Cupissimo viaggio nel profondo sud, tra le brulle terre dell'Aspromonte sulle tracce di una famiglia 'ndranghetista. Prendendo in qualche modo esempio dal successo di serie come ROMANZO CRIMINALE o (soprattutto) GOMORRA ma con il passo lento del cinema d'autore e magari di certo polar francese (vista la coproduzione transalpina), Francesco Munzi ci fa conoscere uno dopo l'altro i componenti della famiglia al centro della vicenda, i cui stringati discorsi (rigorosamente sottotitolati, ché il calabrese non è dialetto per tutti) lasciano intuire la quantità...Leggi tutto di sottintesi celati in ogni frase, trasmessi da sguardi eloquenti da sostituirsi alle parole. Dietro ogni gesto, ogni azione, chi ti conosce legge le tue intenzioni perché iscritte in un codice dalle regole precise, uscendo dal quale ci si avventura consciamente in territori pericolosissimi. Il giovane Leo (Giuseppe Fumo) sbaglia sparando alle vetrine di qualcuno che sa benissimo chi lui sia e perché lo fa, scatenando una serie di reazioni a catena sempre più imprevedibili che coinvolgono dapprima lo zio narcotrafficante al Nord (Marco Leonardi), costretto a rientrare in paese, quindi gli altri parenti e gli affiliati. Qui non servono prove per eseguire una condanna... è sufficiente un sospetto (più o meno fondato) e le sentenze passano subito in giudicato. Non siamo tuttavia in presenza del solito action spettacolare o di una feroce esibizione di sangue e violenza: a contare maggiormente è il ritratto psicologico, il delineamento di una forma mentis retrograda ma ancora fortemente radicata in certe zone del Sud. Senza avere la pretesa di raccontare nulla di nuovo il regista (e sceneggiatore) Francesco Munzi lavora molto bene sulla direzione degli attori, sceglie con oculatezza le location e propone l'ennesima rilettura della faida di stampo mafioso, cancro inestirpabile di una frangia di società per la quale quello è il primo pensiero. Immerso in un blu tenebra che pare pervadere anche le scene diurne, il film divaga nella prima parte, in cui ci si concede a un didascalismo eccessivo che si poteva forse meglio sintetizzare, ma sa avvincere nella seconda, quando si comincia ad avere più familiarità coi personaggi e il loro carattere. Straordinaria la profondità negli sguardi di Fabrizio Ferracane (Luciano, il fratello più distante dal mondo marcio in cui si muove la famiglia), in apparenza indifferente a ciò che gli capita intorno, più preoccupato a riportare sulla "retta" via il figlio recalcitrante, pericolosa testa calda a cui dare un freno. E' questa probabilmente la migliore qualità del film: l'intensità che riescono a trasmettere tutti i principali personaggi, chiusi spesso in un mutismo che comunica più delle mille parole di spiegazione che pretenderebbe Valeria (Barbora Bobulova), la moglie venuta dal Nord, unica scheggia impazzita in un muro di omertà intellettuale che si solidifica minuto dopo minuto per crollare nell'ineluttabile, sorprendente finale.
Le influenze sono molte, da Gomorra (è tutto girato in calabrese stretto) a Il padrino, eppure il cesellato affresco criminale di Francesco Munzi, che parte da Amsterdam e termina nelle profondità di un dolore indicibile, si afferma con potenza e solidità proprie nel panorama del cinema di genere. Molto del merito è da attribuirsi al cast che, scelto come da prassi per queste produzioni tra professionisti e debuttanti più veri del vero, coinvolge e commuove. Non è un capolavoro e forse il tema è inflazionato, ma lascia il segno.
Munzi si immette nel solco del crime-movie all'italiana - riaperto in funzione anti spettacolare da Gomorra - non tanto per ripercorrerne la retorica di genere quanto per svilupparne il potenziale emotivo, antropologico e ambientale: per questo si prende il tempo che gli occorre per mettere a fuoco ogni personaggio, facendo della definizione psicologica e della verosimiglianza il suo maggior pregio. Gli interpreti, da par lor, sono eccellenti. La tragedia incombe, ancestrale e ineludibile, in un'accezione genuinamente catartica che non è eccessivo riferire alla teoria aristotelica. Da vedere.
Serissimo e amaro film di taglio antropologico sulla 'ndrangheta, i suoi loschi affari, le sue faide e le sue crudeltà. Come in una tragedia greca, gli eventi si assommano e si avviano a un finale spietato, che non li risolve ma ne accentua l'ineluttabilità. Grande prova di regia, asciutta, essenziale che si affida alle poche parole (rigorosamente in dialetto) e al simbolismo delle espressioni e alla ritualità dei gesti. Scelta del cast, scenografia e ambientazioni danno forza e intensità a questo straordinario lavoro. Austero e coraggioso.
MEMORABILE: Le varie location del paesino dell'Apromonte, teatro delle faide; I propositi di vendetta del giovane Leo; L'esito finale.
Nulla di nuovo su un tema classico ma la narrazione impostata dal Munzi sulle facce dei suoi attori funziona assai bene, anche quando parlano dialetto o stanno zitti. Sono proprio il cast e l'introspezione (s)offerta, lenta ma mai troppo, a dare valore all'ennesima faida che trascina famiglie e valori in un abisso senza scampo. Non che manchino i luoghi comuni del genere ma appaiono comunque funzionali, genuini e non sfociano nella macchietta.
A parte qualche scarno accenno sulle attività criminali per collocare i personaggi, si gioca tutto sull’atmosfera di ciò che significa la ’ndrangheta all’interno delle famiglie. I giovani han fretta si sa, ma il rispetto e l’omertà fan sopravvivere e guadagnare. Munzi è attento nei particolari, nelle ombre notturne e nei discorsi a mezze parole (a volte eccessivi, specie tra fratelli). Avrei aggiunto una maggiore componente di paura umana, oltre al solito orgoglio di rivalsa. Finale che soddisfa (pur romanzato) e si poteva andare fino in fondo.
Dispiace non poter espremere un giudizio totalmente positivo, perché Munzi è un abile regista sia per quanto concerne la messa in scena (e l'uso delle location) sia per la bravura nella direzione del cast (tutti ottimi volti). E' la sceneggiatura che non soddisfa, vuoi per l'assenza di originalità (il paragone con Gomorra è immediato), vuoi per un finale di rara incoerenza che può stupire ma che non è in linea né con lo stile narrativo né con le psicologie dei personaggi. Si segue con interesse, nonostante la partecipazione sia ben poca.
Uno sguardo d'autore alle vicende della ndrangheta calabrese, prendendo spunto da una storia familiare di brutale quotidianità. Nei rapporti tra i fratelli l'esemplificazione della doppia anima di questa criminalità, sospesa tra modernità (il fratello avvocato e quello importatore di droga) e legami alle tradizioni bucoliche (il fratello pastore). Un lavoro che più che alla trama guarda alla precisa caratterizzazione di ambienti e personaggi, con una cura estrema per la fotografia e la prova degli attori, tutti molto bravi. Da vedere.
Quello di Munzi è uno di quei film che fa l'orgoglio di una cinematografia, quella italiana, vieppiù tetragona a scavare nella cruda verità della propria antropologia sociale, intenta a scimmiottare mode culturali insussistenti e modelli stilistici che si è incapaci di replicare. Il regista, aiutato dal romanzo di Criaco, avvolge in una luce scurissima i rituali immoti d'una terra che obbedisce a "magiche" leggi di sangue e interessi. A mancare - e qui subentra il gusto personale - quel qualcosa di impalpabile che trascenda e meglio faccia intendere il reale.
MEMORABILE: La scena della morte di Leonardi; L'interpretazione di Mazzotta; La Bobulova che si muove estranea nella casa calabrese; La sosta nel casale.
La coesa ndrangheta calabrese narrata in un film che rivela, in maniera discreta, la struttura arcaica di certe vergogne criminali in cui nessuna è vittima e tutti sono complici. Pellicola provvista di buon ritmo con ampio utilizzo del dialetto calabrese, sicuramente di buon spessore. Mi sarei aspetto qualcosa di diverso ma forse funziona veramente così...
E' un film che fa male, perché ci presenta un quadro desolante e senza speranza del nostro paese, con un sud lontano e arretrato le cui faide mafiose hanno effetti sul mondo degli affari concentrato al nord. Munzi racconta con grande realismo le vicende di una famiglia calabrese all'interno della quale si sviluppano dinamiche di malaffare e di violenza da cui nessuno riesce a emanciparsi, perpetuando i disvalori radicati in modo atavico nel passato. Cupo, ma potente.
Girato con uno stile che si vede raramente nel cinema italiano contemporaneo, con una cura formale impressionante quanto lo studio dei personaggi, il film evita i luoghi comuni del film di mafia e si dirige al cuore, forse, del problema. E' il famoso familismo amorale, esemplificato dai legami che uniscono tre fratelli, dei quali quello di sangue è il meno forte. Molto più intenso quello che discende dall'assassinio del padre, l'appartenenza al clan, il dovere della vendetta come legge contro la legge. Cast più che perfetto. Da rivedere e rimeditare.
Essenzialità e chiarezza sono i due principi su cui il film si basa. La trama, infatti, è semplice e ciò che più conta è il ritratto dei caratteri dei personaggi e delle subdole psicologie di famiglia. Munzi mette al centro di tutto proprio il concetto di famiglia, alla quale Luciano (Fabrizio Ferracane), saturo della cultura mafiosa, è legato soltanto grazie al figlio. Film coerente, che prende una strada e la segue fino in fondo. Ottimi gli attori, bella la fotografia e quasi surreale il paese di Africo. Eccellente.
Film duro, asciutto, che dice quello che deve dire grazie anche alla buona prova degli attori, su tutti, il fratello maggiore. Paura e rispetto dominano le vite degli abitanti della cittadina. E chi è al di sopra deve comunque guardarsi costantemente le spalle. Persino fidarsi è un rischio mortale. Qua e là sembra un po' arrancare, ma più che il ritmo, contano gli scambi verbali e persino gli sguardi (tutto ha un suo peso). Si respira autentica ndranghetaria. E il finale, pur essendo poco immaginabile, ha una sua logica, soprattutto dopo aver inquadrato colui che entrerà in azione.
MEMORABILE: "A che ora arrivano i pregiudicati?"; "Allora vai e sparalo"; Le corone post esecuzione.
Grandissimo film d'autore vincitore di ben nove David di Donatello. Ispirato da un romanzo di Criaco, è una sorta di trattato antropologico su chi ha la sfortuna di nascere in alcune zone d'Italia o in alcuni contesti particolari e soprattutto sulla ineluttabilità del destino che colpisce chi è legato a questi contesti. La lezione di Munzi è che nel profondo Sud anime nere ci si nasce e non ci si diventa. Sonoro ad altissimi livelli (raro per un film italiano) e Mazzotta e Ferracane giganteschi nelle loro interpretazioni. Imperdibile.
MEMORABILE: Il tradimento dell'amico di Leo; Il finale; Luigi dispensa regali costosissimi alla sua famiglia; L'incontro combinato tra Leo e la ragazzina.
Ecco un bel film d'autore italiano che ci fa conoscere una realtà oscura come quella della malavita organizzata calabrese. Lo fa raccontandoci la storia di una famiglia che si riunisce tutta insieme nuovamente per regolare una questione che rischia di minarne la serenità. Il passato mescolato al presente non garantisce nessuna buona prospettiva sicura se non quella del sangue che bagna una terra ricca martoriata dal seme dell'odio. Alla semplicità della vita di campagna si contrappone la complessità di un male difficile da eradicare.
Originale, incisivo, ispirato. Flm criminale di autentico spirito italiano. Lontano dal morbo (dalla piaga) dello stilema televisivo e da tentativi maldestri e/o ottusi di imitazione di eso-modelli. Buona scrittura, regia autocratica: insomma, formalmente solido. Notevoli le interpretazioni, la carica psicoemotiva, la cupezza pervadente, i luoghi (esattissimi), i dialoghi dalla caduta a piombo, la fotografia sintetica insinuante (che trova) cromatismi simbolici. Finale nero. Piccolo orgoglio del nostro cinema contemporaneo, con tutte le carte estetiche in regola.
Ennesimo lavoro con al centro la criminalità organizzata di stampo mafioso, in questo caso di provenienza calabra, così cara al cinema contemporaneo, come ottima alternativa a commedie più o meno divertenti e dilaganti. Bisogna dire che qui almeno c'è una ricerca piuttosto approfondita su personaggi anche molto diversi tra loro, nonostante le parentele. Buona la realizzazione tecnica, con una foto che non concede nulla di spettacolare né ai posti, né agli umani e, giustamente, più discutibile l'eccessiva impronta autoriale e autoreferenziale.
Approccio realista à la Gomorra (memorabile l'incipit olandese con la trattativa commerciale fra trafficanti di droga, in cui i sottotitoli traducono dallo spagnolo e dal calabrese) per un noir incentrato su tre fratelli diversi di una famiglia legata alla 'ndrangheta. Munzi rinuncia al glamour e all'azione prendendosi il suo respiro, ma non per questo la confezione è sottotono, sostenuta come è da una curata fotografia e da un cast particolarmente felice.
Il punto di riferimento è probabilmente Gomorra, ma rispetto al film di Garrone il narrato è meno frammentario e Munzi, oltre a mostrare un certo tipo di realtà, riesce nell'arduo compito di trasportare lo spettatore al suo interno, in contesti da brivido non privi però di qualcosa di fascinoso, a partire dalla descrizione del villaggio montano totalmente scollegato dal mondo "civilizzato", permeato da un'atmosfera più da Verga che da Damiano Damiani. Verosimile e intrigante; peccato per il brutto finale: inaspettato ma solo perché insensato.
Senza ombra di dubbio Francesco Munzi è qui riuscito a realizzare un'opera degna di nota, che non vuole imitare i gangster-movie d'oltreoceano ma farne una storia che punta sui sentimenti dei protagonisti. Ma la confezione è fin troppo "fredda" per essere apprezzata da un vasto pubblico. Da vedere con i sottotitoli per chi non capisce il dialetto calabrese.
Un destino già scritto, impossibile da eludere o allontanare, trasmesso nel sangue come fosse una malattia genetica: muta l'apparenza (trafficanti, piccolo borghesi, pastori...) ma non l'esito finale. Piccola e travagliata epopea familiare che si inscrive di diritto tra i migliori noir italiani del nuovo millennio. La rappresentazione delle relazioni umane eso ed endofamiliari, in un paesino trasfigurato da una fotografia tetra e impressionista, segue uno schema narrativo arcaico che predata addirittura la tragedia greca. Consigliatissimo.
Un film livido e incalzante per raccontare una faida tra famiglie rivali sull’Aspromonte. Più che a seguire la storia, Munzi ci porta a sentire – dire quasi annusare – l’arcaico ambiente mafioso nel quale si dibattono, senza neanche percepire un’alterità, personaggi che sembrano rappresentare il ventaglio delle opzioni: dall’integrato tradizionalista al moderno rampante, dal giovane testacalda all’onesto che pure non può sfuggire. Fotografia cruda, incedere narrativo secco e diretto, interpreti veraci, lingua calabrese incisiva.
Più che mancare di originalità, il film descrive lucidamente faide tra malavitosi che per ovvi motivi (anche nella realtà) si concludono sempre allo stesso modo, ossia con un massacro. Qui seguiamo le vicende di tre fratelli solo in apparenza diversi: il trafficante di droga, il compiacente, l'onesto; ma dato che il sangue è il medesimo (il loro padre era invischiato in loschi affari) non c'è da sorprendersi se le (brutte) sorprese sono dietro l'angolo. Cast, sonoro, dialoghi e fotografia di alto livello, finale da brividi, sebbene si preferisca lasciare intuire più che mostrare.
MEMORABILE: Durante la discussione a tavola, Valeria che va via perché non capisce il dialetto; La faccia di Luciano chiamato dalla Polizia.
Un film che fa del crudo realismo la sua cifra stilistica e che, come Gomorra prima di lui, affida alla forza delle immagini piuttosto che alle parole il compito di veicolare i contenuti. La prima parte del film è un po' spezzettata e alle volte noiosa, nell'ultima mezz'ora invece c'è un buon crescendo che trova in Ferracane l'interprete ideale. Nel complesso niente male.
Un film fortissimo, splendidamente interpretato. Marco Leonardi fornisce la sua migliore interpretazione nel ruolo di un capofamiglia criminale ma attento ai valori, Fabrizio Ferracane è bravissimo nel ruolo di un fratello che vuole chiudere con la criminalità. Sospeso tra la saga familiare e il ritratto di una società degradata, è un film che coinvolge proprio perchè sa tratteggiare personaggi complessi, a tutto tondo.
Ciò che maggiormente colpisce è la capacità di addentrarsi in un territorio nascosto, fossilizzato nei suoi riti circolari e circondato da un paesaggio ostile in cui piccole colate di cemento proteggono faide mai risolte. L'incipit e i primi intrecci scorrono veloci e quasi prevedibili, ma poi tutto si riavvolge su se stesso in una catarsi aristotelica. Ed è proprio nel tragico finale greco che "Anime nere" segna un ulteriore distacco con il filone di riferimento (italiano e non), mostrando di saper andare oltre ai soliti miscugli di spari, dialetto e potere.
MEMORABILE: Il furto delle capre; Il pranzo domenicale; Il finale.
Tre fratelli. Uno in Aspromonte ad allevare capre nella masseria di famiglia, gli altri a Milano dove commerciano in droga riciclando i proventi nell'edilizia. La distanza tra loro garantisce l'equilibrio familiare. Che a un certo punto si rompe innescando la tragedia. Impeccabile sul piano stilistico, lascia però un po' troppo sullo sfondo il tema della faida con il "Don" del paese per poter far parlare di un vero film sulla 'ndrangheta. È più un melodramma con personaggi quasi di stampo verghiano. Tra gli attori spicca Ferracane, che sarà poi Pippo Calò nel traditore di Bellocchio.
Per inserire un commento devi loggarti. Se non hai accesso al sito è necessario prima effettuare l'iscrizione.
In questo spazio sono elencati gli ultimi 12 post scritti nei diversi forum appartenenti a questo stesso film.
DISCUSSIONE GENERALE: Per discutere di un film presente nel database come in un normale forum.
HOMEVIDEO (CUT/UNCUT): Per discutere delle uscite in homevideo e delle possibili diverse versioni di un film.
CURIOSITÀ: Se vuoi aggiungere una curiosità, postala in Discussione generale. Se è completa di fonte (quando necessario) verrà spostata in Curiosità.
MUSICHE: Per discutere della colonna sonora e delle musiche di un film.
Cotola ebbe a dire: Film bellissimo che per pigrizia non avevo ancora recensito ma anche per farlo sedimentare un po' visto che mi è parso notevole. ci ha pensato il Sommo Davinotti. Confermo il giudizio: ottimo.
Oggi pomeriggio scrivo il commento. Tra l'altro Galbo ho pensato a te vedendolo poiché, come il Maestro, mi sono detto che essendo in calabrese tu lo avresti potuto capire anche senza sub ed apprezzarlo ancora meglio. Appena puoi non lasciartelo scappare: consigliatissimo!
E' piaciuto anche a me. Ma sto commento ha una gestazione lunghetta eh..
HomevideoLodger • 9/03/15 18:16 Pulizia ai piani - 1566 interventi
Hai ragione, Capa. In effetti pensavo di averlo già recensito. A volte capita. A questo punto, essendo passati ormai 5 mesi, aspetterò di rivederlo prima di recensirlo. In caso contrario mi affiderei a sensazioni troppo lontane nel tempo e magari scriverei anche inesattezze sul piano della trama e di altro. Comunque lo ricordo ancora come un ottimo film.
Cotola ebbe a dire: Hai ragione, Capa. In effetti pensavo di averlo già recensito. A volte capita. A questo punto, essendo passati ormai 5 mesi, aspetterò di rivederlo prima di recensirlo. In caso contrario mi affiderei a sensazioni troppo lontane nel tempo e magari scriverei anche inesattezze sul piano della trama e di altro. Comunque lo ricordo ancora come un ottimo film.
Stessa cosa è successa a me col film Hitchcock, infatti anche io l'ho rivisto.
Hai ragione Graf. Ma ormai a questo punto lo commenterò dopo averlo rivisto. Lo vidi a settembre e non sarebbe serio scrivere una recensione affidandosi a ricordi così lontani.
Posso però dire che lo ricordo molto bello. Per me attorno alle 4 palle davinottiche. Uno dei migliori
film italiani della stagione 2014-15. Molto più di Garrone, Martone e Moretti (che pure mi sono piaciuti, chi più chi meno, tutti e tre) e del deludentissimo Sorrentino.
P.S.
Cosa aspetti Galbo? Ma poi un calabro come te, non può perderlo. ;)
Cotola ebbe a dire: Hai ragione Graf. Ma ormai a questo punto lo commenterò dopo averlo rivisto. Lo vidi a settembre e non sarebbe serio scrivere una recensione affidandosi a ricordi così lontani.
Posso però dire che lo ricordo molto bello. Per me attorno alle 4 palle davinottiche. Uno dei migliori
film italiani della stagione 2014-15. Molto più di Garrone, Martone e Moretti (che pure mi sono piaciuti, chi più chi meno, tutti e tre) e del deludentissimo Sorrentino.
P.S.
Cosa aspetti Galbo? Ma poi un calabro come te, non può perderlo. ;)
Ho partecipato al film, quale attore non professionista calabrese del posto, nel ruolo del sacerdote che celebra la messa esequiale del fratello assassinato. Una esperienza molto interessante. Unica nota negativa: gli attori principali (escluso Peppino Mazzotta), non essendo calabresi, hanno interpretato i rispettivi ruoli con inflessioni dialettali diverse dai fonemi locali, rendendo così meno icastica, sotto tale aspetto, la rappresentazione filmica.