Per il sottoscritto la scommessa del giovane Còrtes (qui al suo secondo film) e stata vinta in pieno!
Già sui bellissimi titoli di testa alla Saul Bass, con lo score di Victor Reyes che regala sonorità donaggiane e herrmanniane.
Buio, respiri affanati e poi la fiamma dello zippo che si illumina...I restanti '90 minuti sono angoscia e claustrofobia pura.
Reynolds (che fù l'unica cosa buona nello sciapo remake di
Amityville Horror) si presta al gioco crudele innestato da Còrtes e dallo sceneggiatore Chris Sparling, che rinchiuso in una cassa di legno, si ritrova un cellullare con le scritte in arabo, una matita, una fiaschetta di liquore, due tubi di luce e una pila che fà le bizze.
Si contorce, impreca, chiama a destra e a manca con il telefonino, mentre il suo rapitore iraqueno (una specie di Jingsaw) lo esorta dapprima a fare un video per il riscatto, poi a tagliarsi un dito!
Da antologia, poi, i dialoghi tra Reynolds e il suo rapitore iraqueno, soprattutto quando Reynolds accusa il rapitore di essere un terrorista, e per tutta risposta l'iraqueno ribatte: "
Tu terrorizzato, quindi io terrorista"!
Ci sono reminiscenze della saga di
Saw, flebili agganci al "torture porn" e velati richiami alla moda della
Strega di Blair, e trovate (nonchè situazioni) alla
The Descent.
La sequenza craveniana del serpentello e sicuramente la più debole e quella più forzata, per il resto il film "cassamortaro" viaggia sugli alti binari della tensione alle stelle.
Delle chiamate frenetiche effettuate da Reynolds restano impresse quella che fa alla madre malata di alzheimer (davvero toccante), e quella del suo cinico e crudele datore di lavoro che arriva come un pugno allo stomaco.
Schegge violente da snuff film (l'esecuzione feroce e fulminea della ragazza via cell), l'ossessivo vibrare del telefonino (da far saltare i nervi), il canto della preghiera in lontanza , la sabbia che inesorabilmente entra nella bara, come una clessidra spietata e inarrestabile.
Còrtes, nonostante gli spazi angusti, regala movimenti di macchina depalmiani non indifferenti e dona cromatismi argentiani nella fotografia di Eduard Grau (le luci rosse della pila intermittente, il blu elettrico dei tubi di luce)
Il finale arriva come una mazzata e spiazza per la sua beffarda crudeltà e gli americani non ci fanno una bella figura.
Bellissimo, poi, il momento del testamento filmato. E di culto la canzoncina stile country sui titoli di coda (scritta dallo stesso Còrtes e Victor Reyes).
Se un regista e riuscito a coinvolgermi per ben '91 minuti con un solo attore in orizzontale dentro una marcia cassa da morto da peones che parla di continuo ad un cellulare, allora si può tranquillamente dire che Còrtes (per quanto mi riguarda) ha vinto la sua sfida.