Rassegna estiva:
Postatomica-L'estate italiana del dopobomba Il dopobomba matteiano è un coacervo di cupezza, disperazione, sporcizia, degrado, pessimismo e lerciume pari solo all'
Altro inferno (che fa il paio tra i suoi film migliori), dove la rozza e marcissima poetica matteiana si incanala in un mix cancrenoso tra
L'ultima carica di Ben (il ratto biancastro che comanda la fiumana di topi) e l'apocalisse prossima ventura di
2019 (i ratti cacciati e mangiati dagli emarginati contaminati capitanati da Hairuko Yamanouchi).
Inizio nel più classico post atomico tricolore (i sopravvissuti punkettosi in moto nel deserto, dopo che una scritta in sovraimpressione legga la pietra tombale dell'olocausto avvenuto).
Poi, tra rovinose e distrutte palazzine e piazzette spettrali Mattei circoscrive l'azione al chiuso (dalla lezione d'assedio carpenteriana) tra squallide e decadenti scenografie tipiche dei suoi
nazi porno (in più c'è una parte dello stabile in rovina che, dai finestroni, ha parecchie somiglianze con gli interni della villa Freudstein di
Quella villa accanto al cimitero), infilandoci una torma di schifosissimi e feroci topi dai tempi del
Cibo degli Dei che rosicchiano cadaveri fulciani in via di putrefazione (nel letto, rinchiusi in un armadio, seduti su una sedia), scocca omaggi a messer
Carpenter (Fremont, il primo a scoprire la serra con la vegetazione e l'acqua potabile, dato alle fiamme), lo
anticipa in qualche modo (Vanni simil zombizzato che resta in piedi come macabro monito) e arriva prima di
Bava jr con la schiena (sempre di Vanni) che diventa orrido ricettacolo/incubatrice che spruzza fuori una miriade di ratti ovunque.
Ma da cantore della più infima exploitation, Mattei non rinuncia (anche in un mondo maledetto fatto di topi) al sesso (perverso), con la copula tra Christophe Brètigniere e Moune Duvivier nel sacco a pelo sotto gli occhi del resto della combriccola (parecchio infastidita), per poi mostrarli (entrambi) in nudi integrali, prima che i ratti li puntino e se li divorino (lui, sbronzo, dopo un'inquietante telefonata finta al padre morto, finisce in un tombino per immolarsi come piatto prelibato per roditori, lei nel modo più matteiano possibile, come i racconti
sadiani/pasoliniani insegnano).
Personaggi stereotipati ma assolutamente perfetti, dal leader di Ottaviano Dell'Acqua, al bastardissimo Henry Luciani, dall'isterica, sull'orlo della pazzia di Ann-Gisel Glass, fino a Cindy Leadbetter, a lei la parte migliore, corrosa dal male (nel fisico e nello spirito) in uno stato di follia femmineo/infettiva (che ricorda qualcosa di
Virus, e un bel pezzo regisitco quando, improvvisamente, si estranea dal gruppo per deambulare nell'oscurità delle spoglie e rovinose stanze, dove Mattei assume i tratti di un gotico purolento come nell'
Altro inferno) fino a tagliarsi le vene.
Mattei non clona nessun modello post atomico (semmai si rifà ai classici della "natura contro"), butta dentro un tris di genialate (il cadavere della Duvivier usato come ariete per sfondare la porta e "manovrato" dai ratti che le escono dalla bocca-e plauso al grande Maurizio Trani per i gustosi e schifiltosi SFX-, la piccola cassa radiofonica che spiega i terribili e nefasti eventi di come la nuova razza dominante abbia annientato l'umanità e quel colpo di scena pre titoli di coda, totalmente delirante e assoluto, con stop frame sul volto urlante e terrorizzato di Geretta Geretta, che merita da solo il prezzo del biglietto).
Puro distillato matteiano (che si reinventa tra l'horror puro e il post-apocalisse) e angoscioso cinema al chiuso fetido (come il convento marcio dell'
Altro inferno) con quello squittire ossessivo, quel rosicare avido e quegli occhietti rossi nella notte che sono una manna per chi soffre di musofobia.
Valore aggiunto la OST incalzante di Luigi Ceccarelli e la notevole fotografia (specialmente in notturna) di Franco Delli Colli.
Dal
Pianeta delle scimmie al Pianeta dei topi è un attimo.