Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Robusto legal movie tratto dal racconto di Jon Harr, basato sulla reale vicenda di Woburn, piccolo centro colpito da un avvelenamento delle falde acquifere, responsabile della morte di diversi bambini. Travolta e Duvall si confrontano con dovizia di mestiere: il primo sembra rappresentare lo scrittore che subì un tracollo finanziario pur di vedere pubblicata la storia, mentre Facher, infimo esperto di ingiustizia, impartisce lezioni di spietato successo. Il simbolismo dell'acqua ricorre lungo l'intera pellicola, bicchieri e fiumare inclusi; incisiva la Quinlan, volti noti nel cast.
Tornano insieme Lee e Washington lustri dopo Inside man, senza riuscire a ricreare la stessa alchimia. Demerito del regista che in quello che molti (non lui, però) considerano remake di un film di Kurosawa (in effetti lo è solo per metà) sembra voler lanciare moniti a una black culture più orientata verso il binomio successo/denaro che a istanze sociali rivoluzionarie. Sempre deciso inoltre a spaccare l'umanità relegando i "bianchi" a ruoli marginali, per lo più negativi. C'è poi la celebrazione della grande bellezza di New York, ma troppo stilizzata. Si guarda per devozione.
Dentro una storia d’amore e ossessione, un ritratto sociale, crudo e lucidissimo, sulle ombre che si attanagliano dietro i rigidi canoni di bellezza coreani. Kim Ki-Duk flirta prima con una sorta di commedia grottesca, per poi immergersi progressivamente in un abisso tossico, cupo e stralunato sfiorando i confini della misantropia. Straordinari Jung-woo-ah e Sung Hyun-ah.
Che la disabilità agli occhi degli altri possa mutarsi in orgogliosa arma identitaria nelle mani di chi ne è affetto è assunto narrativo non nuovo: a colorare il triangolo fra l'integrata Sophie (Chung), lo stolido outsider Wolf (Yau) e l'accomodante trait d'union Alan (Ng) sono gli evidenti riferimenti politici a una sovrastruttura imperante che, dalle cerimonie pubbliche alla sfera privata, estende i suoi tentacoli omologanti sul diverso e sul non conforme. È forse questo l'unico, reale motivo di interesse di un dramma ben condotto, ma complessivamente risaputo e troppo lungo.
Un misterioso stalker inizia a tempestare di messaggi offensivi e minacce una coppia di teenager in una pacifica cittadina americana; chi sarà il cyberbullo? Dopo una prima parte allestita come un vero e proprio giallo, con la presentazione di sospetti, ipotetici moventi e teorie annesse, la seconda passa a una trattazione più drammatica e psicologica, cercando di inquadrare i protagonisti da un'angolatura il più possibile introspettiva (a un soffio dall'invasione della privacy). Qualche lacrimismo di troppo non inficia il valore di un documentario fosco e fascinosamente disagiante.
Il titolo originale “Valley girl” si riferiva a un termine coniato in quegli anni a indicare una subcultura di ragazze frivole della valle di San Fernando in California. Il film segue infatti il ritrito up-and-down culturale fra la perbenino e il ribelle. Praticamente Lilli e il vagabondo. Un soggetto logoro che attraversa tappe standardizzate, usando testi altrettanto scontati. Il più delle volte si spera che i molto più interessanti brani in sottofondo sovrastino le voci. Forse in originale un americano lo troverà divertente, potendo godere del folkloristico “valleyspeak”.
Torna Ozgood Perkins, che con LONGLEGS aveva dimostrato di saper innovare in un genere solitamente molto rigido e ripetitivo come l'horror. Il miracolo però non si ripete e questa volta, alle prese con un racconto di Stephen King, non può che limitarsi a lavorare sulla forma cercando di imporre qualche piccola idea che però, nell'economia complessiva, non lascia proprio il segno.
Lo spunto parte da una scimmietta di quelle con il tamburo, battuto con le bacchette tramite un meccanismo semplice che genera un...Leggi tutto rumoroso effetto sonoro. Nel prologo è riconsegnata da un uomo a un giocattolaio: è disperato, spiega come l'avvio dell'ingranaggio annunci l'imminente morte di qualcuno che si trova nei paraggi (mai si sa in anticipo chi). Il giocattolaio, scettico, ci resta secco per primo. A chi finirà in mano la malefica scimmietta? La ritroviamo tempo dopo chiusa in una scatola tra gli oggetti lasciati da un uomo alla propria famiglia prima di morire. "Like life", come la vita, c'è scritto sopra. Che significa? Qualcuno una sua interpretazione la darà: non si può mai scegliere quando morire.
Insomma, si capisce presto che si andrà a parare in una sorta di FINAL DESTINATION in cui al Tristo Mietitore si sostituisce appunto "The Monkey", la scimmia. Per quanto l'assassino sia di fatto quest'ultima, non potendo agire personalmente lo fa "creando" ogni sorta di incidenti: una piscina che finisce elettrizzata e fa scoppiare (!!!) la poveretta che ci si tuffa dentro, un fucile carico che spara in faccia appena apri la porta dell'armadio che lo contiene e via dicendo. Il tutto però senza preoccuparsi di elaborare tragedie particolarmente ingegnose come capita nella celebre saga di FINAL DESTINATION perché, in fondo, qui esisterebbe anche una storia, come sempre in King. Che è quella di due gemelli, Hal e Bill (interpretati entrambi da Christian Convery quando sono ragazzini e da Theo James quando sono adulti), che lentamente prendono coscienza di quali incredibili poteri abbia la scimmietta trovata nella scatola di papà.
Una disgrazia dietro l'altra, fino a quando i due decidono di fare a fette il diabolico giocattolo e di buttarlo giù in un pozzo. Fine della maledizione? Per venticinque anni sì, ma poi tutto ricomincia... Come in "It", se si vuole, ma senza che la storia possa ambire ad avere lo spessore di quello che molti ancora ritengono il capolavoro dello scrittore del Maine. E infatti il film è poca cosa, con dispute insignificanti tra fratelli e una sceneggiatura (che Perkins adatta da King senza altrui collaborazioni) che fatica a trovare sbocchi in grado di renderla fluida e gustosa.
La regia lavora quindi sull'animazione della scimmietta (bella la bocca che si apre mostrando la folta dentatura, inquietanti i primi piani sugli occhi e il movimento della bacchetta), su qualche effetto splatter efficace, su stop frame e montaggio... Sfrutta una fotografia di qualità e una confezione complessivamente di ottimo livello, ma non basta. D'accordo, si supera il desolante DONO DEL DIAVOLO, prima riduzione dal medesimo racconto, ma ci voleva davvero poco...
Come sempre, qualsiasi possa essere la trama, fenicia o meno che sia, in Wes Anderson a catturare subito l'attenzione è la composizione dell'immagine. Non ti puoi sbagliare: quando vedi quelle ricostruzioni teatrali che in sostituzione delle quinte propongono scenografie coloratissime di rara bellezza, simmetrie studiate in ogni singola porzione dell'inquadratura, è difficile non rimanere abbagliati. Poi certo, c'è anche la voglia di raccontare (anche qui) il mondo secondo logiche grottesche e surreali. C'è però qualcosa di diverso, in LA TRAMA...Leggi tutto FENICIA, rispetto agli ultimi film che agivano coralmente costruendo passo dopo passo le strampalate avventure che riempivano lo schermo. Perché qui c'è un protagonista solo e immediatamente individuabile come tale, ed è attraverso i suoi occhi che seguiamo la vicenda.
"Zsa-Zsa" Korda (Del Toro), magnate dal passato discutibile e perenne vittima di attentati destinati immancabilmente a fallire, si salva nell'incipit da un disastro aereo che ha coinvolto il suo jet privato. Convocata suor Liesi (Threapleton), l'unica figlia dei suoi nove a cui vuol lasciare l'intera eredità infischiandosene degli altri (che potrebbero pretenderne almeno una parte), le illustra il suo prossimo progetto, i cui contorni restano sfumati per essere spiegati solo durante la seconda parte del film. Si sa però chi l'uomo dovrà contattare per ottenere i finanziamenti di cui necessita, non ultimo il fratello Nubar (Cumberbatch), presenza inquietante forse corresponsabile della morte della madre di Liesi (ex sposa di "Zsa Zsa").
Tutto da verificare anche in questo caso, ma sono interrogativi che - già lo sappiamo - non avranno mai la necessità di essere spiegati fino in fondo, perché a Wes Anderson interessa molto di più dispiegare la sua storia attraverso incontri che sono la solita passerella di divi felici di sfilare per il regista texano, da sempre apprezzatissimo nei circoli che contano. E d'altra parte non gli si può negare uno stile personalissimo, una sensibilità unica che lo isola da qualunque altro autore. Non sempre nel bene, sia chiaro, e infatti qui, rispetto ad altre prove più recenti, i dialoghi sono farraginosi, raramente interessanti, e colpiscono di più le gag visive che coinvolgono spesso anche il "precettore" Bjorn Lund (Cena), accompagnatore inseparabile del protagonista insieme alla giovane Liesi.
Non manca poi qualche intuizione che rielabora una situazione comunissima a certe commedie, ovvero il passaggio nell'aldilà, qui buffamente temporaneo e dovuto ai continui tentativi di uccidere Korda che lo portano più volte a sbirciare cosa gli accadrà dopo la morte (incontrerà persino Dio, interpretato da un irriconoscibile Bill Murray, attore feticcio utilizzato giusto per una brevissima apparizione). NDE, Near Death Experience, sarebbe la definizione tecnica, se qui non suonasse tanto fuori luogo: perché in fondo è solo uno dei tanti espedienti surreali che portano Korda a ripresentarsi poco dopo in scena con qualche sfregio o ferita più o meno profonda...
Ancora una volta, però, il difetto maggiore di Anderson rifà capolino: a piccole dosi il film appare simpatico, brillante, stimolante, curioso, sfavillante. E' quando ci si accorge che lo schema si ripete sempre uguale a se stesso che finisce con lo stancare, farsi pesante... Al punto che anche la durata contenuta, alla fine, non è sufficiente a eliminare il difetto, e la logorrea di tanti personaggi (protagonista incluso) tende a sfiancare prima del previsto...
Tratto da una storia vera da cui il regista Alex Parkinson aveva già tratto nel 2019 il documentario omonimo, il film racconta quanto accadde a una spedizione che nel 2012 scese nelle profondità del Mare del Nord (partenza da Aberdeen, in Scozia) per la riparazione di alcune importanti tubature che garantivano il gas a buona parte delle zone limitrofe. Che il film non faccia dall'originalità la sua forza lo si capisce dal titolo e dalla locandina, uguali a mille altri. D'altra parte, ci viene ribadito, si sta...Leggi tutto riportando un fatto di cronaca cercando di attenersi alla realtà dei fatti: non si può pretendere spettacolo ad ogni costo come se si stesse inventando una vicenda mai accaduta con l'unico scopo di intrattenere.
Eppure - a dirla tutta - i personaggi che compongono l'equipaggio della nave e i palombari sembrano usciti da un action qualsiasi e, se non fosse per la ben nota predisposizione all'ironia e la bravura di Woody Harrelson, poco ci sarebbe da dire del cast. Le caratterizzazioni sono chiaramente derivate da stereotipi: Chris (Cole) è il bravo ragazzo che deve farsi una vita con la fidanzata (Rainsbury) che lo ama, Dave (Liu) è l'orientale che ovviamente non parla e ti guarda storto, Andre (Harrelson) è l'uomo di grande esperienza che sdrammatizza senza però mai trasformarsi in macchietta. Loro sono quelli che s'immergono nella campana legata alla nave che li fa scendere negli abissi e quelli che più si vedono.
Poi c'è l'equipaggio sulla nave, meno singolarmente definito ma che avrà presto un ruolo fondamentale. Perché quando arriva la tempesta qualcosa succede, e il primo a uscire allo scoperto nelle profondità del Mare del Nord, il giovane Chris, diventerà la figura chiave, suo malgrado. Càpita infatti che, nel momento del panico diffuso causato dall'infuriare in superficie della tempesta, con la nave che perde il contatto con la campana subacquea, il cavo che legava Chris alla stessa si spezzi. Dove il nostro sia finito sulle prime non si capisce, ma sappiamo benissimo che la sua scorta di ossigeno finirà quanto prima. E su questo gioca il film, che riporta un evento giustamente definito "miracoloso" (ciò che in definitiva giustifica la realizzazione di ben due opere tratte da quanto accaduto) senza tuttavia poterne convertire la potenza in azione.
Se quindi ci si discosta dai molti film già prodotti in tema, lo si deve principalmente a una narrazione molto sobria, priva di quegli effetti e musiche tonitruanti abitualmente legati alle fasi di suspense; perché tali fasi, in sostanza, qui quasi non esistono: rispetto al solito poco accade, nel corso dell'intera storia. La nave è in balia di onde (alcune riprese notturne mostrano l'imbarcazione spostarsi faticosamente tra i marosi) che sembrano sempre le stesse ed è in cabina che tutto si decide: quando ad esempio il comandante (Curtis) decide di innestare la sconsigliatissima guida manuale per recuperare il corpo del povero Chris.
Nel frattempo i minuti in cui il sangue non pompa al cervello del giovane si fanno di attimo in attimo più teoricamente ingestibili, per un'equipe medica, e durante questo arco di tempo si sovrappongono le discussioni su come riportare in nave almeno il corpo. La volontà di mantenere un approccio realistico e lontano da fantascienza, horror o azione spinta fornisce al film il pretesto per difendersi dalle accuse di una narrazione piuttosto piatta, che si concretizza in dialoghi anonimi e in riprese subacquee solo di rado davvero coinvolgenti. La confezione è di discreto livello, ma la quasi totale assenza di scene che possano lasciare il segno si sente, e il lungo finale con appassionati abbracci sulle rive del mare dà l'impressione di chi non sa bene come “fare metraggio” in altro modo. Sui titoli di coda brevi filmati dei veri protagonisti della vicenda, come da prassi.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA