Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Documentario sulla vita di Pino Daniele che cerca di mostrarne anche il lato familiare. La storia è una specie di compendio in cui gli artisti che l'hanno accompagnato danno i soliti contributi affettuosi e i filmati d'epoca non sono numerosi. Per riempire qualche vuoto narrativo (ovviamente con la sua musica) si utilizzano immagini napoletane di oggi che sanno di fiction e si inseriscono pezzi di trasmissioni televisive. Il vero motivo del film è la scoperta di un brano inedito, che viene giocato nel finale.
Un po' come La casa 2, non è proprio un sequel ma una sorta di remake, che riprende alcuni dei personaggi principali e dei punti salienti del prototipo e vi costruisce attorno una nuova storia; i due film si possono quindi idealmente vedere in double-bill e questo secondo capitolo si posiziona leggermente al di sotto, qualitativamente. Se i valori produttivi sono infatti simili, ci si diverte forse un po' meno, con gag slapstick non sempre riuscite (i due gangster stancano presto) e situazioni rocambolesche e surreali che tendono a ripetersi. Resta comunque potabile, senza pretese.
Insegnante perseguitata dal suo ex si trasferisce nella casa della sorella e si invaghisce dell'artista che occupa la mansarda. Ordinario stalking movie televisivo del fullmoniano DeCoteau, che offre a Jessica Morris, altro volto noto agli appassionati di Charles Band, il ruolo di eroina tormentata. Un plot twist piuttosto inaspettato a metà tragitto non cambia le regole della mediocre partita, tuttavia lo script ordinato e i dialoghi accettabili fanno tollerare la visione, sfiorando la godibilità. Sprecato Eric Roberts, che si rifarà spassosamente nel coevo Sorority slaughterhouse.
Da un lato il presunto diavolo, dall'altro la concreta ignoranza di troppe persone: scontro impari. Non ci si lasci ingannare da un avvio in linea coi peggiori prodotti di genere, dato che questo film, strada facendo, saprà fortunatamente distanziarsene riprendendo quota. Il principale pregio è la verosimiglianza del tutto (non ci sono roboanti prodigi), che contribuisce a rendere la vicenda più sinistra e a far nascere spontanea l'empatia per la sventurata protagonista (per gli altri, soprattutto per il marito, non può esserci che disprezzo). Va oltre l'orrore, poiché fa pensare.
Yuna, Nao e Miho sono tre ragazze di Tokyo che praticano aspetti diversi dell'erotismo orientale, tra film hard, spogliarelli e shibari (l'arte della legatura sadomaso). Un documentario italiano molto all'acqua di rose che tende più a stuzzicare che a indagare le particolarità sia delle tre intervistate che dei costumi sessuali nipponici, talvolta ammantati da una pseudo-sacralità, altre invece puro e semplice piacere. Nulla di nuovo né di originale; anzi, ha un sentore di un lavoro non necessario e piuttosto insipido, nonché carente anche sul piano della spettacolarità.
Una location di fatto, tre attori (più uno), idea di base già vista ma declinata in maniera efficace da uno script centrato e da un Trachtenberg che gestisce bene spazi e tempi. Goodman assolutamente perfetto, ritmo costante e un paio di sequenze colme di tensione. Poi l'ultimo atto fantascientifico, che non avvince e nemmeno convince e che sicuramente poteva essere gestito in maniera differente. Anche il finale aperto non lascia il segno. Peccato, perché i primi due atti sono ottimi.
Lo si intuiva già in PIOVE, che il pugliese Paolo Strippoli avrebbe continuato a imporsi con uno stile personale, virtù appannaggio di pochi. Scelto l'orrore (più psicologico che grafico) come ambito in cui esprimere al meglio la propria arte, il regista trova nel grigio plumbeo delle montagne friulane il clima ideale in cui immergere la sua nuova storia di paura e mistero. E lo fa studiando con cura le location (siamo a Tarvisio e dintorni, anche se la cittadina immaginaria prende il nome di Remis), individuandone alcune...Leggi tutto di ideali che inquadra con il talento di chi ben conosce il mestiere e sa come valorizzarle, in una luce cupissima che la fotografia stinge fin quasi fino ad annullare ogni barlume solare. Nulla di nuovo in questo. Né nella storia, a dire il vero, che attinge da fonti eccellenti e mescola qualcosa dello straniero che raggiunge terre di imperscrutabili culti pagani in WICKER MAN a quelle comunità apparentemente amiche ma invece sotterraneamente ostili (se non le segui) che rimandano alle mogli di Stepford o alle vette gemelle.
Sergio Rossetti (Riondino) si introduce nel mondo a parte di Remis da "straniero" ignaro, alieno, turbato da foschi pensieri derivati dalla morte di suo figlio. Preda di crisi improvvise, attacchi d'ira, pianti, è stato assunto, lui ex campione di judo, come nuovo insegnante di educazione fisica nel liceo cittadino. Il primo impatto non è dei più rosei: attacca senza un vero motivo i suoi alunni, si mostra intransigente, burbero, e quando incontra Matteo Corbin (Feltri) son dolori, per il ragazzo: esentato dalle lezioni, viene ugualmente messo in fila da Sergio con gli altri. Ma lui è diverso, e ce lo ricorda più di una volta Mia Martini con "Almeno tu nell'universo", regolarmente tagliata al momento del fatidico ritornello, che chiunque sa come completare comprendendo di conseguenza il palese riferimento.
Matteo è l'angelo di Remis; lo chiamano così perché possiede un potere inimmaginabile: quando lo abbracci, ogni tuo dolore interno svanisce. Se ne accorge anche Sergio, il quale verrà una notte accompagnato da Michela (Maggiora Vergano) nella strana "chiesa" locale, un edificio a facciata triangolare (location suggestiva, soprattutto nelle sue forme esterne) in cui il padre di Matteo, Mauro (Pierobon), accoglie e mette in fila tutti coloro che necessitano dell'abbraccio di suo figlio. I prescelti entrano e, al cospetto anche di Don Attilio (Citran), avvicinano "l'angelo" stringendosi forte a lui. Sergio non ci può credere ma è vero: riacquista pure lui il buonumore, perfino la capacità di scherzare come un tempo. Ma chi è davvero Matteo? Cosa nasconde il suo passato? Perché è costretto dal padre a sottoporsi costantemente agli abbracci di tutti gli sfortunati del paese?
Da uno spunto in fondo semplice, dalle tinte nere polanskiane, un film tutto giocato sulle pause e i silenzi, riempiti da una colonna sonora di grande fascino (di Bisozzi e Tomat), delicata, inquietante al punto giusto e calzante. Tecnicamente il film ha punte pregevolissime, momenti in cui si coglie appieno la voglia di percorrere strade nuove e coraggiose; però frequentemente s'inceppa, si autocompiace di scene prolungate senza un vero motivo alla ricerca di un'autorialità ad ogni costo che finisce col danneggiare pesantemente il risultato. Smarrendosi tra le troppe ambizioni di un cinema italiano che di rado, in questi casi, accetta di fare i conti con il pubblico. In questo Strippoli si avvicina allo spirito dei fratelli D'Inncocenzo: grandi qualità, tecnica e senso del cinema eccellenti penalizzati spesso da un ermetismo eccessivo.
Qui le due ore e più si sentono tutte e si ingrana troppo tardi, confidando in una seconda parte che finalmente accelera e ti trascina nel vortice oscuro, ma che esplode davvero solo nell'ultima mezz'ora. Senza che peraltro si raggiungano vette eclatanti. I personaggi, esclusi il protagonista e il giovane Angelo con i suoi turbamenti, entrambi ben delineati, vivono soprattutto grazie alla bravura degli attori (il solito impeccabile Citran, sovrano del cinema a Nordest, ma il migliore è Pierobon), mentre certi espedienti lasciano il tempo che trovano (inquadrature rovesciate, grandangoli...).
Meno godibile di PIOVE forse anche per un budget limitato che in questo caso più si fa sentire, restituendo una certa sensazione di povertà (nella recitazione di alcuni, nelle scenografie interne, talora nella messa in scena...). Le potenzialità di Strippoli sono evidenti e non si può dire che il film non sappia distinguersi e colpire, anche per come si rifiuta di aderire alla regola del jumpscare o dell'effetto speciale gratuito; ma una regia più ficcante, meno estatica, e una decisa accelerazione, magari sfoltendo il film dalle scene superflue, avrebbero garantito un risultato migliore.
David Lowery, che dirige e scrive da sé il suo film, recupera sorprendentemente l'icona più tradizionale e ingenua che possa esistere del fantasma (quella col lenzuolo bianco e i buchi per gli occhi) calandola all'interno di una storia che è al contrario ambiziosa, sorprendente, e creando in tal modo un contrasto spiazzante, che fa sorridere e insieme stupisce per il coraggio. L'obiettivo è quello di immaginare, per il fantasma protagonista, una sorta di esistenza parallela a quella dei due protagonisti, che in verità tali non sono dal momento che...Leggi tutto molto poco restano in scena rispetto a lui. Si vedono soprattutto nella prima parte, quando passano ore felici nell'appartamento che diverrà (o forse già lo è) la sede unica del fantasma.
C (Affleck) e M (Mara) sono sposati e hanno deciso di trasferirsi da quella casa. Lei - dicendo una frase a cui prestare attenzione perché avrà importante significato in un secondo tempo - racconta di come da piccola, avendo subito un gran numero di traslochi, lasciava sempre un bigliettino nascosto, nelle abitazioni dalle quali si doveva trasferire, per essere certa di trovare qualcosa di suo nel caso vi fosse tornata. Poi il primo segnale di una "presenza", lì, una notte in cui qualcuno fa cadere presumibilmente un oggetto sul pianoforte della stanza vicina. Inspiegabile, ma ci si passa sopra. Quello che cambierà le loro vite è invece l'incidente in auto di lui, di cui vediamo solo le conseguenze: il corpo senza vita contro il volante.
In ospedale il riconoscimento di C. Il lenzuolo bianco che lo ricopre viene abbassato e rialzato, ma poco dopo, lasciato solo, il cadavere si rialza (o almeno così pare a noi, perché da qui in avanti la presenza del fantasma non sarà visibile ad altri che allo spettatore). Non si preoccupa, una volta in piedi, di togliersi il lenzuolo bianco lungo e a strascico, che quindi resterà il suo "abito" per l'intero film. Il fantasma come lo hanno sempre immaginato i bambini insomma, o come si usa disegnarlo nelle strisce comiche. Eppure, inquadrato sotto la luce giusta, immobile e ieratico, non fa affatto ridere. Si piazza nelle diverse stanze dell'appartamento e non si sposta quasi mai, limitandosi a osservare quel che accade in casa. Il tempo si sfalda sotto i suoi (e i nostri) occhi lambendo epoche diverse, perdendo la sua linearità, confondendosi in una sorta di fiume in costante cambiamento (come cantavano i Genesis di Gabriel).
Rallentando il ritmo fin quasi a bloccarlo, rifiutandosi di tagliare dove cinematograficamente sembrerebbe logico farlo, Lowery trova una sua poetica che gli ha fatto guadagnare begli elogi dalla critica, riuscendo oggettivamente a creare un film con pochi paragoni, nella lunga storia del cinema. Sono tanti i motivi che esisterebbero per premiare un'opera tanto singolare, ma anche tanti quelli che la rendono di difficile fruizione, estremamente statica e ripetitiva, si può dire quasi muta, da quanto limitato è il numero di dialoghi.
Affleck e la Mara (più lei di lui) presenziano relativamente, perché l'unica costante è l'imponente figura del fantasma ripresa come il soggetto di un quadro medievale, anche per le scenografiche pieghe del lenzuolo. Di nuovo ironico eppure carico di mistero il rapporto con il fantasma alla finestra della casa dirimpetto, straniante il silenzio che confina il protagonista ai margini quando la casa è occupata da altri. Nel complesso intrigante, curioso, a tratti alienante, il film, tuttavia, sembra pretendere di dire anche con ciò che non dice, lasciando perplessi per l'impianto narrativo quando si comincia a saltabeccare tra presente, passato e futuro. Al di là della bella idea di partenza e della qualità delle riprese, però, sembra più che altro un furbo esercizio di stile.
Una versione alternativa del "Canto di Natale" di Dickens (da sempre uno dei testi più utilizzati al cinema dagli americani) che David Zucker dirige imbarcandosi in un'operazione sulla carta curiosa ma all'atto pratico piuttosto insignificante. Portando subito in scena Leslie Nielsen nei panni del nonno che racconta la sua storia a un gruppo di bambini, il regista si riappropria di un attore feticcio che con la sua sola presenza indica il genere, quella commedia demenziale che, negli Ottanta e Novanta, Nielsen ha dominato senza rivali, spesso proprio grazie a Zucker. ...Leggi tutto Seduto al tavolino in un giardino dove si sta celebrando la festa del 4 luglio, il caro nonnino annuncia che racconterà la storia di Scrooge, ma non quella che tutti conoscono. Il suo Scrooge è un regista americano di documentari che non ci vuole molto a identificare in Michael Moore, qui impersonato da un piuttosto somigliante Kevin Farley. Un gruppo di terroristi afghani comandati dal perfido Aziz (Davi), alla ricerca di qualcuno che possa dirigere un vero film propagandistico per la jihad, capisce che c'è bisogno della professionalità degli statunitensi, per realizzare un prodotto davvero efficace. Per questo sbarcano in America e individuano nel regista controcorrente Michael Malone, sempre pronto a girare documentari antiamericani, la persona giusta. Lo contattano a un festival, dove è appena stato premiato, per offrirgli dieci milioni di dollari. Malone accetta, anche perché sta in quel momento cercando di boicottare proprio la festa dell'indipendenza americana (il 4 luglio).
Ben presto tuttavia – per fargli capire quanto stia sbagliando - compariranno sulla strada di Malone i tre fantasmi ben noti a chi conosce la favola di Scrooge; solo che questa volta, annunciati addirittura dal presidente John Kennedy (che esce davanti agli occhi del protagonista dal televisore durante un vecchio filmato in cui faceva un discorso alla nazione), hanno sembianze ben diverse dal consueto: il primo è il Generale Patton (Grammer), che mostrerà a Malone un'America ancora in preda alla schiavitù, il secondo nientemento che George Washington (Voight) e il terzo l'Angelo della Morte (Adkins), che lo traghetterà in un futuro dominato dagli islamici (buffa la pubblicità di Victoria's secret rifatta come Victoria's burka).
Il tutto per far "rinsavire" Malone/Moore e fargli comprendere come attaccare l'America significhi stare dalla parte sbagliata. Un messaggio - per come è messo in scena - piuttosto reazionario, si dirà, ma l'approccio resta goliardico, disincantato e comunque "scorretto", con un prologo iniziale in Afghanistan che rappresenta la parte più genuinamente legata al demenziale di casa Zucker e che prometteva molto meglio. La presa in giro dei “martiri” della jihad ha punte di black humour azzeccate, mentre quando ci si sposta in America il tutto assume l'apparenza di un attacco forte e facile a Moore e ai suoi documentari "di sinistra". Malone viene descritto come un qualunquista che punta solo a distruggere ogni valore americano e per contro a glorificare Cuba e il comunismo. Certo, lo si fa esagerando come sempre, ma l'idea che si voglia dare comunque una lezione di patriottismo si fa strada, eccome.
Purtroppo il procedere caotico e sconclusionato del film, con scene di massa confuse e camei illustri (ci sono anche Dennis Hopper, un sempre simpatico James Woods come agente di Malone, Kevin Sorbo e Paris Hilton sul palco del festival e addirittura Gary Coleman/Arnold, presente giusto per una gag), difficilmente strappa il sorriso. Nonostante il film sia buffo, bizzarro e a tratti pure geniale, tende a riproporre sempre la medesima situazione, con la controfigura volgare di Moore chiamata a riflettere in modo puerile sull'ovvia superficialità delle sue invettive contro l'american way of life.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA