Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Negli anni Ottanta del disimpegno e della rinnovata gioia di vivere c'era spazio anche per questo piccolo film che inesplicabilmente, visto oggi, ebbe un successo così grande diffuso in tutto il mondo. Una storiella esile, supportata però da ottime interpretazioni (soprattutto Bill Murray, lo scettico) interessa per una mezz'oretta, poi si incomincia a pensare ad altro.
Quando sua sorella scompare, una donna lo collega al suo ex rapitore. Thriller senza o con poche ambizioni. La storia è un po' tirata per i capelli e con dinamiche discutibili o improbabili, mentre il personaggio interpretato da Amanda Seyfried (forse sopra le righe) non convince. A tratti sembra un film fatto per la tv. Regia del brasiliano Heitor Dhalia poco efficace.
L'idea era evidentemente quella di riproporre per una nuova generazione le situazioni che erano alla base dell'originale. Quindi si mobilitano nuovi attor (bravini) e si richiamano alle armi i vecchi, in carne e ossa oppure in spirito (ma la Weaver confinata nei titoli è davvero di cattivo gusto). Ne esce un ibrido poco interessante, perché si percepisce chiaramente che è un'operazione studiata a tavolino.
Un candido col nome alieno d’una stella, Peter Pan o Lazzaro inconsapevole, cresciuto da prostitute nella desolazione d’un lembo dimenticato tra mare e montagna (entrambi risorsa e minaccia). Un’umanità ai confini del mondo, tra esclusi e diseredati, per una storia d’amore (materno, dove non te l’aspetti) intimamente femminile. Una favola, un mythos (che infine abbandona l’arcaico e va verso la Storia), narrato con sapore antico e modernità vibrante, disturbante e ammaliante, fatto di niente e di tutto. Strano, straniante, straniato, stranito.
E' ancora New York ed è ancora De Niro, per Scorsese. Ma c'è di più: un immenso Lewis, che riesce a creare un personaggio che somiglia alla propria persona, con mille sfumature, gesti accennati, mezzi sorrisi e sguardi in tralice. La scena è tutta per per De Niro, però, e ci mancherebbe: Pupkin, o come diavolo si chiama (nel film tutti sbagliano il cognome), è tra i più viscidi, insistenti, pedanti eppure vitali villain che l'attore abbia mai interpretato. Un film da vedere per come parla di sociologia e di creazione di personaggi amati, adorati o, comunque noti al grande pubblico.
Faida familiare e condominiale che coinvolge due cognate tra denunce, insulti, litigi, dispetti. Alcune zie cercano di appianare le cose. L'inizio ha le movenze della tragedia greca (si cita pure Sofocle) e il film ha le caratteristiche di un'opera teatrale. Forse vorrebbe anche rinverdire l'epoca della feroce commedia all'italiana, ma non ci riesce. La storia si fa apprezzare invece per il realismo nel descrivere, quasi con istanze documentaristiche, certe dinamiche familiari: le liti ma anche i momenti legati al cibo. Interessante il fatto di non schierarsi da una delle due parti.
La boxe da sempre al cinema si sposa con gli ambienti degradati, la periferia, l'ansia di emergere da una realtà disgraziata. GHIACCIO (il cui titolo fa riferimento a una nota pratica usata dai pugili per lenire il dolore alle mani, immergendole appunto in una bacinella colma di cubetti) si riaggancia a temi che ben si sposano a quella romanità che ormai da anni su grande schermo, quando c'è da raccontare storie di emarginazione, malavita, scommesse, è humus ideale.
Non c'è davvero nulla di nuovo nel copione scritto dal cantautore Fabrizio Moro...Leggi tutto insieme ad Alessio De Leonardis, autori anche (da esordienti) della regia, e quindi nemmeno nei due personaggi principali, il giovane pugile Giorgio Orsini (Ferrara) e il suo allenatore, Massimo (Marchioni). Quest'ultimo cerca nell'allievo quelle rivincite che la carriera gli ha negato: sa di avere in mano un buon talento, ma va sgrezzato; perché Massimo è indolente, sprezzante, ha mille pensieri a cominciare da una madre oppressa dai creditori del marito ucciso. Quando incontra Floriana (Cardinaletti) qualcosa in lui cambia, mentre all'orizzonte inizia a profilarsi il match che - come da tradizione del genere - dovrà occupare l'ultima parte portando sul ring la giovane promessa. L'avversario, Santo Gerani detto "Lo Zingaro" (Aversano), non pare dei più abbordabili, ma Massimo sa come caricare il suo pugile ed elargirà ovvi insegnamenti con l'obiettivo di risvegliare la scarsa concentrazione di Giorgio (detto Giò, che pare Joe ma è il semplice diminutivo romano di Giorgio).
Un'inattesa richiesta di "Pisciasotto" (Camilli), il boss del quartiere, rischia però di compromettere seriamente le mire di Giorgio, e da lì in avanti il film troverà gli spunti giusti che prima mancavano per incuriosire, sviluppandosi fino a convergere nel match con lo Zingaro, girato piuttosto bene. Senza dover ricorrere alla spettacolarità e alle esagerazioni di ROCKY, i due registi dimostrano di saper riprendere l'incontro con bravura, assistiti dai due pugili, che non lasciano troppo intuire l'artificiosità dei colpi. La tensione in questo modo sale, mantenendosi su buoni livelli fino all'amaro epilogo e riscattando parzialmente un film a lungo adagiato in una descrizione di maniera della periferia romana, con Ferrara fin troppo chiuso nel suo mutismo e Marchioni, cui spetta invece dare una fisionomia più solida al proprio personaggio.
Mescolando l'ambiente della boxe a quello romano si finisce nel moderno neorealismo più tipico, in cui gli attori si mangiano parole che, talora storpiate dal dialetto, finiscono spesso per perdersi nell'incomprensione. La felpa di Totti senza una delle tre "T" diventa uno dei pochi elementi riconoscibili, mentre non ci si eleva dalla media nella descrizione delle figure femminili, tendenzialmente marginali anche rispetto ai criminali che spacciano e allungano la loro ombra sul futuro di Giorgio. Di qualità invece la colonna sonora dello stesso Moro, perlopiù a base pianistica (notevole l'accompagnamento quasi tribale all'entrata sul ring dei due contendenti), con il brano "Sei tu" cantato sui titoli di coda a renderne riconoscibile l'autore. Da non confondere con l' "E tu" di Baglioni cantata in maniera terribilmente stonata da Marchioni per riconquistare con una serenata la sua bella. Un film corretto, discretamente diretto ma incisivo solo nell'ultima parte.
Le commedie francesi con Christian Clavier tendono a far perno su di lui curandosi ben poco del resto e questa non fa eccezione: un copione logoro in cui l’ottimo francese recita nel ruolo del nuovo compagno di una donna divorziata, Carole (Seigner). Il marito l’ha lasciata per una più giovane e popputa, lei ha trovato in Philippe l’uomo che cercava. Podologo, legato ai suoi tempi e stagionatello, non proprio con l’aria del vincente, Philippe ha difficoltà a piacere ai figli di lei, Julien (Buchsbaum) e la tredicenne Manon (Groyne), tipici adolescenti maleducati...Leggi tutto che pensano solo al cellulare e ai loro amici. Sua è però l’idea per convincere Julien a impegnarsi di più a scuola: fatti promuovere e scegli tu dove andare in vacanza. Detto fatto, e la meta sarà Ibiza, dove il ragazzo spera di ritrovare una coetanea per cui aveva preso una cotta.
Philippe non immaginava di finire coinvolto nel viaggio, ma Carole lo convince e allora eccoli tutti e quattro sulla più viziosa delle Baleari: Ibiza è sole, mare, droga, alcol e discoteche, l’ideale per dare luogo a equivoci ed eccessi. L’impatto, in aeroporto, fa già capire tutto a Philippe: un tizio gli si avvicina chiedendo se sta cercando cocaina, e non sarà l’ultimo. Noleggiato un Hummer, il gruppo raggiunge il grande albergo con piscina dove alloggerà per una vacanza all’insegna del divertimento. Almeno per la generazione in avanti con gli anni, perché invece i due giovani sono come da regola insoddisfatti, scontrosi, palesemente insofferenti nei confronti del povero Philippe, che cerca costantemente di stabilire con loro un minimo di complicità.
Inevitabile che spesso le strade dei due gruppi si dividano, con i grandi agganciati quasi subito da un vecchio amico di mamma diventato lì deejay di successo (Starr). Sarà lui a trascinarli prima a folleggiare in discoteca e poi sulla sua barca, diretta alla vicina Formentera. Non che succeda molto, a bordo, al di là dei prevedibili rimbrotti di lei nel vedere come lui butti troppo l’occhio sulle due avvenenti ospiti sudamericane dell’imbarcazione.
Sballottato in un mondo che non conosce e che crede di poter affrontare senza problemi, Philippe è chiaramente il centro della vicenda, che di tanto in tanto devia fugacemente sui due adolescenti giusto per variare un po’ il registro. Ma le gag hanno le polveri bagnate e, nonostante i tentativi di rendere viva la storia anche attraverso qualche buon pezzo di musica (l’immortale “I Love Rock’n’Roll” di Joan Jett con cui Philippe sbanca al mixer in disco o la “Still Loving You” degli Scorpions, riproposta in ogni salsa), si ride molto poco, con personaggi nel complesso scarsamente sopportabili.
Scontatissimo e costruito senza inventiva alcuna lo scontro generazionale (con lieto fine immaginabile) e appena potabile l’incontro con la famiglia ricca e radical chic in villa, comprensivo di una scena piuttosto disgustosa e di rara volgarità tra nudismo e schizzi di cacca che colpiscono a pioggia. Certo, i paesaggi balneari sono splendidi, il mare è favoloso, gli scorci tra i vicoli di Ibiza pittoreschi, l’atmosfera di festa si respira come da previsioni... Ma la fantasia latita (fin dal titolo) e i protagonisti vengono sbattuti di qua e di là senza costrutto, da un ristorante sulla spiaggia all’albergo o a un bar, cercando di ricomporre i dissidi tra loro mentre Clavier è chiamato a fare il pesce fuor d’acqua ad oltranza, senza che la sceneggiatura gli offra battute che vadano oltre la trattenuta irritazione, l’atteggiamento di comprensione nei confronti di chi lo maltratta, il desiderio perlopiù frustrato di far vedere quanto vale. Simpatica qualche scena in aereo (Carole lo soffre), buona la performance della Seigner, anonima quella dei ragazzi… Qualche battuta va a segno, la confezione è professionale, ma lo stesso Clavier sembra tirare avanti col pilota automatico. Durata contenutissima (meno di un'ora e venti!) e scena aggiunta sui titoli di coda.
Siamo alle solite: la bella ragazza sciroccata che insidia il marito di un’altra sperando di sostituirsi a quest’ultima. Niente di più comune, per un thriller televisivo, e il fatto che la giovane sia un’arredatrice d’interni non ci evita il déjà vu. Lei è Ava (Stranahan), bionda conturbante dolce e sexy, e quando Jim (Pohlkamp) la chiama per farsi risistemare la casa prima che sua moglie (Egan) rientri da una delle tante trasferte di lavoro per farle una sorpresa, lei accetta l'incarico ben felice. Anche perché ha già messo...Leggi tutto gli occhi su di lui e sta già studiando come subentrare a quella donna così spesso lontana dalla famiglia… Non un’operazione immediata, perché i due ancora si amano, ma basta qualche furbo stratagemma, ideato studiando la coppia a letto grazie a telecamere appositamente piazzate lì durante i lavori, per capire come agire.
Nel frattempo capiamo un po’ più di Ava: vive da sola, con una vicina (Hanlen) che da sempre si preoccupa delle sue condizioni di salute, ha uno strano rapporto con l’operaio (Conboy) che lavora per lei ed è ossessionata da flashback di gioventù in cui rivede la madre maltrattarla, chiara causa delle sue turbe mentali. La separazione della coppia, comunque, si fa ogni giorno più vicina, e lo capisce anche Chelsea (Judy), la figlia adolescente dei due, che nel frattempo (ma guarda un po’) è diventata grande amica di Ava, la quale l’ha spinta a lasciare medicina per indirizzarla verso l’interior design prendendola a lavorare con lei; con il padre felice anche perché inevitabilmente attratto da Ava…
Tutto è già scritto, così come il fatto che il delitto sia uno solo e cacciato dentro a forza. Quanto a thriller, infatti, non siamo messi benissimo: la regia di Jessica Janos punta a tratteggiare con interventi sull’immagine e il montaggio la follia della protagonista, che quando è sola si lascia andare a ogni sorta di crisi mescolando nella mente passato e presente: la madre che si riaffaccia nei ricordi per riprenderla ad ogni occasione e l’amore per la bambola con cui aveva passato l’infanzia si alternano a flashback veloci di quanto ha appena vissuto con Jim o Chelsea. La moglie è quasi sempre assente, eppure è il personaggio meglio reso: Pauline Egan gli conferisce una bella credibilità e svetta come recitazione su tutti, nonostante poco la si veda. Kelcie Stranahan, invece, esibisce scarsa espressività ripetendo le stesse facce e le stesse reazioni per l'intera durata. Non che demeriti troppo, comunque, perché se il tutto poco funziona lo si deve principalmente a una regia mai incisiva, a una fotografia che quando interviene sui colori saturandoli crea disastri e aberrazioni (non parliamo dei brutti time lapse), a una goffa gestione nei momenti in cui si dovrebbe cercare di restituire la deviazione mentale di Ava e a un’ultima parte lunga e posticcia che sarebbe stato meglio eliminare del tutto chiudendo quando si capiva che la storia era ormai conclusa.
Resta spassoso vedere come la protagonista pianifichi i suoi tranelli per far finire Jim (al solito rigido e tonto) nella sua rete, o come porti la figlia di questi dalla sua parte. Però la conclusione (prima della citata, sciagurata “parte aggiunta” in coda) è debolissima e fin dai titoli di testa irritanti, tra effetti grafici dozzinali e musiche mal sovrapposte, si capiva che qualcosa non andava…
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA