I film sulla guerra in Vietnam
20 Gennaio 2019
Il conflitto in Vietnam ha segnato la recente storia americana più di qualsiasi altro evento. Il suo impatto sociale è stato talmente rilevante da invadere presto anche i maggiori ambiti culturali come la letteratura, la musica e ovviamente il cinema. E proprio la settima arte è forse stata la maggior divulgatrice di questa “sporca guerra” creando nel corso degli anni un vero e proprio filone del cinema di guerra dedicato al Vietnam che ha cambiato per sempre i connotati di tutto il cinema statunitense, nessun genere escluso.

Bisogna tuttavia precisare che durante gli anni caldi del conflitto asiatico il cinema si è ben guardato dal trattare un tema così scottante per le principali case di produzione, sempre restie a toccare argomenti così controversi. Il primo film ambientato durante la guerra in Vietnam è A un passo dall’inferno (1966) di Will Zens, una pellicola poco conosciuta e di non facile reperimento che narra di un medico tenuto prigioniero dai Vietcong e liberato dal fratello ufficiale dei marines. Il film precede il celeberrimo Berretti verdi (1968) interpretato e diretto dalla star John Wayne che da buon repubblicano mostra senza indugi di essere favorevole all’intervento americano nel sud-est asiatico. Il suo è un film di propaganda bello e buono girato con mano pesante che scatenò violente polemiche. Guerrafondaio e anacronistico, per molti anni resterà l’unico film a mostrare azioni belliche nel Vietnam. A svelare la falsità ideologica del film di Wayne ci pensa comunque il documentario In the year of the pig (1969) di Emile De Antonio, girato in presa diretta assemblando immagini reali di reportage televisivi e interviste sul campo.
Un mucchio di bastardi (1970) di Jack Starrett è invece un improbabile ibrido tra biker movie e film di guerra nel quale una banda di hippy mercenari motorizzati deve salvare un diplomatico prigioniero in un villaggio vietnamita. Pura exploitation fumettistica e sanguinaria (amata da Tarantino). In ogni caso negli anni caldi del conflitto è più facile trovare qualche riferimento al Vietnam in altri ambiti cinematografici come il Western, dove la lotta contro gli indiani diviene metafora del conflitto asiatico. A tal proposito si vedano gli esempi di Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, Soldato blu (1970) di Ralph Nelson e Nessuna pietà per Ulzana (1972) di Aldrich, in cui la violenta conquista del west è polemicamente accostata alla guerra vietnamita. Anche M.A.S.H. (1970) di Altman, una satira ambientata sullo sfondo della guerra in Corea, sembra alludere in realtà all’assurdità del conflitto asiatico.

I PRIMI CAPOLAVORI
Solo alla fine degli anni Settanta la ferita del Vietnam, per quanto lungi dall'essere rimarginata, inizia a bruciare di meno, per cui il cinema può finalmente cominciare a lavorare su questo argomento. I primi film importanti sul tema uscirono infatti nel biennio 1978-79. Un primo esempio di Nam-movie è I ragazzi della Compagnia C (1978) di Sidney Furie.
Un film piuttosto crudo e venato di una sottile ironia nera, che con la sua struttura bipolare addestramento-battaglia, oltre alla presenza di L. Ree Ermey nei panni del sergente addestratore, sembra essere stato fonte d’ispirazione per il futuro capolavoro di Kubrick. A ruota segue il più retorico e conservatore Vittorie perdute (1978) di Ted Post, piuttosto cruento ma penalizzato dalla morale della "nobile causa” che giustifica e risarcisce la morte di tanti giovani americani. Questi due film sono accumunati dalla presenza di un giovane Craig Wasson. Ben più importante risulta Il cacciatore (1978) di Michael Cimino. Una saga di quasi tre ore che racchiude in sé un po' tutto l’immaginario del Nam-movie, dalla guerra percepita da lontano a una breve azione bellica, dalla prigionia al tema dei reduci, per finire con la ricerca del compagno perduto. Realistico ma anche fortemente simbolico (la caccia al cervo, il mito della wilderness e la roulette russa), con i suoi cinque Oscar sancisce l’accettazione definitiva dell’argomento da parte dell’industria cinematografica.
Ancor più importante risulta Apocalypse now (1979) diretto da Francis Ford Coppola e sceneggiato da John Milius che hanno dato vita al Nam-movie più famoso della storia. Un progetto già pensato sul finire degli anni 60 ma concretizzatosi solo un decennio dopo. Uno dei film più imponenti di tutti i tempi che traspone il "Cuore di Tenebra" di Conrad nel mezzo del conflitto vietnamita optando per una rappresentazione metastorica della "sporca guerra" che diviene il simbolo della follia di ogni conflitto. Il rock'n'roll, le conigliette di Playboy, il surf sul Mecong, l'odore del napalm, la Cavalcata delle valchirie, la giungla colorata e illuminata dalla fotografia di Storaro, la lavorazione lunga e snervante; Apocalypse now è tutto questo e ancor di più. Palma d'oro a Cannes. Accanto a questi due capolavori va citato anche American graffiti 2 (1979) di Bill Norton. Nel sequel del capolavoro di Lucas c’è spazio per una parentesi nel sud-est asiatico a metà tra commedia e dramma che vede protagonista il nerd Terry Fields.



Il successo sia critico che commerciale dei film di Cimino e Coppola apre la strada a un vero e proprio sotto-filone del cinema di guerra dedicato al Vietnam che diventa allora lo scenario di guerra preferito per esaltare tematiche da sempre al centro dei tradizionali war-movie come la crudeltà, la follia, la violenza, l'innocenza infranta e il lavaggio delle coscienze. Se tutte le guerre sono sbagliate, quella del Vietnam diventa la più sbagliata della storia rimanendo nella memoria collettiva come un ricordo indelebile e traumatico. Nell’America del presidente Reagan il giudizio sulla "sporca guerra" si fa però meno critico e anzi il Vietnam diventa il luogo ideale per un'esaltazione quasi parossistica dell'eroismo americano. Ciò è evidente nei film che hanno per tema il ritorno americano in Vietnam per liberare i prigionieri rimasti nelle mani del nemico al termine del conflitto. Si tratta di prodotti puramente commerciali spesso inverosimili e retoricamente patriottici come Fratelli nella notte (1983) di Ted Kotcheff, lo scarsissimo Rombo di tuono (1984) Di Joseph Zito che vede in azione il “Rambo” dei poveri Chuck Norris e lo spettacolare Rambo 2 (1985) di George Pan Cosmatos che al massimo della retorica viene persino lodato da Reagan in persona. Visto il successo anche il cinema nostrano si cimenta nel genere con risultati trascurabili in Tornado (1983) di Antonio Margheriti che saccheggia a piene mani La croce di ferro di Peckinpah e Cobra Mission (1986) di Fabrizio De Angelis palese scopiazzatura rambesca di serie Z.

L'argomento torna ad essere trattato con maggiore serietà grazie a Platoon (1986) di Oliver Stone, il film che fissa più di ogni altro le coordinate del Nam-movie post Apocalypse now. Stone traspone le sue esperienze al fronte in un war-movie dalla struttura classica non esente da una certa retorica populista ma sincero e sentito e che ha lanciato un’intera generazione di nuovi attori hollywoodiani, ottenendo un enorme successo di pubblico e quattro premi Oscar. Stone tornerà sull’argomento altre due volte con Nato il quattro luglio e Tra cielo e terra, due film maggiormente incentrate sul reducismo e in cui le sequenze belliche occupano uno spazio ridotto. Ma per firmare un capolavoro all’altezza dei film di Cimino e Coppola ci vuole un autore vero come Stanley Kubrick, che a trent’anni esatti dal suo Orizzonti di gloria firma un'opera altrettanto dura e antimilitarista come Full Metal Jacket (1987) una pellicola definitiva e radicale in cui la guerra in Vietnam diventa il simbolo assoluto della stupidità e della violenza umana.
Il film di Kubrick resta però un caso isolato e a prevalere sono i cloni di Platoon come il rozzo e cruento Hamburger Hill: Collina 937 (1987), che ricostruisce in modo iperrealistico una famosa battaglia avvenuta nel 1969 sacrificando però quasi tutto all’azione e La collina dell'onore (1988) di Aaron Norris che già dal titolo originale (Platoon Leader) appare come la brutta copia del film di Stone. La morale di questi film, semplicistica e ambigua, è che alla fine la guerra per quanto assurda va combattuta. Tra i film di questo periodo va ricordato anche Bat 21 (1988) di Peter Markle, abbastanza avvincente, che trae spunto dalla storia vera di un militare esperto di guerra elettronica che si ritrova disperso nella giungla vietnamita a contatto con il conflitto reale. Alla fine del decennio anche un regista spettacolare come Brian De Palma decide di dire la sua sull’argomento con Vittime di guerra (1989), film criticato per l’eccesiva spettacolarizzazione con cui viene mostrato il conflitto asiatico. Raccontando l’antefatto della vicenda già alla base del film di Kazan I visitatori, il regista italo-americano è riuscito comunque, senza rinunciare ai soliti virtuosismi tecnici, a confezionare un’opera incisiva incorniciata all’inizio e alla fine da una sentita riflessione sull’impossibilità di dimenticare.

ULTIMI BAGLIORI DI UN SOTTOGENERE AL CREPUSCOLO
Malgrado il successo di molti dei film succitati, passati gli anni 80 l’interesse verso l’argomento si affievolisce e nei decenni successivi non sono molte, le pellicole sul Vietnam. Sicuramente dimenticabile risulta L'ultimo attacco (1991) di John Milius, che ha come unica particolarità quella di essere dedicato all’aeronautica impiegata nel sud-est asiatico.
Decisamente più interessante risulta Bullet in the head (1990) di John Woo, abile nel mescolare azione e riflessione in una saga che occhieggia al Cacciatore e in cui il conflitto asiatico per una volta non è visto da occhi americani. Anche il surreale Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, nel suo ripercorrere trent'anni della più recente storia americana non può esimersi dal dedicare un’ampia parentesi al conflitto asiatico con tanto di rude addestramento, battaglia cruenta e ritorno a casa. In Dollari sporchi (1995) l'orrore della guerra in Vietnam è visto attraverso gli occhi di un gruppo di amici di colore del Bronx. Più scontato invece We were soldiers (2002) di Randall Wallace, che mette in scena in modo piuttosto brutale la battaglia di La Drang lanciando un parallelismo con Little Big Horn. Una volta erano i western a parafrasare la guerra del Vietnam mentre ora sembra il contrario. Il film è comunque un inno all'eroismo americano che sembra dimenticare anni di critiche alla "sporca guerra". L’alba della libertà (2006), diretto dal visionario Werner Herzog, si inserisce nel sottogenere dei campi di prigionia narrando in modo poco originale la vera storia del pilota Dieter Dengler. Ancor meno interessante risulta Tunnel rats (2008), per il quale il regista tedesco Uwe Boll ha persino vinto il premio di Peggior regista durante l'edizione dei Razzie Awards di quell'anno. Infine abbiamo l'italiano My Lai Four (2009) di Paolo Bertola, che narra del tremendo massacro di My Lai basandosi sul romanzo del giornalista Seymour Hersh, un film girato semiamatorialmente e neutro che arriva fuori tempo massimo.


All’interno del sottogenere del Nam-movie uno spazio particolare è dedicato alla figura del reduce: da sempre al centro delle storie di guerra, nel caso del Vietnam diventa un vero e proprio simbolo di una guerra sbagliata e assurda. Il reduce è in questo caso il testimone della cicatrice interiore di un’intera generazione. Infatti, se i film bellici sul Vietnam iniziano a fiorire solo a conflitto concluso, sono invece molte le pellicole che già negli anni caldi della guerra introducono la figura del reduce dal Vietnam, sebbene in contesti diversi dal classico war-movie. Ma anche in tempi più recenti la figura del reduce dalla “sporca guerra” continua a far capolino in pellicole di svariato genere. Una prima significativa figura di reduce dal Vietnam è quella di John Rubin, protagonista del dittico sperimentale direttosalla fine degli anni 60 da un giovane Brian De Palma. In Ciao America! (1968) il giovane cerca invano di evitare la chiamata alle armi, mentre nel suo seguito Hi, mom! (1969) è un reduce in via di reinserimento con evidenti problemi di disagio sociale. Tuttavia nei primi anni Settanta il reduce viene utilizzato soprattutto nel cinema di genere in virtù delle proprie doti di ex-combattente. Nel mediocre Il piccione d'argilla (1971) di Tom Stern un veterano viene coinvolto dalla polizia nella caccia a uno spacciatore, mentre in piena blaxploitation Slaughter - L'uomo mitra (1972) di Jack Starrett ci mostra le azioni di un ex capitano di colore dei berretti verdi contro una cosca mafiosa che gli ha assassinato il padre. Meglio l’horror La morte dietro la porta (1974) dell'alterno ma originale Bob Clark, nel quale un giovane soldato caduto in battaglia ritorna improvvisamente a casa sotto forma di zombi, chiara metafora politica dell'America di quegli anni e della fine degli utopici ideali del sessantotto. Il più importante titolo sui reduci del periodo è rappresentato da I visitatori (1972) del veterano Elia Kazan, un film a basso costo che traccia un'ombra scurissima sull'esperienza bellica in Vietnam, ibridando il tema dei reduci con il sottogenere degli ospiti indesiderati divenuto celebre dopo l'uscita di Cane di paglia. Interessante il road-movie ferroviario Tracks - Lunghi binari di follia (1976) di Henry Jaglom, che narra la progressiva perdita della ragione da parte del sergente Jack Falen durante il trasporto di una salma nella sua città natale. La mente del protagonista risulta irrimediabilmente sconvolta dagli orrori vissuti e non distingue più realtà da incubo.
Anche il prologo ambientato nel sud-est asiatico de I ragazzi del coro (1977) di Robert Aldrich, sottolinea brevemente l’impatto sociale del Vietnam la cui esperienza segna indelebilmente e in parte giustifica il discutibile stato di servizio di alcuni agenti di polizia reduci dalla “sporca guerra". Rolling Thunder (1977) di John Flynn è invece un revenge-movie che vede nella figura dell’ex maggiore Charles Rane uno dei tanti “giustizieri” del cinema americano anni 70. Amatissimo da Tarantino è un film d’azione non privo di una rozza ma efficace morale sull’indifferenza della società nei confronti di chi ha servito la patria. I guerrieri dell'inferno (1978) di Karel Reisz è un road-movie d’azione lucido, disincantato ed esistenziale, nel quale l’ex-soldato della marina mercantile Ray Hicks è braccato da criminali e poliziotti corrotti che vogliono recuperare una partita di droga proveniente da Saigon. Nei film finora citati la figura del reduce spesso riveste un ruolo marginale e non baricentrico rispetto al racconto. Tornando a casa (1978) di Hal Ashby è il primo film incentrato in modo specifico su questo tema, nonché il più famoso titolo sui reduci degli anni 70 vincitore di tre premi Oscar. In questo film abbiamo tre figure di reducismo: Luke Martin immobilizzato su una sedia a rotelle che rappresenta la ferita fisica della guerra, Bob Hyde combattente sconfitto e lontano simbolo della disfatta militare e Billy Munson reduce squilibrato presto suicida rappresentate della ferita interiore. Il film è sostanzialmente un melodramma a tre con Luke e Bob a contendersi l'amore per la bella Sally ed in cui il Vietnam, irriducibile “luogo del pensiero”, fa da fiammeggiante e traumatico sfondo. Come già accennato Il cacciatore è una saga articolata in più movimenti tra i quali c'è spazio anche per il ritorno a casa dei protagonisti, Michael scosso mentalmente, fisicamente menomato e Nick che rientrerà a casa solo dentro una bara. Il capolavoro di Cimino è la consacrazione del Vietnam come evento generazionale che ha spezzato in due l’America. All’inizio degli anni 80 è John Rambo il personaggio che fa fruttare commercialmente la figura del reduce. Nel primo Rambo (1982) di Ted Kotcheff il personaggio è un veterano in cerca di reinserimento spinto alla violenza dall'intolleranza del potere costituito che forse cerca così di rimuovere il ricordo di un evento terribile e infamante. Benché incentrato prevalentemente sull'azione il film sottende una morale più inquietante quando la perfetta macchina da guerra, l'eroe indistruttibile, si riolta contro il proprio creatore. Birdy (1984) di Alan Parker rivisita la figura del reduce sotto un profilo psicanalitico in un freddo dramma d'ambientazione ospedaliera tra ferite fisiche e psicologiche.
Poi bisogna attendere la fine del decennio per avere un film di grande impatto commerciale ed emotivo sull’argomento come Nato il quattro luglio (1989) di Oliver Stone, incentrato sulla reale figura di Ron Kovic, ex marine ridotto alla sedia a rotelle divenuto in seguito un celebre attivista pacifista contrario all'intervento militare. Il film si denuncia con una certa retorica il tradimento ideologico compiuto dal governo americano nei confronti di tanti giovani che hanno creduto con ingenuo patriottismo di prendere parte ad una giusta causa. Stone tornerà ancora sull'argomento con Tra cielo e terra (1993) in cui il fallito tentativo di reinserimento del sergente Steven Butler è narrato attraverso lo sguardo della moglie vietnamita. Vietnam - Verità da dimenticare (1989) di Norman Jewison è uno scontato dramma moralistico arrivato da noi direttamente in home-video, nel quale il reduce Emmett fatica a condividere il pesante fardello dell'eperienza bellica con la nipote che nel sud-est asiatico ha perso il padre. Peggio ancora il melodrammatico Ritorno dalla morte (1989) di Franklin Schaffner in cui il pilota Jake Robbins dato per disperso in Cambogia torna a casa molti anni dopo trovando una realtà mutata anche negli affetti personali. Decisamente incisivo risulta invece Allucinazione perversa (1990) di Adrian Lyne, che mette da parte le patinature anni 80 per un incubo fanta-orrorifico degno di Cronenberg, in cui il reduce Jacob Singer scopre che i suoi malesseri sono in realtà causati da una sostanza che il Governo somministrava ai soldati per renderli più combattivi. Forrest Gump, oltre all'episodio puramente bellico, presenta anche una parentesi sui reduci che rieccheggia i classici Tornando a casa e Nato il quattro luglio.
Gli amici di colore protagonisti di Dollari sporchi passano dal Bronx al Vietnam senza troppi complimenti. Al ritono il reduce Anthony Curtis impossibilitato a reinsersi decide di rapinare un furgone blindato chiudendo nel sangue una vita atroce. Se questi ultimi film ripetono con risultati alterni un canovaccio ormai noto, tutti hanno l'indubbio merito di trasmettere la difficile percezione di una guerra lontana da parte della vita sociale americana. In questo ambito il reduce è spesso solo con i suoi fantasmi interiori che i borghesi civili non possono comprendere. Ultimo grande esempio di reduce è l'irascibile e polemico Walter Sobchak de Il grande Lebowski (1998) dei fratelli Coen. Rissoso, fascista e paranoico, è una figura tragicomica incapace di reinserirsi in un mondo che alla soglia del nuovo millennio sembra aver fatto a meno di lui e della "sporca guerra".




Le lotte, le speranze, le ansie, ma soprattutto l'eco dell'orrore che lontano mille miglia penetra nelle case degli americani invadendo di napalm i tinelli e riempiendo di sacchi a cerniera l'inquadratura dei televisori domestici. Ma anche chi vive nella paura di andarci o crede in pacifisti pensieri. L’eco del Vietnam si manifesta anche indirettamente senza necessariamente dover passare attraverso combattenti o reduci. La chiamata alle armi condiziona infatti la vita dell’hippie Arlo protagonista di Alice’s restaurant (1969) di Arthur Penn. Nel coevo Hail, Hero! (1969) di David Miller, un giovane Michael Douglas è uno studente universitario che lascia la scuola per arruolarsi con lo scopo di combattere i vietcong non con le armi, bensì con l’amore. Il clima del Vietnam si subodora anche in altri titoli studenteschi come Fragole e sangue (1970), L’impossibilità di essere normale (1970) e soprattutto in Homer (1970) di John Trent. Limbo (1972) di Mark Robson segue la vita di tre mogli con i mariti impegnati nel sud-est asiatico. Two People (1973) del veterano Robert Wise ha per protagonista Evan Bonner, un disertore contrario al conflitto in Vietnam ricercato dalle autorità militari. In Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius il Vietnam rappresenta il traumatico passaggio dalla giovinezza all’età adulta di un’intera generazione, un punto di vista presente anche nel malinconico Gli amici di Georgia (1981) di Arthur Penn, dove uno dei giovani protagonisti sarà spedito in Vietnam tornandone profondamente cambiato. Da ricordare anche il musical Hair (1979) di Milos Forman.
Anche l’originale Robert Altman decide di occuparsi del Vietnam con Streamers (1983), un film da camera girato completamente all'interno di una camerata dove un gruppo di giovani reclute di diversa estrazione culturale e sociale si interrogano sul significato della "sporca guerra". Atipico Nam-movie è anche Good morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson, che con toni da commedia narra le gesta del DJ anticonformista Adrian Cronauer. Tra i più significativi film sulla guerra vista da lontano c’è I giardini di pietra (1987) con cui Coppola torna sull'argomento dopo l’epocale Apocalypse now. Questa volta però firma un’opera meno colossale e decisamente più intimista, in cui i protagonisti sono due veterani decorati ma ormai delusi dall’andamento e dalle ragioni della guerra, che svolgono il servizio di guardia d'onore per i funerali dei caduti inumati nel Cimitero nazionale di Arlington. Non esente da un certo sentimentalismo, il film è soprattutto un onorevole omaggio per le tante giovani vite perdute, nonché una riflessione interna all’esercito sul senso generale di ogni conflitto. Il documentario di Bill Couturi Dear America - Lettere dal Vietnam racconta invece il conflitto in modo particolare affidando a una serie di attori famosi la lettura di 60 lettere inviate dai soldati alle loro famiglie.
Il tutto accompagnato da materiale audio-video d'epoca. 1969 - I giorni della rabbia (1988) di Ernest Thompson è ambientato nel 1969 e narra le divergenze di due fratelli sulla guerra del Vietnam. Alla soglia del nuovo millennio Tigerland (2000) di Joel Shumacher ricostruisce con stile documentaristico il Vietnam nelle paludi della Louisiana dove si sta addestrando un gruppo di giovani reclute. L’eco della guerra è lontano ma il duro addestramento a cui sono sottoposti i protagonisti è più di un semplice presagio di cosa li aspetterà nel sud-est asiatico. Infine in The post (2017) di Steven Spielberg è un reportage sui giornalisti del Washington Post che svelarono le manovre e le menzogne sul Vietnam della classe politica, assestando il primo duro colpo all'amministrazione Nixon.


APPROFONDIMENTO INSERITO DAL BENEMERITO ROCCHIOLA
25 Gennaio 2019 13:44
"A un passo dall inferno" non lo conoscevo.
Ho sempre pensato che "Berretti verdi" fosse stato il primo film sul Vietnam.
25 Gennaio 2019 19:37
29 Gennaio 2019 00:10
5 Maggio 2024 19:37
Articolo veramente esauriente.
Dei film citati non ne conoscevo diversi (sei).