L'altra faccia glamour (l'eleganza stilistica di Ford ne è valore aggiunto) del revenge movie.
Spiazzante e decisamente disgustoso l'incipit da perfetto incubo lynchiano, per una storia noir ( e non solo per la colonna sonora bernardherrmanianna di Abel Korzeniowski e l'algidità hitchcockiana di Amy Adams in versione gallerista) che si dipana su due spazi paralleli narrativi (la realtà dei crucci amorosi e dei matrimoni falliti, la pagina scritta come vettore di inaudita violenza e sete rabbiosa di giustizia privata) e che fa rimanere lo spettatore in un continuo stato di defribillazione.
Un ansiogeno e quasi insostenibile "agguato" notturno stradale che sta tra
Autostop rosso sangue,
Wolf Creek e
Un tranquillo weekend di paura (e che conferma la fobia del sottoscritto a viaggiare in macchina di notte, con la proverbiale automobile che non rispetta le distanze di sicurezza e ti punta gli abbaglianti addosso), di brutale violenza e prevaricazione, fino alle estreme conseguenze.
Madre e figlia abbracciate, nude, sul divano rosso di necrofora bellezza tra le lande sperdute di un Texas non poi molto dissimile di quello di
Non aprite quella porta (e dal Rob Zombie di
La casa del diavolo), una goffa "giustizia fai da te" più vicina a
Un borghese piccolo piccolo che nemmeno al
Giustiziere della notte, sceriffi divorati dal cancro ai polmoni che ormai non hanno più nulla da perdere (se non valicare quella legge che loro stessi rappresentano), e un terzetto di delinquentelli del villaggio di inumana bestialità e mossi dal semplice gusto dell'uccidere o dello stuprare.
Ford (non solo stilista di fama ma anche gran regista a tempo perso) si muove negli ambienti che ben conosce (le feste mondane, le lussuose ville
parargentiane, le rappresentazioni artistiche viste come sfilate di moda, le riunioni per stabilre se un dipendente è da silurare o meno, la cura maniacale di scenografie e costumi), sterzando, poi, nell'america redneck più polverosa e maleodorante tra mosche, vomito, scatarrate in faccia, stupri di gruppo, defecate sulla tazza del WC fuori sulla veranda di una spelonca sudicissima, fino ad arrivare ad un finale secco, brutale, dai riverberi da western moderno, dove l'animo buono di un'uomo che vuole vendicarsi da i suoi effetti controproducenti.
Confezione elegantissima, parterre attoriale da brividi (su tutti il bastardissimo Ray Marcus di Aaron Taylor Johnson), emotività che avvolge come una spirale, e meschinità matrimoniali (l'aborto, le corna, le rinfacciate, l'insensibilità, la freddezza). E non ultimo il tocco del "tomsaviniano" Jason Collins, con il volto tumefatto (e l'occhio gravemente ferito) di Jake Gyllenhall.
Per questo che la chiusa al ristorante di lusso, silente e dolorosissima, sa di amarissima umiliazione e di lancinante sconfitta.
Meritatissimo il gran premio della giuria al Festival di Cannes.