Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Più che abbronzatissimi, noiosissimi. Di spiaggia infatti stavolta ce n’è poca, così come di spensieratezza vacanziera. Ci si barcamena tra la soap opera e una timida pochade, che definire comica sarebbe eccessivo. Calà gira tediosamente su sé stesso più impegnato a promuovere spider giapponesi, come si faceva un tempo con il J&B, che a far ridere. Decisamente più fresca Eva Grimaldi. Professionale la Gravina, anche se pare ancora impostata sul tono delle telenovele argentine. È solo per rispetto a queste due (e al topless di Barbara Cavallari) che si può aggiungere mezza palla.
Dedicato all’attacco giapponese alla base di Pearl Harbor, è il classico “filmone” di guerra che si avvale di un elevato numero di comparse, un buon cast (non ottimo, ma nemmeno serviva), un’eccellente ricostruzione dei costumi e dei mezzi bellici e, per l’epoca, eccellenti effetti speciali. Le scene dell’attacco e quelle immediatamente precedenti sono infatti gradevolissime, senza nulla togliere alla lunga parte dedicata alle premesse che, pur necessariamente lenta, è fondamentale per la comprensione degli eventi (colpisce la superficialità degli americani).
Due genitori cercano di raggiungere la loro figlia, coinvolta in un incidente stradale. Quasi tutto si svolge di notte, nell’abitacolo di un'auto, e tuttavia la tensione non subisce flessioni. Dramma familiare e suspense nutrono i dialoghi telefonici tra genitori e figlia che coinvolgeranno in seguito anche una misteriosa signora. Con il trascorrere dei minuti la componente psicologica e la forte connotazione simbolica si accentueranno per diventare la chiave di lettura del dramma. Ottimo thriller psicologico, con l’invito implicito a una ponderata esegesi. La Pike in evidenza.
Il sottobosco del cinemabis capitolino anni '70 partorisce questo piccolo, grande noir poveristico fondendo Lumet con il clima plumbeo e violento del 1977, il tutto con influenze dalla Nouvelle Vague e del miglior polar transalpino. Ben scritto e diretto da Petrini, vede la buonissima interpretazione del regista di (stra)culto Mario Bianchi nei panni di un commissario di ferro, per non parlare poi di Cutini (meritevole di una migliore carriera), qui un vero e proprio Helmut Berger italiano. Cupo, cinico, durissimo, malinconico: un film "povero" ma fatto con tanto, tanto cuore.
Ancora una volta Constant Girel decide di riprendere la popolazione degli Ainu mentre si esibisce in una danza tipica. Ma questa volta le protagoniste sono di genere femminile. Il risultato però non cambia perché dal punto di vista coreografico la messa in scena è praticamente identica rispetto alla danza maschile. Le protagoniste ruotano su sé stesse e battono costantemente le mani in un moto perpetuo tale da colmare l'assenza del sonoro. Girel riesce come sempre a evidenziare gli aspetti antropologici delle popolazioni locali rendendoli interessanti. Davvero interessante.
Tanto duro quanto sobrio e minimale, questo esordio di De Seta nel lungometraggio di (parziale) finzione, ammirevole nel suo essere pieno di rispetto per le persone descritte, la materia trattata e per il mondo sardo tutto, per il suo evitare con cura le trappole e le tentazioni del dramma facile nel descrivere un sempiterno ciclo di ingiustizia, crudeltà, mali atavici e rassegnazione in una "società del malessere" destinata a non guarire mai. Ottima la fotografia di Tovoli, indimenticabili i volti dei protagonisti, ai quali si adatta ottimamente un doppiaggio "d'autore".
“Gli inizi” ci vengono a dire il vero raccontati con qualche flashback a mo' di documentario nella primissima parte del film: una missione spaziale con a bordo i quattro (non ancora) eroi è finita male e il loro DNA ne è uscito modificato con le conseguenze che tutti sappiamo: Johnny (Quinn) si accende a piacere come una torcia, Ben (Moss-Bachrach) è un'enorme massa pietrosa antropomorfa, Reed (Pascal) si allunga a piacimento e Sue (Kirby) può farsi invisibile e spostare giganteschi volumi di materia attraverso una forza che viene visualizzata da...Leggi tutto uno spettro cromatico appena percettibile. Insieme si sono presi l'incarico di proteggere il mondo e – lo vediamo in un veloce riassunto - hanno sconfitto svariati nemici che avevano l'ambizione di dominarlo.
Ora Sue è incinta di Reed e proprio quando si avvicina l'ora del parto una nuova minaccia si avvicina alla Terra: annunciato dal “metallico” Silver Surfer (Garner), qui in versione femminile tanto per variare un po', sta per giungere a noi il temibilissimo Galactus, il divoratore di mondi la cui statura colossale è forse l'effetto meglio reso del film. Per arrivare a parlarci, i nostri devono compiere un viaggio spaziale attraverso una sarabanda di coloratissimi effetti speciali entro cui sfreccia Silver Surfer. Una volta al suo cospetto, Galactus pone le sue condizioni: la Terra sarà salva (e lui quindi eviterà cortesemente di papparsela) se gli verrà consegnato il magico figlioletto nato da Sue e Reed, destinato a suo dire a un futuro incredibile. Non sia mai! Consegnare il loro pupo in cambio di qualche miliardo di anime è improponibile, per i Fab Four: va escogitato un sistema diverso, per salvare il mondo! Tornati con le pive nel sacco e presi a male parole da interi popoli che pretenderebbero di sacrificare non senza una certa ragione il nascituro, i Quattro cominceranno a studiare un sistema di teletrasporto che potrebbe salvare capra e cavoli.
Non molto da segnalare in un film che azzera quasi del tutto le esibizioni della neo coppia di genitori (Reed ha un paio di buoni momenti nella lotta finale e poco altro, Sue anche meno), lasciando a Ben Grimm la maggior parte delle scipite gag e consegnando alla Torcia Umana il compito di far risplendere gli effetti speciali. Che quando c'è lui funzionano, a dire il vero, ma ancora meglio colpiscono quando a fare sfracelli tra i palazzi di New York arriva Galactus il quale, secondo modalità “godzillesche”, sfascia grattacieli e auto lungo il cammino. Davvero un essere gigantesco, del quale la regia riesce a restituire le inusitate dimensioni trasformandolo nel vero polo d'attrazione del film.
Quando invece c'è da passare alle scene di semplice quotidianità o quando i protagonisti devono elaborare una strategia difensiva casca il palco: Reed con la sua espressione perennemente corrucciata da grande studioso si contrappone all'ingenuità di Johnny e alle sdrammatizzazioni di Ben, mentre Sue pensa al bambino e mostra gli splendidi occhioni azzurri senza che mai si rinvenga tra le pieghe della storia qualche spunto interessante. Il protezionismo nei confronti del piccolo Franklyn, insidiato dal tremendo Galactus, diventa centrale, con dialoghi "familiari" stucchevoli e i Quattro tratteggiati spesso come bamboccioni privi di qualsiasi spessore drammatico, ai confini del cartoon.
La qualità dell'umorismo è modesta quanto i dialoghi e i lunghi passaggi in astronave tra fiumi di colori e torrenti di fuoco sono un riempitivo uguale a troppo di ciò che si può trovare in qualsiasi film con futuristiche esplorazioni planetarie. Insomma, dare smalto al quartetto su grande schermo si conferma operazione non facile, nonostante le potenzialità per farlo esistano. Si è comunque ristabilita, rispetto al primo film, una medietà che permette di godersi lo spettacolo senza troppi rimpianti, aiutati dal solito ritmo vivace che in produzioni simili diventa asset fondamentale.
Bob Odenkirk, che già col numero uno aveva dimostrato di ambire legittimamente ad affiancare mostri sacri del genere come Jason Statham, Liam Neeson o Keanu Reeves, in virtù di una fisicità ideale e una monoliticità espressiva in linea con i "migliori", cambia passo. Il budget sale e il film, oltre a permettersi un regista tra i più promettenti dell'action orientale come Timo Tjahjanto e la conferma di Connie Nielsen (la moglie), Chistopher Lloyd (il padre) e RZA (il fratello), chiama come...Leggi tutto nuove star Sharon Stone (nel ruolo della cattivissima Lendina) e John Ortiz (il nemico che poi cambierà fazione).
Lo schema lo conosciamo tutti prima ancora che ci sia bisogno di sedersi in sala, ma fin da subito lascia perplessi una regia che, nel gestire le scene non d'azione, sembra quasi trovarsi in imbarazzo: le giornate in famiglia passano nell'anonimato, con lei che lavora o nuota e lui che mena come un fabbro per recuperare i soldi di un debito gigantesco che ha contratto mandando in fumo i miliardi dei russi. Certo, nulla da dire sul feroce scontro in ascensore, diretto con mano esperta, ma persino lì manca quella scintilla in grado di lasciare il segno.
Quando finalmente si parte, ci si accorge che papà Hutch Mansell (Odenkirk, per l'appunto) ha organizzato un viaggio di famiglia in un lontano parco di divertimenti come un perfetto Clark Griswold: ci era andato col padre da bambino nel loro unico viaggio insieme e lì Hutch vuole accompagnare moglie, figli e lo stesso, anziano padre, in una bella vacanza da passare tutti insieme per dimenticare lo stress quotidiano. Possibile che tutto vada liscio? Ovviamente no, e infatti già in sala giochi, il primo giorno, il figlio si accapiglia con un coetaneo. Mamma e papà calmano gli animi, ma quando il padre dell'altro rifila un piccolo scappellotto alla figlia di Hutch, quello prima cerca di trattenersi e se ne esce, poi ci ripensa, torna da solo e il tutto finisce in rissa (violentissima, come sempre).
In seguito arrivano gli attriti col poliziotto locale (Colin Hanks, è il figlio di Tom), quindi il faccia a faccia in Centrale con il superiore di quello (Ortiz) e poco più tardi lo scontro totale che prevedibilmente si scatena senza che in sceneggiatura nessuno si sia preso la briga di strutturare la storia in modo che non appaia buttata lì come capita. Si sa che in film del genere non è richiesta gran coerenza né verosimiglianza (anzi, è proprio il distruggere ogni traccia di quest'ultima a divertire, di norma), ma sarebbe utile che almeno i personaggi centrali (la Stone) non saltino fuori dal nulla gigioneggiando a più non posso senza un perché. O che ci si spiegasse perché Hutch d'improvviso decide di sbaragliare un'intera falange armata... Invece no: dialoghi di nessuna presa, ironia che sembra rifarsi addirittura ai film di Spencer e Hill (la zuffa in barca, i due eroi che di fronte al poliziotto che li minaccia nel finale al luna park sembra quasi che debbano rispondere: "Altrimenti? Altrimenti... ci arrabbiamo!"), ma con interpreti inadeguati e ironia che perde tutto il mordente del primo capitolo.
Certo, il ritmo è sempre elevato, la resa di alcuni corpo a corpo è spettacolare, ma spesso si sconfina in paradossi irritanti (si pensi alla Nielsen che prima rimprovera il marito per il suo modo di fare per affiancarlo fiera, subito dopo, sposandone il modus operandi e uscendosene fuori nel finale come una perfetta “bad girl”). RZA con le sue katane c'entra come i cavoli a merenda, Lloyd non aggiunge nulla e il lungo finale con trappole orchestrate al luna park si era visto da poco già in RAMBO: LAST BLOOD. E poi i nemici vestiti in nero da corpi speciali sono veramente troppo statici e inetti in ogni frangente, per poter sembrare una minaccia tangibile: in cento non sparano un colpo al momento giusto e lanciati allo sbaraglio sembrano un alveare di api impazzite che non sanno mai dove andare, offrendosi regolarmente ai nostri eroi inscalfibili come patetici agnelli sacrificali.
Di tanto in tanto la trovata che fa alzare un sopracciglio, la mazzata feroce che la regia rende al massimo, ma poi quando c'è da sorbirsi le scenette familiari o le mossette della Stone (mal doppiata) la sensazione netta è che non si sia posta alcuna cura, nella stesura del copione; che si punti solo a muovere i personaggi – senza gran fantasia, peraltro – infischiandosene di dar loro un briciolo di spessore e pensando solo a far rumore con esplosioni, fucilate, mine e via dicendo. Guardabile ma decisamente trascurabile, con punte selvagge non indifferenti che però ormai non fanno più notizia.
Chris Wolff, il killer semi autistico cui dà mirabilmente volto e carattere Ben Affleck, era prevedibilmente destinato a proseguire le proprie avventure. Azzeccato come personaggio, mescola in modo intelligente strambe battute e complessi calcoli addivenendo a soluzioni di enigmi apparentemente irrisolvibili. Lo troviamo già nelle prime scene alle prese con gli algoritmi delle app per gli incontri, pronto a crearne una propria! Ma non è questo che il film vuole raccontare, purtroppo, perché ad aspettarci - come nel numero uno...Leggi tutto - è una nuova storia confusa e mal spiegata, che nasconde l'elementarità di fondo dietro a una coltre di inutili farragini, sequenze spezzate, mezze frasi da interpretare.
Si comincia subito con una prima vittima: l'ex direttore dell'agenzia del Dipartimento del Tesoro (nientemeno che J.K. Simmons, in partecipazione "straordinaria") viene ucciso dopo aver consegnato a una pericolosissima killer chiamata Anais (Pineda) la fotografia di una coppia con figlio, da ritrovarsi quanto prima. Marybeth Medina (Addai-Robinson), che ha preso il posto del suo ex superiore appena ammazzato, rinviene sul braccio del cadavere di quest'ultimo una frase che l'uomo si era inciso a chiare lettere: "Trova il contabile". Medina lo fa e viene in contatto con quel mezzo matto di Wolff il quale, analizzati tutti gli indizi e le fotografie lasciate dalla vittima, capisce chi possano essere le persone presenti nella misteriosa fotografia. Per trovarle, però, decide di ricorrere all'aiuto di suo fratello Braxton (Bernthal), che non vede da anni, killer a sua volta e decisamente fuori di testa.
Una coppia esplosiva, ben assortita e capace di infilare, le poche volte che ha lo spazio per ritagliarsi qualche simpatico siparietto, scenette spassose. Entrambi menano come fabbri, sparano, rispondono a modo loro e rappresentano chiaramente il punto di forza del film, quello che lo distingue dalla massa di produzioni di genere affine. C'è una distinzione apparentemente netta tra buoni e cattivi (anche se considerare buoni due assassini mezzi matti non è facile), si punta molto sull'azione e vi si aggiunge una componente di ricerca tecnologica alla NEMICO PUBBLICO attraverso la quale, dalle riprese di telecamere poste al di fuori del locale dove si verifica il primo omicidio, si risale al volto di chi aveva appena parlato con la vittima.
Si infila nella storia un po' di tutto insomma, mentre si continua a gettare fumo negli occhi con nomi da memorizzare e situazioni da ricostruire. Con due ore e dieci di durata si può immaginare quanto una costruzione simile possa diventare faticosa da seguire; e sotto il versante action poco funziona pure il film, con uno scontro finale prolungato quanto insignificante. Insomma, quel che c'è di buono sta tutto nel tratteggio dei due protagonisti, nelle loro interpretazioni e nel gusto di sconfinare talvolta nel grottesco. Concettualmente nulla di nuovo, è evidente, ma Affleck trova nel suo Wolff uno dei personaggi più curiosi e singolari di una carriera in cui poco ha avuto modo di affrancarsi da stereotipi che l'hanno quasi sempre confinato nel novero degli attori validi ma troppo di frequente anonimi. L'affiatamento con Jon Bernthal è ottimo i contrasti tra i due si concretizzano, nei frangenti migliori, in scambi veloci e spiazzanti, al punto da far scomparire velocemente tutto ciò che ruota loro intorno, comprese due partner femminili evanescenti.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA