già riscontrato in altre occasioni con film orientali, in particolare quelli sud-coreani e honhkonghesi.
E non si tratta sempre di qualità del doppiaggio: magari certi sono doppiati malamente, ma anche nei casi di doppiaggio professionalmente curato c'è quel "quit" a cui ho accennato prima che rende preferibile la versione in originale.
Preciso che questa sensazione di "appiattimento" non è generalizzata.
Per fare un esempio, mi è capitato di vedere film tedeschi prima in originale con sub ed in seguito doppiati in italiano e non ha avuto la stessa sensazione.
Sospetto che sia una questione di fonetica e metrica delle frasi, ma non possiedo certamente le competenze linguistiche per addentrarmi in disquisizioni del genere...
DiscussioneRufus68 • 14/02/17 19:53 Contatti col mondo - 222 interventi
La risposta non è facile.
Forse i doppiaggi non sono più curati come una volta? Ho visto i migliori Kurosawa in italiano e non ho avuto nessuna sensazione di perdita.
O, forse, come dici tu sono particolari idiomi orientali a essere "piallati" dalla traduzione. Però anche Kitano doppiato è inascoltabile ... immagina Sonatine in italiano: un altro film, come dicevo.
È una questione da studiare. Nel frattempo è meglio vederseli in originale.
Seguo i vostri consigli e mi cerco New world ...
DiscussioneDaniela • 14/02/17 21:15 Gran Burattinaio - 5937 interventi
Rufus68 ebbe a dire: Seguo i vostri consigli e mi cerco New world ...
Visione quasi obbligatoria, se sei un estimatore del cinema orientale: un noir superbo con un cast formidabile ed una trama che inchioda.
E si trova solo in originale, quindi il problema "doppiaggio si/doppiaggio no" non si pone proprio.
PS: Quando lo vedi, se fai attenzione potrai ascoltare ad un certo punto un termine sorprendente dato il contesto, termine che da noi ha avuto il suo momento di gloria politica ;o)