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Gabriel Veyre continua con la serie di cortometraggi dedicati alle danze giapponesi e propone quella di due donne che, vestite in abiti caratteristici, danno vita a una sorta di balletto. Quello che salta subito alla vista è la scarsa sincronizzazione delle due, con una all'apparenza più esperta e l'altra invece a traino che cerca in qualche modo di emularla ma con risultati insoddisfacenti. Rimane la grazie e la compostezza delle protagoniste immerse in un contesto volutamente esotico. L'opera non è sicuramente tra le migliori del regista ma vale comunque la pena vederla.
La protagonista, nata in Crimea ma trasferitasi a Grozny da piccola, narra la sua infanzia e la sua adolescenza segnate dai rapporti con i familiari ma soprattutto dalla guerra tra russi e ceceni. Se di opere sugli orrori e le violenze della guerra, nonché del Leninismo e dello Stalinismo, ce ne sono moltissime, a distinguere il film è l'idea di trasfigurare il tutto attraverso la fantasia di una bambina che segna, in modo profondo e riuscito, gran parte delle belle immagini, a tratti sorprendenti, che scorrono sullo schermo. Fino al finale, potente come d'altronde l'intera opera.
Quasi due ore e quaranta di un bel dramma thriller che Mann consente di digerire senza alcun problema, grazie ai tempi perfetti che riesce a impartirgli. Russell Crowe e Al Pacino fanno a gara di bravura, dividendosi i momenti del racconto sulla base dei due ruoli, l'uno ex dirigente con approfondite conoscenze scientifiche, l'altro giornalista d'assalto, entrambi accomunati da un'attenzione ai risvolti di coscienza particolarmente spiccata. Ne risulta un bel documento di denuncia (pure se postuma) con l'inevitabile sapore amaro che vuole il suo tono realista.
Poliziesco made in Hong Kong che alle sequenze d'azione (ottimamente orchestrate ma non numerose) predilige le dinamiche procedurali, ponendo l'accento sui giochi di potere interni al dipartimento di polizia e, in particolare, sulle divergenze anche caratteriali tra i due papabili alla poltrona di commissario capo. A un certo punto la trama si ingarbuglia fin troppo e per un pubblico occidentale non è facile districarsi tra i vari personaggi e i rispettivi ruoli, ma il ritmo si mantiene costantemente elevato, garantendo il coinvolgimento sino al finale aperto. Bravi gli interpreti.
Thriller che, nonostante la brevità, ha comunque bisogno di riempire il metraggio replicando le medesime scene (estenuanti gli spettacoli dell'ipnotizzatore) e inserendo passaggi privi di attinenza strutturale con l'intreccio (la fumosa performance beat ne è un esempio). Al netto di parecchie facilonerie, inverosimiglianze e un complessivo disordine nella direzione, riesce tuttavia a mantenere una certa dignità, grazie a una complessiva correttezza tecnica, anche recitativa, nonché alla finezza fotografica di gusto para-televisivo.
La mut(il)azione del corpo che cade a pezzi, ripugnante e al contempo ipnotica, si permea del senso di pietà che si prova per il protagonista, scienziato tanto abile (e simpatico) quanto immensamente sfortunato. Horror implacabile, quadrato e potentissimo, filmato da Cronenberg con uno stile essenziale, quasi piatto, perché ciò che conta veramente è l'orrore.
Le commedie francesi con Christian Clavier tendono a far perno su di lui curandosi ben poco del resto e questa non fa eccezione: un copione logoro in cui l’ottimo francese recita nel ruolo del nuovo compagno di una donna divorziata, Carole (Seigner). Il marito l’ha lasciata per una più giovane e popputa, lei ha trovato in Philippe l’uomo che cercava. Podologo, legato ai suoi tempi e stagionatello, non proprio con l’aria del vincente, Philippe ha difficoltà a piacere ai figli di lei, Julien (Buchsbaum) e la tredicenne Manon (Groyne), tipici adolescenti maleducati...Leggi tutto che pensano solo al cellulare e ai loro amici. Sua è però l’idea per convincere Julien a impegnarsi di più a scuola: fatti promuovere e scegli tu dove andare in vacanza. Detto fatto, e la meta sarà Ibiza, dove il ragazzo spera di ritrovare una coetanea per cui aveva preso una cotta.
Philippe non immaginava di finire coinvolto nel viaggio, ma Carole lo convince e allora eccoli tutti e quattro sulla più viziosa delle Baleari: Ibiza è sole, mare, droga, alcol e discoteche, l’ideale per dare luogo a equivoci ed eccessi. L’impatto, in aeroporto, fa già capire tutto a Philippe: un tizio gli si avvicina chiedendo se sta cercando cocaina, e non sarà l’ultimo. Noleggiato un Hummer, il gruppo raggiunge il grande albergo con piscina dove alloggerà per una vacanza all’insegna del divertimento. Almeno per la generazione in avanti con gli anni, perché invece i due giovani sono come da regola insoddisfatti, scontrosi, palesemente insofferenti nei confronti del povero Philippe, che cerca costantemente di stabilire con loro un minimo di complicità.
Inevitabile che spesso le strade dei due gruppi si dividano, con i grandi agganciati quasi subito da un vecchio amico di mamma diventato lì deejay di successo (Starr). Sarà lui a trascinarli prima a folleggiare in discoteca e poi sulla sua barca, diretta alla vicina Formentera. Non che succeda molto, a bordo, al di là dei prevedibili rimbrotti di lei nel vedere come lui butti troppo l’occhio sulle due avvenenti ospiti sudamericane dell’imbarcazione.
Sballottato in un mondo che non conosce e che crede di poter affrontare senza problemi, Philippe è chiaramente il centro della vicenda, che di tanto in tanto devia fugacemente sui due adolescenti giusto per variare un po’ il registro. Ma le gag hanno le polveri bagnate e, nonostante i tentativi di rendere viva la storia anche attraverso qualche buon pezzo di musica (l’immortale “I Love Rock’n’Roll” di Joan Jett con cui Philippe sbanca al mixer in disco o la “Still Loving You” degli Scorpions, riproposta in ogni salsa), si ride molto poco, con personaggi nel complesso scarsamente sopportabili.
Scontatissimo e costruito senza inventiva alcuna lo scontro generazionale (con lieto fine immaginabile) e appena potabile l’incontro con la famiglia ricca e radical chic in villa, comprensivo di una scena piuttosto disgustosa e di rara volgarità tra nudismo e schizzi di cacca che colpiscono a pioggia. Certo, i paesaggi balneari sono splendidi, il mare è favoloso, gli scorci tra i vicoli di Ibiza pittoreschi, l’atmosfera di festa si respira come da previsioni... Ma la fantasia latita (fin dal titolo) e i protagonisti vengono sbattuti di qua e di là senza costrutto, da un ristorante sulla spiaggia all’albergo o a un bar, cercando di ricomporre i dissidi tra loro mentre Clavier è chiamato a fare il pesce fuor d’acqua ad oltranza, senza che la sceneggiatura gli offra battute che vadano oltre la trattenuta irritazione, l’atteggiamento di comprensione nei confronti di chi lo maltratta, il desiderio perlopiù frustrato di far vedere quanto vale. Simpatica qualche scena in aereo (Carole lo soffre), buona la performance della Seigner, anonima quella dei ragazzi… Qualche battuta va a segno, la confezione è professionale, ma lo stesso Clavier sembra tirare avanti col pilota automatico. Durata contenutissima (meno di un'ora e venti!) e scena aggiunta sui titoli di coda.
Siamo alle solite: la bella ragazza sciroccata che insidia il marito di un’altra sperando di sostituirsi a quest’ultima. Niente di più comune, per un thriller televisivo, e il fatto che la giovane sia un’arredatrice d’interni non ci evita il déjà vu. Lei è Ava (Stranahan), bionda conturbante dolce e sexy, e quando Jim (Pohlkamp) la chiama per farsi risistemare la casa prima che sua moglie (Egan) rientri da una delle tante trasferte di lavoro per farle una sorpresa, lei accetta l'incarico ben felice. Anche perché ha già messo...Leggi tutto gli occhi su di lui e sta già studiando come subentrare a quella donna così spesso lontana dalla famiglia… Non un’operazione immediata, perché i due ancora si amano, ma basta qualche furbo stratagemma, ideato studiando la coppia a letto grazie a telecamere appositamente piazzate lì durante i lavori, per capire come agire.
Nel frattempo capiamo un po’ più di Ava: vive da sola, con una vicina (Hanlen) che da sempre si preoccupa delle sue condizioni di salute, ha uno strano rapporto con l’operaio (Conboy) che lavora per lei ed è ossessionata da flashback di gioventù in cui rivede la madre maltrattarla, chiara causa delle sue turbe mentali. La separazione della coppia, comunque, si fa ogni giorno più vicina, e lo capisce anche Chelsea (Judy), la figlia adolescente dei due, che nel frattempo (ma guarda un po’) è diventata grande amica di Ava, la quale l’ha spinta a lasciare medicina per indirizzarla verso l’interior design prendendola a lavorare con lei; con il padre felice anche perché inevitabilmente attratto da Ava…
Tutto è già scritto, così come il fatto che il delitto sia uno solo e cacciato dentro a forza. Quanto a thriller, infatti, non siamo messi benissimo: la regia di Jessica Janos punta a tratteggiare con interventi sull’immagine e il montaggio la follia della protagonista, che quando è sola si lascia andare a ogni sorta di crisi mescolando nella mente passato e presente: la madre che si riaffaccia nei ricordi per riprenderla ad ogni occasione e l’amore per la bambola con cui aveva passato l’infanzia si alternano a flashback veloci di quanto ha appena vissuto con Jim o Chelsea. La moglie è quasi sempre assente, eppure è il personaggio meglio reso: Pauline Egan gli conferisce una bella credibilità e svetta come recitazione su tutti, nonostante poco la si veda. Kelcie Stranahan, invece, esibisce scarsa espressività ripetendo le stesse facce e le stesse reazioni per l'intera durata. Non che demeriti troppo, comunque, perché se il tutto poco funziona lo si deve principalmente a una regia mai incisiva, a una fotografia che quando interviene sui colori saturandoli crea disastri e aberrazioni (non parliamo dei brutti time lapse), a una goffa gestione nei momenti in cui si dovrebbe cercare di restituire la deviazione mentale di Ava e a un’ultima parte lunga e posticcia che sarebbe stato meglio eliminare del tutto chiudendo quando si capiva che la storia era ormai conclusa.
Resta spassoso vedere come la protagonista pianifichi i suoi tranelli per far finire Jim (al solito rigido e tonto) nella sua rete, o come porti la figlia di questi dalla sua parte. Però la conclusione (prima della citata, sciagurata “parte aggiunta” in coda) è debolissima e fin dai titoli di testa irritanti, tra effetti grafici dozzinali e musiche mal sovrapposte, si capiva che qualcosa non andava…
La passione sfrenata per il fantacalcio si fa qui metafora di una voglia di ribellarsi a quella che per tanti dei protagonisti è una vita "da perdenti"; ma sono vite comuni, di ragazzi ormai cresciuti che nel gioco ritrovano un intenso spirito goliardico e di amicizia, condividendo momenti per alcuni versi indimenticabili, celebrando una ritualità che scandisce gli anni con le tappe del campionato di calcio, utilizzate in questo caso anche per separare le diverse fasi del film. Dall'asta all'ultima di campionato, passando per il tradizionale stop causa Nazionale...Leggi tutto fino al mercato di riparazione, si fa riferimento a un linguaggio profondamente legato a un passatempo che con gli anni è diventato sempre più diffuso, in Italia; al punto da far nascere una vera Lega Fantacalcio (qui tra gli sponsor).
E chi nemmeno sa cosa sia, il fantacalcio? Nessuna paura: Diletta Leotta, da sempre figura legata al mondo del pallone, interviene in soccorso spiegando, a beneficio dei profani, obiettivi, norme, premi... Ma non è poi così fondamentale scervellarsi per comprendere appieno il gioco, perché il film può essere comunque visto come una semplice commedia “giovanile”, di quelle in cui i personaggi danno l'impressione di chi non vuol crescere, rifugiandosi in una passione grazie alla quale si possa fuggire dalle frustrazioni del quotidiano.
In aggiunta, per dare un po' più di sale al tutto, ci s'infilano pure tracce di "giallo", con una ricostruzione a ritroso ricomposta davanti a una giudice (Guzzanti): la donna ascolta a turno i sette componenti del torneo per capire che fine abbia fatto l'ottavo, scomparso la sera prima senza aver più dato notizie di sé. Era la sera del suo addio al celibato. Qualche traccia di sangue sul pavimento della villa dove i nostri avevano festeggiato fa pensare al peggio, ma l'eventuale cadavere non si trova. E allora ecco che si retrocede via flashback a molti mesi prima, quando la morte improvvisa di uno del gruppo li aveva costretti a cercare un sostituto, con tanto di audizioni. La scelta a sorpresa era ricaduta su una donna, Andrea (D'Amico), destinata come si può immaginare a sconvolgere rapporti preesistenti fungendo da chiaro elemento destabilizzante. Simone (Ferrara) non tarda a innamorarsene, ma siamo solo all'inizio.
La giudice seduta al tavolo ascolta i racconti – tutti in qualche modo legati al torneo in corso – assai spazientita (nulla conosce del gioco e le tocca sorbirsi ogni volta inutili passaggi ad esso legati) e cominciamo così a conoscere parte delle vite dei partecipanti: i problemi familiari di Nicola (Russo); i dubbi sul matrimonio di Gianni (Borello); la latente depressione del suo coinquilino e migliore amico Simone; la precisione di Federico (Bannò), avvocato e principale garante della regolarità del torneo; l'entusiasmo del corpulento Jacopo (Giordano); l'asocialità di Francesco (Bottoni), che vive isolato nella sua stanza da anni... Chiude il defilatissimo Mirko (Kiniger), che compare di sfuggita un paio di volte, di fatto un "esterno" la cui utilità nell'economia della storia sfugge.
Piace il modo in cui è suddivisa e organizzata la storia, mentre si rivela una scelta giusta il non aver esagerato coi "tecnicismi" relativi al gioco, eleggendo a icona dello stesso l'attaccante del Cagliari Leonardo Pavoletti (fa un cameo nel finale), fissazione di Nicola, e lasciando emergere qua e là tormentoni, reazioni e comportamenti caratteristici “fantacalcistici” che chi conosce il gioco riconoscerà subito come tali. Il tutto però inserito in un'opera corale, magari banale nell'impostazione e negli sviluppi ma recitata gradevolmente, sorretta da una confezione superiore alla media delle commedie simili e con qualche discreta battuta disseminata qua e là che non guasta mai.
Brillante e vivace la regia di Alessio Maria Federici che annulla i tempi morti, bella prova di Francesca Agostini nel ruolo della promessa sposa, in parte la D'Amico e simpatica come sempre Caterina Guzzanti, qui in versione platino. Sufficientemente curate sceneggiatura e colonna sonora, comparsata del simpatico giornalista sportivo e commentatore Pierluigi Pardo, noto "sostenitore" del Fantacalcio, intercettato fugacemente durante una telecronaca.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA