Intervista a Roberto Leoni
23 Gennaio 2018

Grazie a mio fratello ERRELLE (Leonardo) ho avuto il piacere di incontrare e conoscere lo sceneggiatore e regista ROBERTO LEONI, uomo d’altri tempi, persona colta e spiritosa, grande conversatore, capace di lasciar trasparire la sua passione per il cinema nei racconti e nei ricordi di una lunga e collaudata esperienza. Durante una piacevole e conviviale serata (era il 28 novembre 2017) ospite da lui insieme a mio fratello, sono riuscito a rivolgergli numerose domande, preparate assieme a ZENDER, inerenti i suoi principali lavori e non solo.

ROBERTO: Era un mio racconto, pubblicato sulla rivista "Numero" e aveva un titolo… insomma, era il 1968 e tutto era esagerato e io stavo preparandomi a fare il poeta maledetto che attraversava l’America in moto sulle orme di Walt Witman e Jack Kerouac… insomma il titolo era forse un po' macchinoso ma suonava anticonvenzionale e rivoluzionario; era: “Grottesco Fantacapitalistico a Sintassi Cinematografica”. Parlai di questo racconto a Franco Bucceri, un attore che aveva iniziato a fare lo sceneggiatore con Renato Izzo (quello che poi sarebbe diventato il famoso direttore di doppiaggio e il capostipite di tutte le attrici e doppiatrici Izzo). Bucceri fece leggere il racconto al produttore Giuseppe Zaccariello e questi decise di realizzare il film. In realtà Zaccariello - me lo raccontò dopo - non aveva avuto nessuna voglia di leggere quel racconto dal titolo astruso, ma quella sera aveva mangiato due carciofi alla giudia (quelli fritti interi nell’olio bollente) e gli erano rimasti sullo stomaco: non riuscendo a dormire, disperato, sveglio e con un bicchiere di bicarbonato in mano, alle quattro di notte, in attesa di digerire, aveva letto il racconto e nonostante l’acidità di stomaco e l’insonnia gli era piaciuto e aveva deciso di trasformarlo in un film.
ELLERRE: Sei stato dove giravano il film o hai solo scritto il racconto da cui è tratto per poi lasciare che “le cose facessero il loro corso”?
ROBERTO: Ho partecipato alla preparazione sia nella scelta del cast (Paolo Villaggio, allora esordiente e Frank Wolff, un caro amico) e ai sopralluoghi per alcune location. Avrei dovuto anche dirigere il film insieme a Francesco Casaretti, ma l’improvvisa malattia e la morte di mia madre mi impedì di essere presente sul set e il film venne affidato a Casaretti. Durante la preparazione feci con Zaccariello una gaffe tremenda: un giorno mi presentò la sceneggiatura di Eat it con alcune modifiche di Joseph McLee, un famoso sceneggiatore americano, già consulente dei suoi due film precedenti che erano stati due grandi successi (A ciascuno il suo, il bellissimo film di Elio Petri con Volontè tratto dal romanzo di Sciascia e Escalation, acclamato esordio alla regia di Roberto Faenza). Nonostante questi illustri precedenti, trovai le modifiche di McLee tremende e feci una scenata, insultando quella bestia incompetente dell’americano, che purtroppo non esisteva ma era lo pseudonimo dello stesso Zaccariello! Bucceri e Casaretti, che sapevano la cosa, non mi avevano avvertito sperando che io mi ribellassi e facessi togliere tutte le modifiche! A onor del vero devo dire che col tempo Zaccariello poi mi diede ragione e rimanemmo amici…

ROBERTO: Zaccariello doveva fare questo film con Bava che credo fosse, come si dice in gergo, “incartato” nella storia; durante le riprese aveva cioè fatto delle modifiche che non “quadravano” più con la sceneggiatura di Dardano Sacchetti e non ne veniva fuori. Credo che ci fossero state polemiche tra la regia, la sceneggiatura e la produzione e inoltre forse mancavano anche i soldi... Insomma, a un certo punto Zaccariello intervenne nella produzione e mi tirò dentro, anche perché c’erano stati problemi durante le riprese di Eat it e io, superato il lutto di mia madre, ero intervenuto aiutandolo a sistemare il film in maniera che potesse uscire in sala. Così conobbi Bava nella vecchia Fono Roma, quella che stava vicino piazzale Flaminio, proprio dove c’era stata la casa di Trilussa… Mario Bava mi aspettava nella sala di proiezione, era in giacca e cravatta, un tipo magro che fumava e mi fissava attraverso il fumo mentre scorrevano gli spezzoni del film. A un certo punto gli dissi: “Secondo me quello dovrebbe morire con un’accettata”. “Può essere un’idea!”, mi rispose. E cominciammo ad ammazzare idealmente i personaggi del film con tutti che ci guardavano come fossimo pazzi. Lui era molto distinto e non avresti mai detto che potesse essere uno che amava l’horror. Non so perché mi sembrava un medico, uno che allora si definiva come un distinto professionista… Io ero un po’ più selvaggio con gli occhiali, la barba e i capelli lunghi. Uno dei protagonisti del film era, se ben ricordo, il fratello di Gian Maria Volonté (Claudio Camaso era infatti nel cast, ndr), che interpretava un assassino; era presente in sala e sembrava così fosco da sembrare davvero un assassino anche nella vita! Parte del film era già stata girata, ma di alcune sequenze successive potrei esserne responsabile.

ELLERRE: Tu con l’horror cosa c’entravi?
ROBERTO: Beh, in Eat it per esempio c’era già una componente horror. L’horror mi affascina da sempre perché ha in sé una forma di pietà: l’orrore ti costringe a vedere il lato peggiore della natura umana e quindi a provarne repulsione e a commuoverti per la vittima. La pietà è la cosa più umana che ci sia, assieme alla comicità. L’umanità emerge nell’horror così come nel comico. Ed è universale come la musica, come l’amore, come la poesia. L’horror è sangue, è carne, è fango ma ha sempre una scintilla di vita, di orrenda poesia che brilla e che mi commuove. Come il rospo: è orrendo ma insieme bellissimo.

ROBERTO: Erano gli ultimi fuochi di quella che è stata chiamata la Hollywood sul Tevere, una stagione fantastica di occasioni, incontri, possibilità di lavoro. Quando dicemmo al produttore Manolo Bolognini che come protagonista della sceneggiatura che gli avevamo fatto leggere volevamo appunto Kirk Douglas, Manolo ci prese per matti; ma siccome pure lui era stupendamente matto ne parlò a Marina Cicogna che fece arrivare il copione a Douglas che accettò il ruolo e da Hollyvood venne a girare a Roma e ad Amburgo. Kirk Douglas era davvero un uomo e un attore da rispettare: scrupoloso, attento, preparato, perfezionista e protettivo, pur essendo io alle prime armi mi considerò e mi trattò come se fossi stato un celebre sceneggiatore. Dopo gli anni di piombo spensero le luci di Hollywood sul Tevere e ritornai alla normalità con le piccole produzioni.
ELLERRE: Come nascevano le sceneggiature per le piccole produzioni?
ROBERTO: Certe produzioni non erano prese in considerazione dalle grandi distribuzioni quali la Cineriz, l’Euro International, la Titanus (per non parlare della Paramount o della Fox); allora l’unica soluzione era bypassarle andando direttamente dai "regionali". Ogni distribuzione aveva, infatti, ed ha ancora nelle varie regioni le cosiddette "capozona", ossia le città capoluogo: Bologna, Palermo, Napoli, Torino, Venezia... Ognuna di queste città aveva due o tre grossi distributori, i quali ricevevano i film delle grandi distribuzioni e li diffondevano capillarmente negli altri locali della regione. Le piccole e medie produzioni presentavano il progetto di un film a una decina di questi grossisti regionali che potevano anticipare i soldi (spesso cambiali o assegni postdatati) per avere il futuro film in esclusiva. Così il produttore mi caricava in macchina e mi portava per esempio a Bologna da un distributore che si chiamava De Petris o De Pedis. Questi faceva un grande pranzo invitando i proprietari delle sale della provincia o della regione. Finito il pranzo, il produttore mi diceva: "Leoncì (Leoncino, un vezzeggiativo che mi ha perseguitato e mi viene rifilato ancora adesso dai veterani del set), racconta il film"; e io raccontavo il soggetto, sceneggiando al momento le sequenze più interessanti. Insomma, una specie di pitch ante litteram. Mentre raccontavo il produttore mostrava e distribuiva ai presenti le locandine del futuro film, poi il distributore capo esortava tutti a pagare una quota per assicurarsi l’esclusiva. Così il produttore raccoglieva una manciata di cambiali e di assegni postdatati che il distributore capo avallava e si ripartiva per la successiva città capozona. Una volta tornati a Roma, avveniva tra me e il produttore una sorta di "trattativa araba" sulla percentuale delle cambiali o degli assegni che avrebbero pagato il soggetto e la futura, imminente sceneggiatura. Generalmente riuscivo a strappare anche una piccola parte in contanti e il resto lo scontavo da qualche “affettuoso zio”, il termine che indicava i “prestasoldi cinematografari” che generalmente erano poco esosi con gli autori perché si rifacevano chiedendo di dare un’occhiata o un’aggiustatina al soggetto della figlia tanto intelligente e studiosa, oppure dell’amante o dell’attrice che intendevano sedurre...

ROBERTO: Non ti offendere, ma rifiuto la definizione di para-argentiano perché lo spunto di Mio caro assassino nasce dalla mia fissazione per l’innocenza: sono nato a Trastevere nel dopoguerra, ho visto l’orrore ma ho visto anche l’innocenza. Io credo nell’innocenza e mi intrigava l’idea dell’innocenza che sconfigge il male. Il concetto era complesso e quando lo esposi a Bucceri il suo istinto di attore gli fece subito intuìre l’originalità della trama: la bambina, nonostante fosse morta, riusciva a denunciare il suo assassino. Su questa premessa scrivemmo il soggetto che è proprio come viene raccontato nel discorso del commissario alla fine del film (il cosiddetto spiegone, ndr) che è decisamente lungo, ma riesce a tenere inchiodati gli spettatori. Nel film sono stato anche aiuto regista e sollecitai in tutti i modi il regista Tonino Valerii a girare la scena d’inizio con la decapitazione dell’investigatore privato; ma non con l’accetta come per Bava, addirittura con una ruspa. Valeri si affezionò all’idea; ma era una scena complessa da girare e Manolo Bolognini, il produttore, ci guardava perplesso. Il problema era che io volevo che Remo De Angelis, lo stuntman, per aumentare la verità della scena, annaspasse stretto nella morsa della gigantesca tenaglia e non era cosa facile da realizzare: Tonino Valeri e Manolo Bolognini erano responsabili anche penalmente di ciò che accadeva sul set ed erano seriamente preoccupati che lo stuntman rimanesse strozzato. Siccome gli stuntman hanno un lavoro molto saltuario e breve perché la loro entrata in scena si conclude sempre con loro che finiscono subito fuori combattimento, dissi a De Angelis che nel film lo avrei fatto lavorare tanto: “Ti faccio morire ancora”. Difatti lui interpreta anche un impiccato e ancora il ruolo del vecchio barbone che finisce nel fiume. Insomma, ti faccio lavorare tanto e ti faccio pagare tanto, ma devi trovare un modo per girare la scena della ruspa.

Un’altra bella sequenza di cui sono orgoglioso, realizzata assieme al responsabile degli effetti speciali che era spagnolo (il film era una coproduzione con la Spagna), è quella del trapano Black & Decker che sevizia la maestrina. Oltre alla pompetta con il sangue dietro la lama, abbiamo avuto l’idea della lama di stagnola al posto di quella di acciaio. Quando gira veloce la stagnola rimane rigida, ma se si avvicina alla pelle si piega e non ferisce. All’attrice però non dicemmo niente! Eravamo sicuri che non sarebbe successo nulla, ma a lei uscì un’espressione di autentico terrore! Per due volte la mano guantata che sorregge la lama rotante è quella dell’“effettaro”, ma in una terza scena è la mia e io avvicinai tanto la finta lama che l’attrice urlava davvero, completamente terrorizzata. Un’ altra cosa interessante fu che all’uscita del film, in un articolo di giornale (non dico quale), io e Bucceri venivamo definiti degli “sciacalli” che sfruttavano il famoso caso di cronaca di una ragazzina di 13 anni, figlia di un importante industriale, che era stata rapita e uccisa. Il critico del giornale aveva in pratica messo in relazione il caso Sutter con la trama del film. Saltai in macchina e mi presentai in redazione. Il critico si spaventò anche perché con la barba e i capelli lunghi e varie ore di viaggio avevo forse un’aria stravolta e poco rassicurante, ma reagì coraggiosamente: “Lei non può offendersi per i miei giudizi!” mi disse. Io gli risposi che era un incompetente perché per realizzare un film dal soggetto alla proiezione in sala occorrevano allora almeno dieci mesi e il sequestro della ragazzina risaliva a sette mesi prima. Come potevo essere lo sciacallo che aveva sfruttato quel tragico fatto?!!”. Il critico pubblicò la rettifica.
ELLERRE: Hilton fu scelto subito come protagonista?
ROBERTO: No. Noi avevamo scelto Giancarlo Giannini e facemmo con lui le varie sedute di adattamento della sceneggiatura, ma la distribuzione, nel suo ottuso conformismo commerciale, allora non vedeva Giannini in un ruolo drammatico; gli preferì George Hilton e Manolo Bolognini accettò…

ROBERTO: Quella storia l’avevo scritta assieme Bucceri e il film era intitolato “L’ammazzi tu o l’ammazzo io?”; poi qualche genio della distribuzione gli cambiò titolo secondo la moda del momento che era dominata dai successi di Bud Spencer e Terence Hill. Il film in origine doveva essere un western da realizzare con Nello Meniconi, l’organizzatore generale de La dolce vita. Nello mi stimava e precedentemente mi aveva proposto anche di lavorare a Per grazia ricevuta di Nino Manfredi. Ma Manfredi aveva, per me, un difetto grave: era sempre insoddisfatto del lavoro e pieno di dubbi e ogni giorno ricominciavamo da capo. Siccome io ero pagato a tranches (piccolo anticipo per iniziare, primo tempo, secondo tempo, revisione, stesura finale), dopo un paio di settimane l’anticipo era esaurito e stavamo ancora alla prima pagina, così con una certa ingratitudine e poca lungimiranza, me ne sono andato.



ROBERTO: No, avevo già fatto una regia molto particolare: 40 minuti di un mediometraggio per la televisione dal titolo “I guardiani”. La cosa incredibile è che ho scoperto solo di recente che il mio soggetto era molto simile al racconto “Squadra riparazioni” di Philip K. Dick da cui poi è stato tratto il film con Matt Damon I Guardiani del destino. Un caso clamoroso: il mio mediometraggio è simile al racconto e al film. Era la storia di alcuni speciali, misteriosi agenti che curano il destino degli uomini; ci vinsi anche un sacco di premi, ma nel contempo fu una storia sfortunata, perché quegli agenti misteriosi sembravano una setta segreta che governava il mondo e proprio in quegli anni scoppiò il caso della P2. Avevo fatto una proiezione in Rai ricevendo i complimenti e la garanzia che l’avrebbero acquistato e invece quando il giorno dopo telefonai, non c’era più il funzionario di riferimento e non trovai più nessuno. In realtà il mediometraggio doveva essere il “pilota” di una serie e ne conservo ancora una copia in pellicola. È una storia misteriosa, sembra che casualmente io abbia scritto una specie di preistoria della P2.
ELLERRE: Per i fratelli Brazzi scrivesti Giro girotondo... con il sesso è bello il mondo, poi Il gatto di Brooklyn aspirante detective con Franco Franchi senza Ciccio e con Pistilli.
ROBERTO: Dal 1972 al 1978 ho avuto un grave problema familiare, mia moglie si è ammalata ed è morta a 32 anni lasciandomi con due figli piccoli. Così ho dovuto scrivere film “alimentari”: quelli cioè che scrivi quando in banca sei già in rosso e ti arriva il conguaglio della luce o del gas e magari anche certi arretrati delle tasse; o addirittura ti arriva la raccomandata del collegio dei tuoi figli ricordandoti che sei in arretrato di tre mesi con le rette. In quel caso, non avendo altro reddito, scrivi qualunque cosa e sopporti pure che qualche benevolo critico filosofeggi sul fatto che “avvilisci il tuo talento”. I film per cui sono accreditato sono molti meno di quelli che ho realmente scritto. Alcuni sono anche andati a Venezia, altri a Cannes ma io lì ho svenduto le sceneggiature e non posso rivelarne i titoli.

ELLERRE: In Come una rosa al naso scrivi per Gassman e la Muti, due divi. Come fu la genesi del film?
ROBERTO: Il primo soggetto era di Ugo Tucci, il produttore della Variety Film e il film lo diresse Franco Rossi, ma io avevo scritto la prima stesura della sceneggiatura per Giorgio Capitani, che secondo me era più adatto a questo genere. La Variety però lo passò a Franco Rossi che essendo anche uno sceneggiatore lo revisionò commettendo, a mio giudizio, l’errore di dare eccessivo spazio a Gassman. La storia era divertente, con Gassman che fa il gentiluomo inglese ma in realtà è un siciliano arrivato anni prima a Londra per salvarsi da una faida paesana; il boss che l’ha salvato gli manda però lì la figlia, che è "come una rosa al naso: vergine è partita e vergine deve tornare”. Il problema è che la figlia è Ornella Muti, all’epoca di una bellezza sfolgorante, che arriva a Londra decisa a liberarsi da quel retaggio medievale che è la verginità. Così Gassman, prima tutto atteggiato a gentiluomo inglese libertario e spregiudicato, si trova costretto a diventare un occhiuto guardiano della virtù.

ROBERTO: Generalmente quando mi capita coinvolgo l’autore. Mi lascio ispirare dal romanzo e poi propongo alcune varianti più cinematografiche, più visive e meno letterarie. Salvalaggio però quella volta era assente per un viaggio o impegnato in un reportage… Variammo quindi abbastanza rispetto all’opera originale, ma l’idea del libro era comunque bella e originale. La prima stesura che avevamo fatto era pensata per Giancarlo Giannini ma poi, come sempre succede, la produzione cambiò cast.

ROBERTO: Il soggetto e la sceneggiatura erano solo miei e di Bucceri; poi Lucidi, una volta che Roger Moore accettò la storia, intervenne su indicazione di Manolo Bolognini per “ridimensionarla” e allora pretendemmo che la firmasse per prendersene la responsabilità. Conobbi Roger Moore durante la preparazione del film: era cortese, elegante, pignolo e ironico e quindici anni dopo trovandomi a Juan Les Pins a cena con il produttore Marcello Danon, quello del Vizietto, Roger Moore che era in un tavolo accanto con Tom Selleck mi ha riconosciuto; Danon, compiaciuto di avere al suo tavolo due star di Hollywood, ha offerto champagne per celebrare l’incontro.

ROBERTO: Sono sempre stato, quando ho potuto permettermelo, contro corrente, così in un’epoca in cui il western era dato per morto, ho voluto rivendicare l’eternità del genere perché come l’Iliade e l’Odissea il western è un classico assoluto dove l’eroe combatte contro il Male (personificato da prepotenti, violenti, traditori, assassini, insomma dalla feccia dell’umanità) e quindi funziona sempre, in ogni cultura e in ogni latitudine. Tanto è vero che il film, crepuscolare e malinconico ma anche feroce e con una guizzo di speranza finale, ebbe successo di pubblico e di critica: Morandini lo definì “Degno del migliore Leone”. Giuliano, che in molti casi era stato usato più per la sua simpatia e per le sue prestazioni atletiche che per le doti di attore (quando invece ha avuto al possibilità di esprimerle come nel Prefetto di ferro, in Corbari e nel magnifico Deserto dei tartari è stato sempre un ottimo interprete), ricoprì il ruolo di California, per la prima volta quello di uno sconfitto e di un disilluso, con sentimento e impegno fino al riscatto finale.

ROBERTO: Avevamo scritto il film per Pasquale Festa Campanile, regista simpatico e intelligente, ma il produttore per cui lavoravamo ebbe dei problemi e subentrò Gigi Borghese, che era il marito di Barbara Bouchet e che impose la moglie. Barbara Bouchet è come dire… un po’ rigida, ma soprattutto essendo una tedesca nata in America non capiva bene lo spirito delle battute italiane. Il cambio di cast costrinse Pasquale Festa Campanile a cambiare il copione perché certe gag Barbara non le accettava o non le riteneva spiritose e Pasquale ricorse al mestiere, inserendo cioè situazioni già collaudate sempre sostenute da Johnny Dorelli, oppure divagando con inserimenti diversi. La parentesi in montagna, ad esempio, è stata inserita perché a Gigi era stata offerta una promozione da parte di un’organizzazione delle settimane bianche, così spedì tutti sulla neve.

ROBERTO: Qualche volta, fortunatamente non spesso, si legge che il film si avvale anche della collaborazione di Banfi o utilizzando spunti suoi, ma non è affatto vero (qui prende il copione mostrandolo). Come vedete risulta scritto solo da me e da Bucceri (poi legge le sequenze più famose). Vi faccio notare che le battute sono proprio quelle presenti nel film e che quindi non c’è stata nessuna improvvisazione di Banfi e nessuna aggiunta sua. Banfi era ancora poco conosciuto all’epoca e io e Luciano Salce dovemmo insistere per prenderlo, perché a Giovanni Bertolucci non piaceva; lo riteneva addirittura una specie di marchio di Luciano e Sergio Martino. Ma Giovanni Bertolucci aveva appena terminato un film che si chiamava La tragedia di un uomo ridicolo, firmato da Bernardo e che era stato un flop! Quindi Giovanni era in un momento nero e diceva che “dava testate sulla scrivania”. Io e Bucceri passammo a trovarlo e lui ci disse: “Inventatevi qualcosa, anche W la foca 2, o Pierino su Marte, ma procuratemi degli incassi”. L’idea di un film come W la foca proprio non mi piaceva; anche Pierino con Alvaro Vitali mi ripugnava e spiegai a Luciano Salce, a Bucceri e a Mario De Simone (un ex attore divenuto manager di diversi attori tra cui Banfi e che era casualmente presente) il motivo per cui bisognava evitare di scrivere un altro W la foca o un altro Pierino. “La televisione e i dischi hanno ammazzato il bar”, dissi. “Noi siamo cresciuti divertendoci a raccontare a scuola, al bar o dal barbiere le barzellette di Pierino. I ragazzi di questa ultima generazione, invece, al bar ascoltano musica o stanno a casa a guardare i programmi musicali della televisione, così quando al cinema vedono e sentono per la prima volta le barzellette di Pierino che ignoravano, si divertono; come gli adulti, che con nostalgia e indulgenza riascoltarono le barzellette della loro infanzia". Ecco quindi, secondo me, spiegato il successo di Pierino che però è irripetibile, perché era dovuto a una situazione casuale e temporanea. Se volevamo fare un film sicuramente comico dovevamo andare a cercare gli stereotipi della comicità, che sono eterni e sono una decina: il cornuto che non sa di esserlo, l’equivoco fra gli amici che non si capiscono, quello che tradisce la moglie e dice invece che è stato a cena con un amico e l’amico ignaro arriva proprio in quel momento e la moglie lo interroga, quello che viene scambiato per gay anche se non lo è eccetera. Tutte situazioni comiche che esistevano già prima di Aristofane e di Plauto e avevano attraversato i secoli inalterate. Quindi bastava ritrovare questi stereotipi sopravvissuti, cucirli assieme ed era fatta! L’abilità stava nel dare un filo logico e nell’indovinare la scelta.


ROBERTO: Io ho sempre avuto la passione per la fantascienza e l’action e ho provato diverse volte a scrivere qualcosa del genere ma nessuno amava la fantascienza anche perché si diceva che ai produttori italiani non interessava, dato che non era e non è nella nostra mentalità. Un dogma assurdo ma persistente, infatti ancora oggi un film come Lo chiamavano Jeeg Robot Mainetti ha dovuto produrlo da solo. Anche I guardiani, che abbiamo visto prima insieme, era un tentativo di fantascienza; ma quello riuscii a farlo perché c’erano i soldi della Rai, anche se poi si arenò. De L’ultimo guerriero mi affascinava l’idea di un mondo diviso tra ricchi e poveri, dove i poveri, relegati in riserve, sono praticamente preda dei ricchi anche in senso fisico. Doveva sembrare un mondo normale, in cui però tutti sembrano ricchi e belli e in cui tutto è perfetto. Poi arriva il weekend e alcuni vanno al mare, altri in montagna altri a caccia ma di… umani, cioè di poveri che si vendono come prede per far sopravvivere i figli o i parenti. Alla fine c’era una scena in cui tutti i trofei messi sulle pareti erano composti da teste umane, bambini compresi… L’ambientazione post-atomica è invece una cosa che voleva il produttore e che tolse anche la divisione tra la parte del mondo bella e ordinata e la parte del mondo povera e selvaggia. Ricordo una scena - in cui il protagonista viene preso e portato nella riserva sul convoglio di una metro che fu girata nella metropolitana della linea A di Roma, al tempo ancora chiusa (doveva essere ancora inaugurata, ndr)… Insomma, era sempre stato un mio desiderio fare un film di questo genere, anche se alla fine l’idea venne impoverita, manipolata… Ad esempio c’è tutta una sequenza con le motociclette (poi ampiamente ridotta) perché quello che mi affascinava era riproporre i cavalieri medievali mettendoli a duellare sulle motociclette. Infatti i motociclisti hanno una spada, una katana; ma è tutto ridotto al minimo...


ROBERTO: È un film interessante perché era la storia di una specie di... Berlusconi! A Luciano Salce piaceva molto perché cominciava con un tipo milanese, interpretato da Johnny Dorelli, che faceva il padrone smargiasso di una televisione privata e per un banale incidente diventava cieco. La moglie, i familiari, gli amici e i collaboratori, tutti a omaggiarlo e a compatirlo, obbedienti e devoti, fino a quando il protagonista scopre, riacquistando casualmente e improvvisamente la vista per una caduta, che tutti lo ingannano sfruttando la sua menomazione. Chiaramente lui continua a fingersi cieco e prepara una serie di vendette…

ROBERTO: La verità su La gabbia è la seguente: Lucio Fulci parlava male di quasi tutti ma io – non so per quale ragione – gli ero stranamente simpatico. Infatti quando dovevo girare Favola crudele (1991, ndr) e la produzione chiese a Fulci in prestito John Savage che nel frattempo stava lavorando sul suo set (Le porte del silenzio, dello stesso anno, ndr) lui mi concesse l’attore per due settimane. Era un uomo geniale, molto intelligente e preparato. Faceva solo finta di essere trasandato e burbero. Era invece un tipo sensibile e delicato che si mascherava dietro un atteggiamento scontroso… Da sempre sosteneva di essere lui l’inventore della suspense all’italiana, non Dario Argento. Gli americani gli riconoscevano il primato, il resto del mondo no. Una volta fece uno scherzo a Dario durante un Fantafestival: si presentò tutto dimesso, su una sedia a rotelle e mi chiese di sistemarlo al centro della platea, dove era impossibile non notarlo. A quel punto Argento, che era uno degli ospiti premiati, vedendolo accasciato sulla sedia a rotelle, dimesso e ansimante, fu mosso da compassione e rivolgendosi al pubblico disse: “Vi chiedo un applauso per Lucio Fulci, un maestro della suspense all’italiana”. A quel punto Lucio smise di ansimare si drizzò sulla sedia, prese il microfono ma invece di ringraziare: “Aaaah, Dario, l’hai ammesso finalmente! Ma solo perché pensi che sto su ‘sta sedia a rotelle e sto per morire... invece mi sono solo rotto il mignolo e sto benissimo!”. Tornando a La gabbia: Lucio mi chiamò per scrivere la sceneggiatura partendo da un soggetto di Barilli che lui aveva rimaneggiato. La storia raccontava di un’adolescente borghese che viene sedotta e abbandonata durante una vacanza al mare.


ROBERTO: Di questo film sono insieme a Bucceri autore solo del primo soggetto, che non conteneva barzellette: doveva essere una storia per Enrico Montesano diretta da Luciano Salce, ma dopo un dissidio tra i due produttori questo soggetto fu assegnato a uno solo dei due che per compiacere la distribuzione volle trasformarlo in una serie di barzellette. Luciano se ne andò e io con lui. Il soggetto fu revisionato da Umberto Marino, che con il regista Laurenti scrisse anche la sceneggiatura.
ELLERRE: Una donna da scoprire viene considerato da molti un film assolutamente divertente, ricco di notazioni che possono avvicinarlo, soprattutto nella realizzazione finale, al comico involontario. Era un “pericolo” che avvertivi, quando scrivevi?
ROBERTO: Riccardo Sesani, il regista, è un amico affettuoso e sfortunato, non critico il suo film al quale ho prestato il mio nome.

ROBERTO: In Luci lontane ebbi il piacere di avere come co-sceneggiatore Roberto Lerici, che era anche un ottimo scrittore. Ci ispirammo liberamente al romanzo “Venivano dalle stelle” di Giuseppe Pederiali. È un film a cui tengo molto. Era di nuovo fantascienza, tratta appunto da un bel romanzo. Ricordo che fui prelevato da Claudio Argento, il produttore, all’aeroporto di Fiumicino appena sbarcato dal volo di Rio de Janeiro dove ero stato a seguire un film e trasportato direttamente sul set, vicino a Cesena o Rimini. Mi sembra che Tomas Milian e Laura Morante non andassero d’accordo con il regista Aurelio Chiesa sull’interpretazione del film: Chiesa voleva tutto molto realistico e poteva essere giusto perché il realismo dà grande spessore alla parte fantastica; ma deve esserci anche la parte fantastica. Invece Chiesa, forse poco esperto o non avendo la passione per un’altra realtà, voleva tagliare tutta la parte delle suggestioni fantastiche che davano sapore al copione. Tanto è vero che litigai con lui per salvare il “mio” finale. Per fortuna ci riuscii perché solo quel finale dava un senso al film, capovolgendo il rapporto tra realtà oggettiva e realtà percepita proprio nella scena dell’incredulo che colpito da un lutto personale si mette in ginocchio davanti a colui che fino a quel momento aveva ritenuto pazzo e lo prega di compiere lo stesso “miracolo” per il quale lo aveva fino allora deriso e perseguitato.

ROBERTO: Io e Claudio Argento, scegliemmo Jodorowsky insieme. Andammo a Parigi per incontrarlo, ma Jodorowsky voleva parlare solo con me e non con Claudio: con gli artisti e non con i mercanti, come li chiamava lui. Quando lo incontrai mi aspettava, quasi nascosto, nell’androne del palazzo del suo agente: era vestito interamente di viola con scarpe viola, calzini viola, camicia viola, giacca viola, pantaloni viola, forse perché a lui piace il “coup de théâtre”. Lo guardai e mi disse: “Oui c’est moi, Jodorowsky”. Andammo a parlare al bar, non dall’agente perché anche quello era un luogo di “mercanti”. “Quando ti è venuta in mente questa storia? Che giorno?”, mi chiese. “Non me lo ricordo, l’anno scorso…”. “Quando?”. “Credo a marzo”. “Sì ma che giorno?”. “Il 29 marzo, lo ricordo perché ero stato in un posto...”. “A che ora?” “Verso l’una, perché in genere vado a dormire tardi”. “Ecco, quella sera l’angelo delle storie è passato per Parigi, ha visto che dormivo, ha continuato a volare ed è arrivato fino a Roma dove tu eri sveglio e la storia l’ha raccontata a te. Ma quella storia era mia e tu sei un ladro, lo dicono anche i tarocchi”… Non sapeva che la mia famiglia era una famiglia di guaritori dei Monti Sibillini, il cuore magico d’Italia, e che la magia o meglio la favola della magia la conoscevo da bambino... L’anello che porto al dito (lo mostra, ndr) raffigura un leone che con la zampa raggiunge una stella e ha inciso il motto “Non altius“ (non più in alto) ed è la copia di quello di un mio antenato, Petrus Leonibus (Pierleone Leoni, ndr) che è stato lo stregone di Lorenzo il Magnifico nel 1490. Quindi Jodorowsky, un russo-cileno vissuto a Città del Messico e finito a Parigi non può raccontare a me la favola della la magia o della psico-magia! Cioè, se il famoso regista Jodorowsky deve fare scena per lanciare il film, io che sono il suo sceneggiatore lo aiuto: posso anche dire che Alessandro mi è apparso in sogno per chiamarmi a Parigi a scrivere la sua storia, però sappiamo che è una trovata pubblicitaria e che non siamo due maghi ma due “cinematografari”, raccontatori di storie per professione.

ELLERRE: Dopo Santa Sangre e altri film come Spogliando Valeria, Casablanca Express o American Risciò” tornasti dietro la macchina da presa per dirigere Favola crudele. Cosa ricordi di questa tua prima esperienza “italiana” da regista?
ROBERTO: Dopo Santa Sangre si era consolidata la mia fama di “eclettico”, cioè una specie d’intellettualoide anarchico che scrive film senza alcuna coscienza sociale e che era andato a Cannes non con un film “impegnato” che avrebbe educato le masse ma con un film fanta-iperrealistico di quel “pazzo” di Jodorowsky. Così per sopravvivere ho dovuto ricorrere ai cosiddetti film di genere, titoli come quelli citati in precedenza, per cercare di tornare alla regia dopo le varie esperienze di aiuto con Valeri, Salce eccetera e avendo i figli ormai maggiorenni. Con i proventi di quei film ho potuto lottare per tre anni, senza santi in Paradiso, per ottenere finalmente un fondo di garanzia ministeriale e girare Favola crudele con Claudia Gerini e John Savage poi in selezione ufficiale al Festival del Cinema Italiano. Il film sarebbe andato anche a Montepellier, a Osaka e ad Annecy e ad altri festival se la società di produzione non avesse mancato di pagare una certa tangente a un certo partito e contemporaneamente e casualmente un’ispezione fiscale non l’avesse costretta al fallimento. Senza i soldi per le copie e per la spedizione delle valigie di pellicola i festival sono sfumati. Mi sono rimasti gli inviti.

ROBERTO: Questo fu un film difficile perché molto “scomodo”; era infatti un film “politico” ma, peccato gravissimo, non della parte giusta e nemmeno, altro peccato ignobile, dell’altra parte. Insomma, era ed è ancora un film “contro” i furbi della politica che, come tutti ormai sanno, sono un partito unico che governa alternandosi con vari nomi. Sono quelli che hanno fatto o preteso di fare la rivoluzione solo per poi occupare i posti di quelli che avevano scacciato. Ci ho messo quattordici anni per realizzare questo film ottenendo, dopo i premi per la regia al Festival di Roma, al Festival dell’Havana eccetera, che la Rai lo acquistasse solo per “congelarlo” per altri quattro anni. Quando finalmente è stato trasmesso, a mezzanotte di un sabato sera penalizzato in un programma chiamato Sabato Giallo, il film ha realizzato il 23% di share. Un successo che mi è stato dannoso perché ha dimostrato che avevano ragione coloro che rifiutavano di trasmetterlo, ritenendolo pericoloso perché raccontava la verità. Una verità che ancora oggi mi tiene fuori da certe produzioni, da certe fiction, da certe commissioni…

ROBERTO: Quando non puoi scrivere romanzi perché non hai abbastanza fogli, o non hai abbastanza inchiostro, allora scrivi novelle: sono brevi, immediate e bastano pochi fogli e poco inchiostro, così non resti inoperoso e racconti ancora. Inoltre il corto, quando viene bene, ha una sua fulminante bellezza e all’inizio poteva persino non essere necessariamente e ipocritamente “impegnato” come lo è adesso per ottenere i soldi del Mibact. Era uno spazio libero e divertente in cui sperimentare spunti e storie. Per questo ne ho realizzati diversi e continuerò a farlo senza trascurare però il lungometraggio, proprio come ho già fatto scrivendo e "girando" in inglese, grazie al coraggioso e lungimirante produttore indipendente Mario D'Andrea della MDL, un thriller metafisico intitolato De serpentis munere (Il dono del serpente), interpretato da Guglielmo Scilla, Alexandra Dinu, Benjamin Stander e Valentina Raggio. Tra un corto e l’altro ho infatti preparato questo ritorno al fantastico tra esoterismo e Santa Sangre e, visto il suo successo di vendite all’estero, il mio piccolo nome anche se senza tessere né parrocchie vale qualche spicciolo d’anticipo. Sto preparando un altro lungometraggio e questa affascinante guerra tra idee e realizzazioni continua…
INTERVISTA RACCOLTA IL 28 NOVEMBRE 2017 DAI BENEMERITI ELLERRE ED ERRELLE
23 Gennaio 2018 17:31
29 Gennaio 2018 11:13
22 Aprile 2018 21:16