Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Una riflessione sul riprendere in mano la propria vita dopo un evento traumatico, in questo caso un incidente nel quale la protagonista ha perso la famiglia ed è rimasta gravemente segnata; l'intento lodevole è però messo in scena con una certa fiacca, oltre a una serie di luoghi comuni e a qualche caduta di stile, come scegliere il belloccio Worthington nel ruolo maschile, invece di un volto più credibile. Brava invece la Aniston, coraggiosa a mostrarsi in condizioni fisiche da donna di mezz'età lontane dalle edulcorazioni hollywoodiane. Si lascia vedere, ma si scorda subito.
Senza essere grandi sostenitori di Anderson gli va riconosciuta la profonda conoscenza della grammatica cinematografica, oltre che un fine senso di libertà nel muoversi negli spazi. La ricostruzione è impeccabile e ringraziamo la scelta di lasciare un po' di sporcizia su quei corpi in un periodo in cui ogni produzione è patinata, sistemata a dovere. Un po' sfocato il background dei due protagonisti, soprattutto lui che può permettersi ristoranti di lusso ma vive in una casetta. Oltre le sbvavature ci si perde volentieri in questo collage adolescenziale di pura leggerezza emotiva 70s.
Da un soggetto di Duilio Coletti, un film che si inserisce nel filone del poliziesco italiano con apprezzabile originalità. Baldi non cede al facile spettacolo e non celebra gesta eroiche, ma adotta un taglio quasi documentaristico nel descrivere il viaggio di un carico di droga e chiude il cerchio con un epilogo che riserva sì qualche sorpresa, ma all'insegna del pessimismo e della disillusione. Belle location (Turchia, Sicilia, New York) ben fotografate da Ajace Parolin, discreto score dei fratelli De Angelis e ottima prova di Ben Gazzara coadiuvato da un valido cast di genere.
Thriller teso e "illuminato" d Dario Argento, nel senso che una luce accecante sottolinea alcune delle scene chiave del film. E' anche un esercizio visivo raffinato, come mostra il dipinto che involontariamente la povera Veronica Lario crea sulla parete. Come è noto, il talento visionario è la sua caratteristica principale e qui lo vediamo applicato a massimi livelli, con ottimi risultati.
Ci vollero un paio di corti sonori prima che Laurel e Hardy si adattasero al nuovo mezzo, ma presto ci riuscirono. Il loro primo corto sonoro racconta la storia di un invito a cena, con situazioni che finiscono presto in un caos totale. Mae Busch e di nuovo scelta per il ruolo della signora Hardy e lo fa molto bene. Edgar Kennedy è di nuovo scelto per il ruolo di un agente di polizia che vive di fronte a Hardy e la moglie. Thelma Todd interpreta la moglie dell'agente Kennedy e dimostra quanto possa essere grintosa.
I due pestiferi ragazzini Tom e Huck si aggregano a un piccolo circo rimanendo coinvolti in una serie di disavventure... Il ritmo è forse la cosa migliore in quanto garantisce una visione in alcuni punti abbastanza tesa, mentre tutto il resto non si eleva al di sopra della mediocrità; a partire da una trama non esaltante, proseguendo con una fotografia appena accettabile e concludendo con un'interpretazione corale non completamente esaustiva. Trucco e costumi sono invece decorosi, al pari della ricostruzione d'epoca. Sembra però un episodio di una qualunque serie tv per teenager.
Commovente ritratto di un creativo poliedrico, capace come pochi di spaziare nei diversi campi dell'arte lasciando tracce di sé in alcuni casi indelebili. Un documentario tanto più interessante quanto più riesce a trasmettere lo spessore del personaggio, troppo a lungo confinato nell'ambito del cabaret senza che si riuscisse a comprenderne le reali potenzialità. Raccontarne le esperienze, ripercorrere le tappe di una vita tanto varia, significa raccontare il talento dell'uomo, ampiamente riconosciutogli dai tanti intervistati le cui frasi al miele ne certificano...Leggi tutto la straordinarietà.
Inevitabilmente molta parte dell'opera riguarda gli anni in cui Faletti più si è mostrato in pubblico, più ha raggiunto una notorietà riconducibile a un volto, un'espressione, un personaggio. Poi certo, è naturale che l'inatteso, enorme successo ottenuto come scrittore abbia cambiato ogni prospettiva inquadrandolo in un'ottica diversa, culturalmente più elevata. Se “Io uccido” svetta tra i romanzi italiani più venduti di sempre è scontato che ogni altra esperienza precedente venga in qualche modo oscurata.
E' ottimo in regia il lavoro di Alessandro Galluzzi e Michele Truglio nel porre l'attenzione sulle peculiarità della personalità di Faletti, dando risalto (fin dal titolo) alla canzone che, presentata a Sanremo nel 1994, fece conoscere all'Italia intera il volto inedito, di quello strano “comico” che ancora tutti identificavano inevitabilmente con l'agente Vito Catozzo, il personaggio che più di ogni altro era rimasto impresso nella memoria di tutti nonché l'unico tra i tanti suoi (la suora Adalpina, lo stilista gay di ”Emilio”, il bimbo matto Carlino...) che lo stesso Faletti diceva di interpretare “diventandolo”.
Attraverso le fondamentali, toccanti testimonianze della vedova Roberta Bellesini, del cugino a cui fu vicinissimo, degli amici Enzo Iacchetti, Nino Frassica o Nino Formicola (il Gaspare del due con Zuzzurro) ne cogliamo le debolezze e il carattere fragile, mentre attraverso le parole di due cantautori di successo come Angelo Branduardi (per il quale scrisse due album) o Paolo Conte (astigiano come lui) se ne mettono a fuoco le grandi qualità come autore di testi (scrisse anche per Milva e Gigliola Cinquetti), portate in evidenza per l'appunto dal brano “Signor tenente”. La genesi del brano viene ben spiegata: Faletti chiese a Danilo Amerio e altri di scrivergli una breve introduzione musicale per contrabbandare poi per canzone (a Sanremo all'epoca il rap non esisteva ancora) quello che era di fatto un testo recitato, di buon valore poetico e di denuncia.
Poi il successo definitivo, raggiunto con la pubblicazione di “Io uccido”, e le ridicole accuse (che lo ferirono) di avere alle spalle un ghost writer, le ospitate alle “Invasioni barbariche” di Daria Bignardi e non solo, la giusta celebrazione di chi aveva saputo scrivere un giallo d'impronta internazionale, destinato a segnare la storia del genere in Italia. Fondamentale l'apporto del “collega” Massimo De Cataldo (anche coautore della sceneggiatura), del compianto giornalista musicale Massimo Cotto (a cui il documentario è dedicato), del compagno d'avventure nella Milano fine Settanta Antonio Ricci (che lo lanciò poi in “Drive In”), del regista Fausto Brizzi che lo rilanciò anche come attore in NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI (non mancano i simpatici aneddoti raccontati da Nicola Vaporidis) e che ricorda come la frase più citata del suo film fu opera proprio di Faletti, il quale pretese di inserirla per il finale e che Brizzi accettò di lasciare nonostante fosse poco convinto che funzionasse.
Un bel compendio, quindi, delle esperienze che hanno contribuito a iscrivere Giorgio Faletti tra le figure più singolari, eclettiche e fors'anche più sottovalutate dei nostri tempi, sfuggente e maturo, spesso malinconico, talvolta quasi dimenticato a fronte di risultati (almeno a livello di scrittura, sia musicale che letteraria) inavvicinabili dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi più celebrati. Un artista a tutto tondo che non merita di essere dimenticato, che rivediamo in molti sfiziosi filmati d'archivio.
Lasciando pur perdere un finale telefonato e per forza di cose coerente con la piega presa dal film, BIG BAD WOLVES ha al suo attivo soprattutto un eccellente personaggio, che tarda un po' a entrare in scena lasciando che la prima parte scorra senza riuscire mai davvero a ingranare. Si parte con la scomparsa di una ragazzina, per attendere la quale c'è da sorbirsi un (troppo) lungo incipit al ralenti: per quanto sia suggestiva l'ambientazione della casa abbandonata tra i boschi, la durata eccessiva smorza l'efficacia che sembrava avere. E anche dopo, quando subentra la polizia...Leggi tutto che malmena senza pietà un professore (Keinan) sospettato di essere il pedofilo killer che potrebbe aver ucciso la ragazzina scomparsa, qualcosa non gira come dovrebbe, soprattutto dal punto di vista registico. Perché invece certi dialoghi fanno già intuire le potenzialità dello script.
Siamo in Israele, si capisce che gli scenari sono diversi da quelli a cui siamo abituati, anche se un inseguimento a piedi tra stretti viottoli rimanda a una scena analoga e riuscitissima di POINT BREAK. Il professore, preso a pugni e malmenato in un capannone da poliziotti che non vanno tanto per il sottile, continua a dichiararsi innocente e se ne torna malconcio in classe, scoprendo che un ragazzino presente (non visto) al pestaggio ha filmato la scena di nascosto postandola sui social.
Micki (Ashkenazi), l'agente responsabile del maltrattamento, viene allontanato dal suo incarico e comincia a indagare per conto proprio, intuendo che l'unico modo per ritrovare credibilità è dimostrare come davvero il professore sia responsabile dell'uccisione della ragazzina. Per questo riprende la caccia all'uomo, interrotta solo dall'intervento del padre (Grad) della piccola vittima, il quale porta tutti nello scantinato della casa appena acquistata e comincia a condurre un interrogatorio molto particolare... E' lui la figura più interessante del lotto, che sorpassa il pur feroce poliziotto e si dedica all'arte della tortura con l'unico obiettivo di far confessare al professore dove sia la testa mai ritrovata che è stata staccata dal corpo di sua figlia.
Senza dover ricorrere a virtuosismi tecnici particolari, i due registi (e sceneggiatori) Aharon Keshales e Navot Pupushado dimostrano di saper come gestire la tensione, dosando lo splatter e inserendosi con intelligenza in un filone ad oggi molto florido. Le tracce di black humour arguto lasciano il segno e Tzahi Grad ha la statura per imporsi sul pur bravo Lior Ashkenazi, guadagnandosi il ruolo del vero protagonista in attesa che subentri ancora chi parteciperà al massacro in modo davvero inatteso e - in qualche modo - geniale, facendoci tornare alla mente la famiglia della motosega...
Quelli che appaiono come buchi logici e incongruenze troveranno invece una precisa rispondenza nella trama a conferma di un lavoro efficace, realizzato con tutti i crismi e con un finale da interpretare. Dimenticati gli impacci della prima parte, il film ci immergerà in una dimensione nerissima in cui il sadismo troverà ampio spazio, con qualche risvolto psicologico sorprendente che giustifica i tanti apprezzamenti ricevuti dal film (e dal solito Tarantino, che certi lavori ha sempre dimostrato di amarli). Gustoso Grad che impasta al ritmo molto rétro della "Everyday" di Buddy Holly.
James Gunn, per questa nuova rivisitazione di Superman, recupera lo stile che l'ha fatto conoscere al mondo con i Guardiani della Galassia e, insieme a una certa dose d'ironia, infila nel film il cane Crypto, che sembra davvero uscito da quella buffa saga col tempo trasformatasi in una sagra dell'eccesso. Quando nella prima scena Superman ritorna da una missione nella quale è stato sconfitto e si ritrova stordito sulle nevi dell'Artico dopo essere precipitato violentemente, Crypto arriva correndo come un...Leggi tutto pazzo per rianimare il suo padrone e lo colpisce più volte. Già da qui si capisce il tono del film, assai lontano dalla seriosità e “sacralità” dell'originale del 1978 che in scenari simili piazzava, accanto all'icona Christopher Reeve, un certo Marlon Brando. Qui la "fortezza" di ghiaccio sorge dal nulla con effetto straordinario, è vero, ma poi dentro ci trovi quattro robottini e due genitori che proprio non lasciano il segno.
Ci si sposta in seguito a Metropolis, la città americana di residenza di Superman, dove il nostro riprende le vesti di Clark Kent e se ne va al Daily Planet; qui trova l'amata Lois Lane (Brosnahan) e ascolta cosa sta facendo quel mascalzone di Lex Luthor (Hoult): costruttore di armi, appoggia lo stato di Boravia che sta invadendo il Jarhanpur fornendo loro quantità indicibili di armamenti a costo zero. Perché? Lo si capirà, ma intanto i poveri Jarhanpuresi, già aiutati da Superman in precedenza, lo richiamano a gran voce mentre questi è alle prese invece con un mostrone gigantesco che sembra uscito dall'indimenticabile sequel di SUICIDE SQUAD, ad oggi forse la miglior testimonianza di una genialità che Gunn sembra aver smarrito. Autore unico della sceneggiatura, tedia con dialoghi che vorrebbero essere brillanti (vedasi la lunga intervista "casalinga" di Lois Lane a Clark/Superman) e inserisce - nel caos di una storia che procede a colpi di scontri ripetuti - non solo spunti demenziali degni di miglior sorte (la specialista in selfie al soldo di Luthor) ma anche un odioso bambino mostro figlio di uno dei tanti supereroi di rincalzo, che fa il paio con Crypto, il cagnolino davvero troppo presente in scena.
Poi certo, la grande crepa che si apre nel terreno e raggiunge Metropolis facendo crollare grattacieli in serie tra scene di devastazione totale garantisce lo spettacolo per cui si paga il biglietto, ma la fantasia questa volta scarseggia, l'ironia non punge, assommare effetti su effetti non è sufficiente ad eliminare quella sensazione di fastidiosa ridondanza che starborda da ogni fotogramma. Il problema è che quando lo spazio se lo ricavano i dialoghi è anche peggio, per cui le due ore e più si sentono eccome.
Superman che impedisce a un palazzo di sessanta piani di crollare fa sorridere, così come vederlo sollevare il corpo di un mostro da 8000 tonnellate; i voli a velocità supersonica sono ben realizzati e colpiscono, ma il tutto si segue senza provare grande interesse per quanto accade sullo schermo, mentre il cagnolino che vola e saltella da ogni parte in computer graphic stanca presto, fino a diventare irritante... Si rimpiange decisamente la compostezza del Superman di Reeve, che alle spalle aveva film costruiti come tali e non come una baraonda di effetti e di personaggi sovreccitati. Quanto a David Corenswet, capelli neri e occhi azzurri, si avvicina nei tratti riconoscibili a Reeve senza però averne il carisma.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA