Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
L’intenso minimalismo di Tarr accompagna le vicende di un paese ai confini di una desolata campagna. Le carrellate lente danno luce all’eroismo minuto di gruppi e individui. Il magistrale chiaroscuro scava fra le anse di una comunità sfilacciata, apatica ma non individualista. L’unica presenza di una realtà lavorativa è data dallo scorrere monotono dei cassoni minerari. Amori, passioni, affari illeciti e una pioggia incessante. Tarr descrive crudamente lo sfacelo sforzandosi però di concedere allo spettatore e a sé stesso il beneficio del dubbio e quindi l’idea di una riabilitazione.
Storia di tradimento che ci parla di quel periodo distopico vissuto da tutti, il famigerato lockdown, in questo caso all'interno di un notevolissimo appartamento nella capitale. Scamarcio svolge ottimamente il suo dovere e la storia sembra procedere su binari ordinari anche se scelta dei toni di colore e di qualche musica potrebbe lasciar intravedere qualche indizio. L'ingresso dell'amante di lei introduce l'elemento thriller che poi arriva a prendere il sopravvento. Non un lavoro memorabile, ma un dramma con il suo filo di tensione che si lascia guardare.
La prima stagione è notevole per come riesce a creare una tensione crescente, insinuandosi nelle pieghe del quotidiano. Tutto viene ben dosato e il crescendo è ottimo. Peccato che poi le altre stagioni presentino troppi alti e bassi (con più punte verso il basso che verso l'alto), ovvietà che a volte fanno cadere le braccia, elementi inutili che servono solo ad allungare il brodo, spesso in maniera eccessiva. E ci sono anche troppe retromarce e ripensamenti che non permettono comunque di coprire i buchi di sceneggiatura che anche l'epilogo lascia, purtroppo, aperti. Così così.
Wanna Marchi per anni è stata la regina delle televendite ma con il passare del tempo, per poter continuare a fare soldi, ha cominciato un'attività volta al raggiro di persone con la collaborazione della figlia e di un sedicente maestro di vita. Il documentario riesce a fornire un quadro esaustivo di tutta la vicenda attingendo a piene mani su di un ricco materiale di repertorio. Madre e figlia rispondono imperturbabili alle domande che gli vengono proposte mostrandosi senza filtri. Il merito dell'opera sta proprio nel mettere le protagoniste nella condizione di essere se stesse.
Ultimo film, uscito post mortem, di un autore estraneo alle "grammatiche" cinematografiche comuni con un'opera felicemente ambigua nel suo muoversi fuori dai generi, oltre la barriera dei "messaggi", pur dentro il sistema produttivo neo televisivo ovvero da piattaforma. Quello di Maria Capasso è quasi un racconto Fassbinderiano fuori tempo e sincro, la cui morale sta nel secco taglio narrativo che non indirizza il giudizio etico, appiattendo la visione ma chiedendo profondità a chi guarda. Peccato alcuni passaggi bislacchi e che reciti solo una Ranieri calda fuori e fredda dentro.
Un'attrice passa dall'essere una promessa del cinema a una fallita totale nell'arco di dieci anni. Quando finalmente il suo agente le procura un provino presso un agente importante, questi si rivela un pessimo elemento. Nonostante si tratti di un film indipendente dal risicatissimo budget, anticipa il movimento "MeToo" di qualche anno, cercando con ironia ma anche con amarezza di mettere alla berlina la vera faccia del mondo del cinema americano e dei suoi tristi meccanismi, ambigui e squallidi. Ottima la protagonista, in balia degli eventi e di incontri sfortunati.
Storia di una mediazione condotta nell'Iraq del 2005 dal generale del Sismi Nicola Calipari (Santamaria). Il suo obiettivo è quello di liberare la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena (Bergamasco), finita nelle mani di militanti in guerra per liberare il loro paese dagli americani che all'epoca l'avevano invaso. Calipari (soprannominato per l'appunto "Il nibbio") arriva in Iraq con l'aereo e prende contatto con i suoi uomini per una missione ancora tutta da spiegare; perché quanto abbiamo appena visto accadrà solo... 28 giorni dopo, come direbbe...Leggi tuttoBoyle. L'azione si ferma, quindi, e retrocediamo di 28 giorni, al momento in cui Giuliana Sgrena viene catturata dagli iracheni e sbattuta nella camera di un appartamento in attesa del da farsi.
Fin da subito le autorità vengono informate della cosa e mettono in movimento Calipari il quale, raggiunto da una telefonata mentre era in auto in direzione vacanze con la famiglia (la moglie è Anna Ferzetti), è costretto a mollare tutto e partire per Baghdad. Il film racconta il difficile lavoro di tessitura con personaggi equivoci, ricattatori, gole profonde che dovranno portare Calipari sulle tracce della Sgrena. Naturalmente si alternano le sue vicissitudini con qualche scena in Italia, dove nelle alte sfere si decide come agire e al Manifesto ci si preoccupa per la fine che potrebbe fare la loro amata collega. Alla famiglia di Calipari invece non viene lasciato troppo spazio, giusto qualche raro scambio qua e là, massimo un paio con i due figli. Perché il focus è in massima parte in Iraq, dove una fotografia dalla forte dominante ocra tinge tutto dei colori caldi della terra e della sabbia.
Ben ricreata l'atmosfera locale, correttamente scritti i dialoghi che con lenta progressione sembrano portare agli sviluppi positivi della mediazione. Nella sua camera chiusa la Sgrena si rende conto di una condizione non certo felice per la quale fatica a immaginare una soluzione che possa riportarla in Italia. Parla in inglese perché quella è la lingua con cui si interfaccia chi è di paese diverso, quindi abbondano inevitabilmente i sottotitoli.
La realizzazione di Alessandro Tonda è valida, solida. Forse non sempre troppo scorrevole ma impostata con perizia, così da infondere la necessaria credibilità alla vicenda, non facile da rendere fruibile anche a un pubblico di non appassionati. Invece si capisce come il lavoro in regia sia intelligentemente studiato per permettere di introdurre un numero di personaggi relativo, lasciando giustamente sullo sfondo chi non riveste ruoli di grande rilievo nella vicenda. Il risultato, insomma, è sufficientemente godibile, diverso da quello che siamo abituati a vedere nel genere, e contribuisce a creare un film a suo modo originale e interessante, non solo da un punto di vista storico.
Commedia surreale che segna il debutto sul grande schermo del giovane Zach Galligan, futura star del blockbuster GREMLINS e qui protagonista assoluto. L’uso del bianco e nero conferisce fin dalle prime scene un’atmosfera straniante e retrò: Adam Beckett (Galligan) si esibisce alla Carnegie Hall al pianoforte davanti a un pubblico numeroso, ma si scopre che lo strumento ha suonato autonomamente! L’umiliazione è inevitabile. In seguito, Adam si ritrova su un treno in Europa, dove incontra un enigmatico architetto...Leggi tutto svedese che gli rivela che quello alla Carnegie Hall era solo un sogno. Incoraggiato a tornare nella sua terra natale per affermarsi artisticamente, il giovane fa ritorno a New York, città ormai trasformata: un terremoto ha devastato l’area e l’Autorità Portuale ha assunto il controllo delle leve del potere.
Disorientato, Adam fallisce un esame artistico – incapace di ritrarre una modella nuda (Van Ravenstein) – e viene assegnato a un lavoro curioso: presidiare da una cabina l’ingresso di un tunnel per segnalare, premendo un pulsante, le auto danneggiate, come gli spiega un collega bizzarro (Aykroyd). In quello stesso luogo incontra nuovamente Mara, la modella tedesca, che lo invita ad assistere a esibizioni eccentriche e lo affascina con i racconti della propria vita. La parentesi sensuale apre la seconda parte del film, in cui Adam incontra per strada un barbone (Rogers) con il quale si dimostra particolarmente gentile e che passerà poco dopo a trovarlo invitandolo in un viaggio grottesco ad esplorare un misterioso mondo sotterraneo. Qui i barboni, guidati da Padre Knickerbocker (Jaffe), sembrano poter dominare chi si muove sul mondo soprastante e spiegano al ragazzo che c'è un solo luogo dove loro non hanno potere: la Luna, dove dovrebbe recarsi per incontrare la sua anima gemella, Eloy (Tom).
Deluso dalla modella scoperta in compagnia di un altro uomo, Adam si imbarca così su un autobus la cui destinazione muta da “Miami Beach” a “Moon”, guidato dal comandante Breughel (Murray). Il veicolo ospita esclusivamente passeggeri anziani, a eccezione del protagonista, e giunge sulla Luna, dove lo scopo della visita dei gruppi di "turisti" diventa chiaro: il consumismo sfrenato e l’acquisto compulsivo in mercati esageratamente forniti. Eloy è lì ad accoglierlo, insieme ad altre ragazze che salutano i visitatori come in uno spot hawaiano, recitando ripetutamente “Welcome to the Moon”: l’idillio tra i due può finalmente sbocciare.
La lunga avventura lunare (tutta a colori, per marcare ancor di più la differenza con la grigia realtà terrestre) è la più azzeccata, anche per la (pur blanda) denuncia della società dei consumi; memorabile l’idea (solo narrata) dei microchip impiantati nei corpi dei passeggeri di ritorno dal nostro satellite che intervengono automaticamente sostituendo la parola “Luna” con “Miami” nelle conversazioni. Meno efficace l'altra parentesi surreale, nei sotterranei di New York, dalle vaghe ambizioni autoriali concretizzate in sterili scene di massa o che richiamano iniziazioni esoteriche.
Un cinema votato a una sorta di ingenuo sperimentalismo reso “cult” dalle presenze di star del “Saturday Night Live” come Murray e Aykroyd (doveva esserci pure John Belushi, ma morì prima delle riprese). Il primo si vede di più, come detto, anche se non ha modo di brillare granché nonostante il sorriso sornione che ogni tanto gli altera l'espressione, il secondo si concede un paio di interventi nella cabina all'entrata del tunnel spiegando in modo esagitato (e divertente) il mestiere a uno sbigottito Galligan. Il resto sono incontri in una New York alternativa di cui sottolineare gli aspetti più “arty” e un'idea distopica della metropoli devastata che è solo accennata, con qualche stacco musicale che accentua l'eccentricità dell'opera e (troppo) lunghe esibizioni del protagonista al piano in teatro. Galligan è piuttosto espressivo, ancorché inevitabilmente immaturo, mentre gli altri gli girano intorno a rotazione lasciando raramente il segno; al contrario del film, talmente bizzarro da colpire.
Sono almeno un paio le ottime idee attraverso le quali Soderbergh filtra questa convenzionale storia di spettri scritta da David Koepp. In particolar modo una, articolata poi con l'arricchimento di tecniche da sempre apprezzate come il piano sequenza. L’idea è che la “presenza”, imprigionata in una casa da cui non si esce mai, diventi il nostro occhio: il punto di vista non solo privilegiato ma unico attraverso cui osservare ogni scena. In poche parole, una soggettiva dello spettro, un ribaltamento sostanziale attuato immaginando che gli occhi della macchina da presa...Leggi tutto siano quelli dell fantasma che si aggira per l'ampio appartamento al centro del film. Una visuale pesantemente deformata dall'ottica grandangolare e dal frenetico aggirarsi per gli spazi, con un movimento costante del regista chiamato a percorrere velocemente e senza sosta le scale interne e ogni stanza per mostrarci cosa vi stia avvendendo. Senza stacchi, in piani sequenza interrotti da improvvisi stop che anticipano uno o due secondi di buio.
E' attraverso il comporsi di questi frammenti di diversa durata che scopriamo come la famiglia appena trasferitasi nella casa già “abitata” dalla presenza sia composta da due assi ben precisi: da una parte la figlia Chloe (Liang) e il padre Chris (Sullivan), più “spirituali” e pacati, dall'altra il secondo figlio Tyler (Maday) e la madre Rebekah (Liu), tra loro legatissimi e decisamente più scettici, pratici e sfacciati. Chloe però ha un motivo, per essere tanto schiva e triste: le è da poco morta la migliore amica, dopo che già una ragazza che conosceva aveva fatto la stessa fine. Ce ne sarebbe abbastanza per farle saltare i nervi, ma lei trova invece conforto nell'amico (Mulholland) del fratello e non si spaventa troppo nemmeno quando la “presenza" cambia posto ai libri che lei aveva lasciato sul letto. Fin da subito la giovane si convince che il fantasma sia quello dell'amica Nadia, ma non ha alcun modo di averne certezza. Salterà presto fuori anche la solita sensitiva, immancabilmente colpita dalla forza che parrebbe risedere nella casa.
David Koepp aveva già affrontato un tema simile (ma in modo certamente meno rivoluzionario) in ECHI MORTALI, tratto da Matheson; qui lo ripropone con alcune varianti fondamentali che annullano il clima di terrore di allora per farlo confluire in una vicenda raccontata in modo più sofisticato e comprensiva di colpo di scena in coda. Non c'è però alcuna indagine, qui, volta a conoscere l'origine della presenza, e c'è soprattutto il rifiuto di sottostare a jumpscare o altri espedienti legati al cinema horror tradizionalmente inteso. Lo scopo non è affatto quello di spaventare ma di favorire lo studio psicologico (per quanto relativo) dei caratteri, lasciando che il film confluisca in direzione di un dramma dalle connotazioni sovrannaturali, magari un po' prolisso in alcune parti riguardanti Chloe ma efficace, tanto singolare nella forma e nello stile da farci sorvolare su incongruenze e difetti.
Appresa la lezione impartita da tanti classici precedenti, Soderbergh la pone al servizio di un progetto che punta a colpire in modo diverso, impedendo alla macchina da presa di uscire dalla casa perché prigioniera come lo spettro che rappresenta: quando l'azione si svolge sul balcone o nelle immediate vicinanze dell'edificio, il punto di vista non oltrepassa mai il confine posto dalle finestre, con l'immedesimazione nel fantasma che si concretizza in un continuo ronzare claustrofobico e impazzito tra i diversi ambienti interni.
Chi guarda “in macchina” significa che avverte la “presenza”, ma altrimenti l'avvicinamento anche estremo ai protagonisti non porta a contatti di sorta. L'intervento sugli oggetti è limitato, perlopiù figlio della disperazione di un fantasma che non sa come reagire in altro modo, quando vorrebbe cambiare le cose. I dialoghi avrebbero potuto essere più incisivi, la storia forse meno elementare, ma l'approccio è originale, la regia di valore e il risultato, quantunque imperfetto, si farà ricordare e un suo piccolo posto nella storia del genere se lo guadagnerà.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA