Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
L'iniziale struttura da documentario sui generis, poi evolutasi in qualcosa di più narrativo, impedisce al film di emergere dalla mediocrità, con vari passaggi pretestuosi e altri in cui il ritmo si arena, il tutto accompagnato da stucchevoli rimandi cinefili. Tuttavia, grazie alla regia attenta, alla cura fotografica e alle interpretazioni convincenti (non professionisti compresi), l’opera raggiunge un livello dignitoso, sostenuta da una certa naturalezza e leggerezza. Le tanto celebrate performance dei Madredeus aggiungono un tocco di colore locale, ma melodicamente incidono poco.
Non è facile parlare del film senza lasciarsi influenzare dalle sfavillanti e colorate atmosfere della primavera nordica. Si inizia con un dramma familiare buio, freddo e malato, per poi aprirsi, come in un passaggio di stagione, al piacevole tepore dei primi caldi. La musica folk suonata con gli strumenti tradizionali accompagna la discesa verso gli inferi di un gruppo di ragazzi appositamente invitati da una comune persa nel nord della Svezia. Con un crescendo di follia e paganesimo il film si conclude con un sorriso tanto beffardo quanto floreale. Magnifico.
Un cupo dramma che scava con intensità nel dolore e nei segreti sepolti. La regia è sobria ma incisiva, mentre Sean Penn e Tim Robbins offrono interpretazioni di straordinaria forza emotiva. Tuttavia la narrazione, pur densa di pathos, a tratti si appesantisce, la tensione latita e si arriva a sfiorare il melodramma, diventando un po' stucchevole. Nonostante ciò, è un thriller che lascia il segno, in grado di evocare riflessioni profonde sulla colpa e sulla redenzione.
Adagiato sul Velluto Nero di un Egitto ipotetico, visitato dal jet set, Rondi evocava sogni d'autorialità e sexploitation. Splendore esotico Laura Gemser. Dozzinali musiche etno-psichedeliche di Baldan Bembo. Nieves Navarro col sorriso dissimulatore di sempre, giovinette scapestrate Zigi Zanger e Annie Belle, il santone demenziale di Al Cliver, l'attore decaduto di Fëdor Šaljapin, Gabriele Tinti con maniacalità donava alla vagheggiata. La sceneggiatura è pretesto di spiritualità d'accatto e irrisoria necrofilia. Oltre alle efferatezze e l'imbarazzo però vigeva del fascino autentico.
Film scarso ma di enorme successo. Probabilmente legato al nome di Scott regista, visto che è il suo primo dopo il trionfo del Gladiatore. E anche il nome di Mamet in sceneggiatura deve aver avuto il suo peso. Ma poco o nulla funziona in questo sequel del Silenzio degli innocenti: non la storia, contorta, che vede Lecter in Italia, alle prese con un investigatore (Giannini) interessato più al denaro della taglia su di lui che al suo dovere. Non una diafana Moore nel ruolo che fu della Foster. Non Oldman nel ruolo dello sfigurato miliardario che insegue vendetta sul cannibale.
Coppola dipinge uno dei ritratti più sinceri della mafia italiana in America. Oltre alla superlativa interpretazione di Marlon Brando nelle vesti di Don Vito, è la maestria del giovane Al Pacino nel far crescere il personaggio di Michael Corleone da semplice veterano disinteressato agli affari di famiglia, in uno dei padrini più lucidi, lungimiranti e spietati della storia del cinema, a riempire gli occhi e il cuore dello spettatore. Autentica pietra miliare della storia del cinema.
Liam Neeson, nordirlandese di Ballymena, ritorna alle origini spostandosi solo un po' più a ovest, tra le verdi scogliere del Donegal, per interpretare il sicario sul viale del tramonto Finbar Murphy, che vediamo all'opera mentre si ferma a parlare con quella che dovrà essere la sua ultima vittima nel campo dove ne ha già seppellite un po', piantandoci sopra un albero. La sua vita è fatta di poche persone: giusto chi lo paga (Menaey), la piccola Moya (Gleeson) e sua madre (Greene), un poliziotto che bazzica nella sua zona (Hinds), una vicina di casa (Cusack)......Leggi tutto Quasi nessuno sa quale sia realmente il suo lavoro e, con quelle espressioni da uomo di buon cuore dall'aria assopita, non lo diresti proprio un sicario. E infatti, come detto, ci viene concesso di assistere a uno solo dei suoi "contratti", con uccisione peraltro fuori campo e quasi giustificata, dal momento che la vittima non la smette di cantare...
Poi si comincia a focalizzare l'attenzione su un gruppo di terroristi dell'IRA (siamo nel 1974) che nell'incipit avevamo visto compiere un attentato durante il quale erano saltati in aria pure due bambini (giusto perché non ci si provi neanche per scherzo, a simpatizzare con i cattivi). A capeggiarli è la feroce Doireann McCann (Condon), giovane nevrotica che si è nascosta nel Donegal grazie all'aiuto del fratello Curtis (Eastwood), ancor meno equilibrato di lei e che infatti farà qualcosa che manderà su tutte le furie Finbar. E' la scintilla che fa scattare la vendetta, richiamata da un titolo italiano che stravolge l'originale in modo da poter legare Neeson alla parola con la quale più lo si associa nelle sue incarnazioni commerciali da (super)eroe action.
A dire il vero qui di azione ce n'è ben poca e anche sparatorie, inseguimenti e corpo a corpo sono limitati al finale, nemmeno così esplosivo come ci si aspetterebbe. Perché il film predilige i ritmi lenti, le aperture paesaggistiche sulle verdissime coste irlandesi che la fotografia e l'uso dei campi lunghi giustamente valorizzano. La sensazione di desolazione che solitamente si avverte nei film ambientati in quelle zone anche qui diventa aspetto fondamentale di una messa in scena di valore, in cui la buona recitazione non è garantita solo da Neeson ma anche - ad esempio - da una villain femminile di ottimo carisma come la Condon o da un personaggio centrato e cinicamente altezzoso come il Robert McQue di Colm Meaney, sempre seduto alla sua scrivania e incapace di scomporsi.
A funzionare poco è però una sceneggiatura che, oltre a non offrire granché dal punto di vista dei dialoghi, non trova nemmeno situazioni che possano favorire un timido approccio thrilling. Siamo piuttosto nell'ambito di un noir dalle tinte drammatiche, privo di grandi sorprese (neanche nell'ultimo scontro a fuoco) e che non ha in fondo molto da dire, già visto in tante altre produzioni simili e che, privato del fascino regalato da location di grande suggestione, si confonderebbe tra mille altri. Con un Neeson nemmeno troppo imbestialito né così ansioso di eliminare l'antagonista, che pure una bella fine atroce la meriterebbe senza dubbio. Succede poco, insomma, e un bel po' ci vuole, prima di dare una bella girata al motorino d'avviamento. Gradevole musica folk di sottofondo con qualche buon brano da classifica ("Get Down" di Gilbert O'Sullivan), ma nulla di veramente interessante da segnalare...
Quando ci si sposta nei desolati borghi in altura, al cinema, i rumori si spengono, l'azione rallenta, la narrazione si rarefà, si colgono piccoli particolari che nei film più tradizionali passerebbero inosservati e si cerca un protagonista che incarni al meglio lo spirito quasi eremitico che domina quei posti (qui siamo nelle Marche). Il regista Damiano Giacomelli lo trova in Giorgio Colangeli, che soprattutto negli ultimi anni sta guadagnandosi sempre più partecipazioni variando il genere e dimostrando versatilità non comune. Qui è Ottone Piersanti, un ex...Leggi tutto maestro elementare ed ex giornalista di cronaca locale che - lo si capisce fin dalle prima scene - ha un conto aperto con una famiglia di calabresi migrata dal Sud e che faticosamente cerca di integrarsi. Ottone spara a uno degli appartenenti, ciccando i colpi e sfasciando il suo vecchio fucile, ma ciò non toglie che gli animi siano tesi e si vede.
Poi si rintana in casa, dove vive da solo assistito in qualche modo da un suo ex alunno, Giorgio Petinari (Abruzzetti), diventato poliziotto in un paese che conta quattro anime, disperse tra la bocciofila e pochi altri luoghi di ritrovo. Perché quello che si respira è un clima di totale abbandono, nel quale bene si inserisce la scomparsa di tale Rambaldi, un venditore ambulante partito la mattina e non più rientrato. Un caso che, all'interno del nulla cosmico in cui è immersa Castelrotto, fa scalpore. Tanto che l'ex moglie (Attili) di Ottone, giornalista ormai dedita agli articoli online, spinge l'ex marito a riprendere in mano la penna (o meglio la macchina per scrivere) e, per aiutarlo a "trovare l'ispirazione", gli spedisce lì una giovane e fascinosa stagista, Mina (Tantucci), che non manca di far presto innamorare di sé il buon Petinari...
Ma la scomparsa di Rambaldi entra ed esce dalla vicenda come se restasse sullo sfondo, esile filo che lega scene tra loro spesso riunite in modo frammentario, dominate dal lento incedere del suo protagonista che trasmette la sua indecisione al film, che si appesantisce di conseguenza minuto dopo minuto spesso non riuscendo a comunicare alcun coinvolgimento, arenandosi troppo frequentemente in un nulla di fatto che ha la sua giustificazione esclusivamente nel modo di girare scelto dal regista, vicino a un cinema d'autore cui difetta tuttavia la forza necessaria.
La fotografia slavata che spegne i colori è una scelta piuttosto convenzionale, in casi come questo, mentre lo è molto meno la colonna sonora di Peppe Leone, a forte base percussiva, ricca di contrasti, di passaggi sincopati che si vorrebbero ascoltare meglio e in più parti. Non mancano insomma motivi per apprezzare il film, recitato sostanzialmente bene, curato nel disegno dei personaggi eppure troppo dispersivo, con un finale velleitario che presenta vaghe tracce felliniane (i musicanti nel bosco) in cui si disperdono le sorprendenti intuizioni espresse dalla testimonianza di Piersanti al processo. Il suo cambiamento nel carattere, da amico di tutti in paese a uomo solitario e burbero, mostra un altro percorso interessante, così come non sono da sottovalutare le relazioni che intercorrono tra le poche figure di spicco in paese. Però il ricorso (corretto, per carità) a un'inflessione dialettale che rende a tratti difficoltosa una piena comprensione, le tante pause, la pesantezza con cui la regia porta avanti la storia, la scelta di sopprimere ogni tipo di azione e di tensione in favore dello scavo psicologico, sono tutti elementi che non depongono a favore della godibilità dell'opera, per molti versi valida ma spesso respingente.
In questi thriller da divano che chiaramente non possono disporre degli stessi mezzi di quelli destinati alle sale, le trame sono ciclicamente sempre le stesse. Quella in cui un elemento estraneo si intromette all'interno di una famiglia felice per sostituirsi in qualche modo a uno dei componenti è tra le più abusate; e, all'interno di queste, la variante più frequente è proprio quella della baby sitter che, millantando referenze inventate lì per lì e spacciate per autentiche grazie a trucchi vari, mostra subito mille risorse diventando, per chi...Leggi tutto ne ha richiesto l'aiuto, insostituibile.
Ecco, l'ambito di THE STRANGER GAME è esattamente quello appena descritto, con la differenza che la tata è qui un... tato, ovvero un uomo. Charlie (Orth), infatti, è il tuttofare che, conosciuto da Joanna Otis (Rogers) a un party legato al suo lavoro (lì fa il cameriere), le si propone per badare al loro figlio Sam (Dubois) quando loro non sono a casa. E capita spesso, perché anche Paul (Hope), il marito di Joanna, è uno che ci dà dentro col lavoro e spesso resta in studio fino a tardi. Anzi, i due escono da una crisi perché lei aveva scoperto come a quei rientri in piena notte era da associare un'amante che con l'uomo filava da oltre un anno! Poi il perdono, il pentimento di lui e il rientro nei ranghi. Ora la nuova "capa" è una sventola bionda (Salomaa), ma Joanna cerca di fidarsi di Paul e lui sembra davvero ravveduto.
Serve una mano in casa, comunque, e Charlie casca come il cacio sui maccheroni: cucina, sistema le lampadine, mette le trappole per i topi, cura il giardino, diventa da subito amico del simpatico cicciottello Sam... Che si può volere di più? Una trama meno scontata? Forse, ma dopotutto ci si può pure accontentare, dal momento che Mimi Rogers garantisce un'interpretazione superiore alla media del genere e che David Orth ha lo sguardo malizioso giusto per tenere tutti sulle spine. Scoprire il suo gioco tuttavia non è cosa da nulla (come non lo è mai, in questi casi); perché è talmente servizievole, gentile, ricco d'ingegno, capace di risolvere ogni problema che non è facile rinunciarci. E perché poi si dovrebbe? Controindicazioni non sembrano essercene ed è il solo Paul a non fidarsi di tanta untuosa disponibilità, come da tradizione. Mamma e figlio, al contrario, ne vanno pazzi. E non si accorgono che se qualcosa comincia a girare storto, nelle relazioni in casa, è perché “qualcuno” ci ha messo lo zampino.
La regia spigliata di Terry Ingram garantisce buona scorrevolezza, i momenti di ambiguo confronto non mancano e solo il finale appare tirato via e inefficace. Quando insomma ci sarebbe da far partire il vero spettacolo... casca un po' il palco e ci si rifugia in una svolta action goffa e modesta, difetto che coinvolge invero un po' tutta l'ultima parte. Meglio quando la famiglia è ancora all'oscuro dei piani di Charlie e ci si diverte a vedere quali stratagemmi il diabolico tato architetta per mettere zizzania tra i coniugi...
Si può guardare se si vuol passare un'ora e mezza senza impegno; poi certo, a contare i buchi e gli spunti buttati lì senza criterio (si veda l'amico che spunta dal passato di Charlie e gli tira un brutto scherzo alle giostre, con zuffa alle spalle di Joanna che non s'avvede di nulla) si dovrebbe essere più impietosi, ma dal momento che in fondo lo si vede con un certo gusto...
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA