Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Uno dei migliori film di Oliver Stone, qui sostenuto da Al Pacino che come sempre sa il fatto suo e riempie lo schermo proprio come Cameron Diaz. Per uno spettatore italiano le regole del football americano sono ostiche e incomprensibili e questo nuoce un po' alla spettacolarità della prima parte del film, fin troppo ridondante di immagini sportive. Ma la storia è forte e coinvolgente.
Documentario proto-ecologista e ambientalista che sbaglia sulle previsioni pesantemente catastrofiche ma che indubbiamente coglie nel segno, anticipando temi e terminologie che mezzo secolo fa erano ancora appannaggio degli specialisti, mentre oggi fanno parte del linguaggio comune. La componente mondo è indubbiamente presente, ma senza che si indugi troppo sul sensazionalistico e soprattutto con un commento parlato lontano anni luce dalle volgarità e dalle squallide freddure tipiche del filone. Resta, ovviamente, il lecito dubbio su quanto sia autentico e quanto ricostruito ad arte.
Damiano Damiani si cimenta con la vera storia di Franca Viola e propone una Ornella Muti poco più che bambina ma già bellissima e capace di sostenere un ruolo tutt'altro che facile. Importante anche la parte di Gaetano Cimarosa, il noto caratterista che qui mantiene il proprio nome anche nella finzione. Un film teso, forse uno dei migliori del periodo in cui il cinema italiano si cimenta nel cosiddetto impegno civile.
Dopo un inciso paratelevisivo di poco spessore, Lilo e Stitch tornano in quello che, già a partire dal titolo, va identificato come il vero sequel del prototipo. Pur trattandosi di un seguito da videoteca, si nota fin da subito la totale sintonia spirituale con la fonte, riflessa anche in uno stile di animazione di buon livello, così come si apprezza la decisione di non strafare in sede di script, valorizzando al meglio la dimensione familiare della storia, tra piccole sfide quotidiane, sketch divertenti e passaggi delicati da lacrimuccia. Happy ending un po' vago, ma ci può stare.
L'anfitrione Udo Kier introduce questo film a episodi, discontinuo ma complessivamente onesto. "Mother of toads" scadente e di fattura troppo televisiva, "I love you" prevedibile e senza picchi ma abbastanza ben trasposto, "Wet dreams" la butta sul gore burlesco e ben gliene incoglie, "Vision stains" tratta troppo superficialmente una storia dal potenziale maggiore. Due i picchi, ovvero "The accident" e "Sweets": tanto toccante il primo nella sua innocente compostezza infantile, quanto macabramente appagante il secondo (il modo in cui termina è un debordante e godibile delirio).
Il "terrorista dei generi" Fulci rilegge l'ormai semi-defunto spaghetti-western in una chiave del tutto inedita tra l'elegia malinconico/violenta alla Penn/Peckinpah e il rape and revenge più crudo e sanguinario vero e proprio in voga ai tempi, pienamente incarnato dal personaggio di Chaco, interpretato da un magistrale Milian (ispirato da Manson). Tra ironia, commozione e violenza allo stato puro, uno dei migliori film del Maestro romano, con un cast eccellente e impreziosito dalla splendida fotografia di Salvati. Frutto tardo, sì, ma imprescindibile, non solo per il suo genere.
Tratto da una storia vera da cui il regista Alex Parkinson aveva già tratto nel 2019 il documentario omonimo, il film racconta quanto accadde a una spedizione che nel 2012 scese nelle profondità del Mare del Nord (partenza da Aberdeen, in Scozia) per la riparazione di alcune importanti tubature che garantivano il gas a buona parte delle zone limitrofe. Che il film non faccia dall'originalità la sua forza lo si capisce dal titolo e dalla locandina, uguali a mille altri. D'altra parte, ci viene ribadito, si sta...Leggi tutto riportando un fatto di cronaca cercando di attenersi alla realtà dei fatti: non si può pretendere spettacolo ad ogni costo come se si stesse inventando una vicenda mai accaduta con l'unico scopo di intrattenere.
Eppure - a dirla tutta - i personaggi che compongono l'equipaggio della nave e i palombari sembrano usciti da un action qualsiasi e, se non fosse per la ben nota predisposizione all'ironia e la bravura di Woody Harrelson, poco ci sarebbe da dire del cast. Le caratterizzazioni sono chiaramente derivate da stereotipi: Chris (Cole) è il bravo ragazzo che deve farsi una vita con la fidanzata (Rainsbury) che lo ama, Dave (Liu) è l'orientale che ovviamente non parla e ti guarda storto, Andre (Harrelson) è l'uomo di grande esperienza che sdrammatizza senza però mai trasformarsi in macchietta. Loro sono quelli che s'immergono nella campana legata alla nave che li fa scendere negli abissi e quelli che più si vedono.
Poi c'è l'equipaggio sulla nave, meno singolarmente definito ma che avrà presto un ruolo fondamentale. Perché quando arriva la tempesta qualcosa succede, e il primo a uscire allo scoperto nelle profondità del Mare del Nord, il giovane Chris, diventerà la figura chiave, suo malgrado. Càpita infatti che, nel momento del panico diffuso causato dall'infuriare in superficie della tempesta, con la nave che perde il contatto con la campana subacquea, il cavo che legava Chris alla stessa si spezzi. Dove il nostro sia finito sulle prime non si capisce, ma sappiamo benissimo che la sua scorta di ossigeno finirà quanto prima. E su questo gioca il film, che riporta un evento giustamente definito "miracoloso" (ciò che in definitiva giustifica la realizzazione di ben due opere tratte da quanto accaduto) senza tuttavia poterne convertire la potenza in azione.
Se quindi ci si discosta dai molti film già prodotti in tema, lo si deve principalmente a una narrazione molto sobria, priva di quegli effetti e musiche tonitruanti abitualmente legati alle fasi di suspense; perché tali fasi, in sostanza, qui quasi non esistono: rispetto al solito poco accade, nel corso dell'intera storia. La nave è in balia di onde (alcune riprese notturne mostrano l'imbarcazione spostarsi faticosamente tra i marosi) che sembrano sempre le stesse ed è in cabina che tutto si decide: quando ad esempio il comandante (Curtis) decide di innestare la sconsigliatissima guida manuale per recuperare il corpo del povero Chris.
Nel frattempo i minuti in cui il sangue non pompa al cervello del giovane si fanno di attimo in attimo più teoricamente ingestibili, per un'equipe medica, e durante questo arco di tempo si sovrappongono le discussioni su come riportare in nave almeno il corpo. La volontà di mantenere un approccio realistico e lontano da fantascienza, horror o azione spinta fornisce al film il pretesto per difendersi dalle accuse di una narrazione piuttosto piatta, che si concretizza in dialoghi anonimi e in riprese subacquee solo di rado davvero coinvolgenti. La confezione è di discreto livello, ma la quasi totale assenza di scene che possano lasciare il segno si sente, e il lungo finale con appassionati abbracci sulle rive del mare dà l'impressione di chi non sa bene come “fare metraggio” in altro modo. Sui titoli di coda brevi filmati dei veri protagonisti della vicenda, come da prassi.
Un Aronofski meno esplosivo del previsto per un noir a tinte pulp che rimesta nel gran calderone del genere per uscirne con un film nella media, percorso da una certa scossa d'imprevedibilità in alcune circostanze ma privo di quell'inventiva che permette ai migliori di emergere, per di più con l'inserimento di un gatto che sa tanto di espediente ruffiano per accontentare chi ama le deliziose creature e s'intenerisce non appena le vede.
Nel porre al centro della vicenda una ex promessa del baseball che ama l'alcol e i San Francisco Giants, il regista sceglie...Leggi tutto un protagonista dall'aria sufficientemente innocente ma con qualche ombra nel proprio passato (che riemerge costante in un flashback al ritmo di “Rock You Like A Hurricane” degli Scorpions, in cui vediamo la sua auto schiantarsi causando la morte del ragazzo che sedeva accanto a lui); né forte né debole, né furbo né scemo, perfetto esempio di giovane nel quale è facile identificarsi e che si ritrova in un ginepraio dal quale non sa come districarsi. Hank, interpretato con corretto spaesamento da Austin Butler, ha una ragazza (Kravitz) che ama ma che non riesce a sopportare l'idea di non vedergli mettere la testa a posto. D'altra parte lavora in un bar, vive alla giornata e ha la casa stipata di bottiglie di alcolici. Ha anche un vicino inglese con tanto di cresta punk, Russ (Smith) il quale, prima di partire per Londra ad assistere il padre malato, gli chiede di badare per qualche giorno al suo gatto. Il problema è un altro, però: Russ si porta dietro la mafia russa, che lo cerca e per sapere dove quello sia finito intanto prende a calci chi sta in casa sua, ovvero il povero Hank.
Sarà solo l'inizio di una serie di attacchi che costringeranno il giovane a fuggire, a rivolgersi alla polizia dove lo ascolterà la detective Roman (King), a ripararsi da chi pretende che gli si dica dove avrebbe nascosto una certa chiave. Non è neanche così importante ciò a cui quella chiave serva, perché il film si sostanzia in un action triller a base noir in cui ciò che conta è muovere il protagonista tra le strade della New York del 1998, anno in cui è ambientata la vicenda: luoghi ai margini come Coney Island o Flushing Meadows, le due torri gemelle a richiamare un'epoca passata ma che non appare poi così dissimile da quella attuale, le strade e i vicoli di una città comunque mai ripresa nei suoi scorci più riconoscibili. E lì in mezzo Hank, chiaramente in difficoltà nel combattere contro nemici troppo più grandi di lui.
Se Aronofski non esagera con inquadrature virtuosistiche o abusando di quegli stacchi di montaggio che avevano caratterizzato certi suoi esordi, si affida però molto, per dare un'impronta personale al film, all'ottima colonna sonora di Rob Simonsen, ricca di percussioni e fraseggi sincopati che, sparati ad alto volume, lasciano un segno indelebile, pompando induscutibilmente ritmo in sequenze altrimenti un po' anemiche. Per il resto si limita a rielaborare un genere in declino da tempo, accontentandosi di dare forma godibile a una sceneggiatura piuttosto impalpabile, all'interno della quale i saltuari tocchi ironici ovviamente rappresentano la componente chiave, fin dai tempi in cui Tarantino aveva saputo elevare il pulp ad arte pura. In questo senso si può leggere la presenza dei due rabbini killer interpretati da Liev Schreiber e Vincent D'Onofrio, figure sopra le righe e macchiettistiche, forse le uniche in grado di caratterizzare in qualche modo il film; piuttosto debole, infatti, la prova di Austin Butler, spesso oscurato da chi sta in scena con lui (a cominciare da Zoë Kravitz).
Ininfluente quanto ingombrante la presenza del gattone che morde, inevitabili gli spargimenti di sangue, il timido accenno alla tortura e certe minacce sopra le righe. Imprevista l'apparizione nel finale di Laura Dern come madre di Hank, che fin lì avevamo sentito solo via telefono gioire con il figlio dei successi degli amati Giants. Qua e là ottimi sprazzi di cinema, a ricordarci quanto Aronofski non sia un regista qualunque.
La boxe da sempre al cinema si sposa con gli ambienti degradati, la periferia, l'ansia di emergere da una realtà disgraziata. GHIACCIO (il cui titolo fa riferimento a una nota pratica usata dai pugili per lenire il dolore alle mani, immergendole appunto in una bacinella colma di cubetti) si riaggancia a temi che ben si sposano a quella romanità che ormai da anni su grande schermo, quando c'è da raccontare storie di emarginazione, malavita, scommesse, è humus ideale.
Non c'è davvero nulla di nuovo nel copione scritto dal cantautore Fabrizio Moro...Leggi tutto insieme ad Alessio De Leonardis, autori anche (da esordienti) della regia, e quindi nemmeno nei due personaggi principali, il giovane pugile Giorgio Orsini (Ferrara) e il suo allenatore, Massimo (Marchioni). Quest'ultimo cerca nell'allievo quelle rivincite che la carriera gli ha negato: sa di avere in mano un buon talento, ma va sgrezzato; perché Massimo è indolente, sprezzante, ha mille pensieri a cominciare da una madre oppressa dai creditori del marito ucciso. Quando incontra Floriana (Cardinaletti) qualcosa in lui cambia, mentre all'orizzonte inizia a profilarsi il match che - come da tradizione del genere - dovrà occupare l'ultima parte portando sul ring la giovane promessa. L'avversario, Santo Gerani detto "Lo Zingaro" (Aversano), non pare dei più abbordabili, ma Massimo sa come caricare il suo pugile ed elargirà ovvi insegnamenti con l'obiettivo di risvegliare la scarsa concentrazione di Giorgio (detto Giò, che pare Joe ma è il semplice diminutivo romano di Giorgio).
Un'inattesa richiesta di "Pisciasotto" (Camilli), il boss del quartiere, rischia però di compromettere seriamente le mire di Giorgio, e da lì in avanti il film troverà gli spunti giusti che prima mancavano per incuriosire, sviluppandosi fino a convergere nel match con lo Zingaro, girato piuttosto bene. Senza dover ricorrere alla spettacolarità e alle esagerazioni di ROCKY, i due registi dimostrano di saper riprendere l'incontro con bravura, assistiti dai due pugili, che non lasciano troppo intuire l'artificiosità dei colpi. La tensione in questo modo sale, mantenendosi su buoni livelli fino all'amaro epilogo e riscattando parzialmente un film a lungo adagiato in una descrizione di maniera della periferia romana, con Ferrara fin troppo chiuso nel suo mutismo e Marchioni, cui spetta invece dare una fisionomia più solida al proprio personaggio.
Mescolando l'ambiente della boxe a quello romano si finisce nel moderno neorealismo più tipico, in cui gli attori si mangiano parole che, talora storpiate dal dialetto, finiscono spesso per perdersi nell'incomprensione. La felpa di Totti senza una delle tre "T" diventa uno dei pochi elementi riconoscibili, mentre non ci si eleva dalla media nella descrizione delle figure femminili, tendenzialmente marginali anche rispetto ai criminali che spacciano e allungano la loro ombra sul futuro di Giorgio. Di qualità invece la colonna sonora dello stesso Moro, perlopiù a base pianistica (notevole l'accompagnamento quasi tribale all'entrata sul ring dei due contendenti), con il brano "Sei tu" cantato sui titoli di coda a renderne riconoscibile l'autore. Da non confondere con l' "E tu" di Baglioni cantata in maniera terribilmente stonata da Marchioni per riconquistare con una serenata la sua bella. Un film corretto, discretamente diretto ma incisivo solo nell'ultima parte.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA