Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Dopo una prima strada, eccone un’altra sempre nel cuore della capitale del Sol Levante. Una pellicola che mostra una certa vivacità del traffico, con passanti di ogni tipo e con ogni mezzo, a fotografare una suggestiva varietà di popolazione urbana giapponese, con perfino un cavaliere che attraversa l’inquadratura velocemente. Un cortometraggio senza punti focali particolarmente notabili, ma con un piacevole ventaglio di micro-situazioni, sulle quali – ovviamente per un pubblico occidentale – ha la meglio l’esotismo degli abbigliamenti.
Come il racconto da cui è tratto, Il mistero di Marsdon Manor non offre molta sostanza. L’aggiunta di nuovi elementi non basta a sollevare la trama, che resta debole e a malapena sufficiente. Alcune atmosfere suggestive grazie alle location danno respiro all’episodio, ma dettagli cruciali vengono solo accennati e lasciano l’impressione di qualche falla narrativa. Un adattamento che convince poco, pur con qualche spunto visivo riuscito.
In linea di massima è una fanta sciocchezza, per giunta troppo lunga. Difficile anche trovare a chi possa essere indirizzato, perché gli adolescenti non sono così ingenui e sprovveduti. Il protagonista poi, ormai è poco più di uno scemotto; e anche gli effetti non sono certo dei migliori. Tra botta e risposta spesso da latte alle ginocchia, inutili lungaggini e scene di combattimento che non risollevano la baracca filmica, vi è un'unica certezza: la Liu e la Mirren sono lì solo per il nome e perché devono averle letteralmente coperte di dollari.
E' un film costantemente delicato, in cui Mastandrea immagina una terra di mezzo per le anime di quelli sospesi tra la vita e la morte e le cui aspirazioni per la verità non sono sempre chiare. Ambientato principalmente in un ospedale romano, il racconto non presenta particolari guizzi e arriva a salvarlo il personaggio inquieto, quasi burbero, di Dolores Ponzi. Mastandrea esprime la sua solite indole, tra l'autoironico e il riflessivo. Compare anche la Morante in un ruolo di contorno.
Tre note di pianoforte discendenti, che si ripetono a un tono più basso e poi daccapo, mentre un riverbero elettrico vibra costantemente. È la sensazione che qualcosa di importante monta, in modo costante, resa in musica. Lo score di Reznor e Ross è metà della riuscita di questo Fincher. Non c'è vera azione, eppure si è catturati nella storia. Quella di un uomo "che non è uno stronzo, ma prova ostinatamente a esserlo" e che mentre brucia tutti i rapporti chiave della sua vita, crea il "social" più importante di sempre. La metafora del finale è leggibile e disarmante. Bel film.
Tratto da un racconto breve che offriva spunti interessanti ma poco sviluppati, "Appartamento a buon mercato" sfrutta al meglio il potenziale della storia. L’intreccio di spionaggio è vivace e coinvolgente, arricchito da trovate intelligenti e momenti dinamici, come l’intrufolarsi di Poirot e Hastings nell’appartamento dei Robinson. Ne risulta un episodio ben costruito e piacevole, che eleva il materiale originale e si distingue come uno dei più riusciti.
Insignificante giallo ambientato nella Parigi dell'alta moda, dove una psicologa newyorchese viene reclutata per assistere uno stilista di grande successo con qualche paturnia di troppo. Lei è Lauren Elliott (D'Orsay), che della Francia sa poco o niente (figuriamoci la lingua). E' Charlotte Gauthier (Coquant), la sua amica del cuore che lavora per un marchio fashion molto importante, Lavigne, a chiederle di lavorare per loro nella Ville Lumière. Lauren sulle prime non sembra affatto decisa ad accettare il trasferimento, ma già quando vede entrare nel suo appartamento...Leggi tutto di New York il celebre stilista Virgil St. James (Legrand), da molti anni creatore di punta della Lavigne, comincia a cambiare idea. Una nuova avventura, stimolante anche per una donna con i piedi per terra come lei. C'è la settimana della moda, a Parigi, e Virgil ha assolutamente bisogno di qualcuno che lo calmi e lo faccia sopravvivere allo stress.
Tutti contenti, quindi? All'inizio naturalmente sì, ma poi qualcuno, appena terminata una sfilata della Lavigne, uccide una delle figure chiave del prestigioso marchio e il principale sospettato diventa proprio Charlotte, trovata sconvolta nei pressi del cadavere. L'ispettore Andre Dubreil (Marini) mette in custodia preventiva la donna e Lauren si sente perduta: certa che l'amica non possa essere colpevole, vuole aiutarla in ogni modo e per questo, non fidandosi della polizia, avvia delle indagini personalmente, confidando nel fatto che nei sui confronti tutti si mostrano disponibili a parlare. Ma intanto qualcun altro morirà e la situazione si farà sempre più drammatica.
Del fascino di Parigi poco si percepisce, anche per colpa di una fotografia che si finge colorata e vivace ottenendo un effetto anche peggiore, rispetto a quello più sobrio e spento del classico giallo televisivo. L'ambiente della moda, poi, da sempre fatica a rendersi credibile, quando il budget per la messa in scena è tanto chiaramente limitato e limitante: qualche modella, molto movimento tra stanze e interni anonimi spesso penalizzati dalla tendenza all'ocra della fotografia. Nemmeno la D'Orsay pare granché convinta nel suo ruolo di investigatrice dilettante, benché renda abbastanza lo spaesamento di chi si trova in terra straniera; forse l'unico che pare sposarsi bene al tema è Legrand, il quale ovviamente calca la mano nel caricare di atteggiamenti effeminati il suo Virgil St. James mostrando però una certa fragilità d'animo che ben si sposa al personaggio.
Sarebbe interessante il tema della contraffazione di oggetti di moda dal prezzo altrimenti inaccessibile (borsette firmate Lavigne che la protagonista nemmeno distingue da quelle autentiche), ma tutto si stempera in un giallo di maniera in cui lo svolgimento puramente meccanico non riesce mai a farsi coinvolgente. Né appare troppo credibile il rapporto dapprima piuttosto conflittuale poi sempre più amichevole tra Lauren e l'ispettore Dubreil, che gioca a fare il bel tenebroso.
La soluzione non è certo ingegnosa, la figura del padre (Rand) di Lauren è l'esempio lampante di una sceneggiatura che appiccica scene superflue dal chiaro sapore di riempitivo. Sangue assente, tensione idem. Nessun thriller: CRIMES OF FASHION è un dramma giallo fiacco e chiuso nel modo più convenzionale che si possa immaginare, nemmeno ravvivato da scorci di Parigi che perlopiù si limitano a piazzare la Tour Eiffel qua e là senza mai riuscire a comunicare l'atmosfera vera della città. Nel doppiaggio nostrano, poi, parlano sempre tutti italiano e di francese non si sente quasi nemmeno una parola.
Lorraine Warren (Farmiga) scheggia uno specchio - già maledetto - durante una delle tante visite col marito a case infestate. E se anche il danno non produrrà sette anni di guai, è inevitabile immaginare che, da donna incinta (di Ed/Wilson, naturalmente), Lorraine non avrà un parto facile. Le capiterà di tutto, infatti, pure di vedere mostri appesi alle pareti mentre è lì a urlare quando le dicono di spingere. La bimba nascerà, a quanto pare morta; o così almeno giudicherà superficialmente il medico, perché invece quando...Leggi tutto Lorraine la prenderà in braccio... eccola riprendere vita. Bislacco, quanto meno, ma ai Warren succede un po' di tutto da sempre, per cui...
Lo specchio crepato, intanto, viene regalato a una giovane cresimanda dai nonni e, fin da subito, fa intuire che recherà con sé disgrazie di ogni tipo. Anche gettarlo via con la spezzatura non è detto che basti. Come potrà quello specchio ritornare in contatto coi Warren? Semplice, attraverso Padre Gordon (Coulter), frequentatore dei due coniugi “acchiappafantasmi” (come qualcuno scherzosamente li definisce, visto che siamo in pieni Ottanta) e pure della sfortunata famiglia Smurl, ai quali lo specchio è finito in dono. I Warren, però, hanno deciso di ritirarsi, dopo centinaia di casi affrontati; si dedicano ormai solo a incontri e convegni durante i quali raccontare le proprie macabre esperienze. Epperò tira la giacchetta di qua, tirala di là, i nostri ritorneranno in ballo per risolvere il dramma dello specchio maledetto, e questa volta la lotta sarà davvero senza quartiere. Anche troppo, considerato che lo scontro finale con le entità demoniache si rivelerà veramente interminabile e solo a un primo esame relazionabile al genere di riferimento. Pare quasi più un western, combattuto a sprangate tra macerie, porte che sbattono, gente che urla, sangue, fughe e chi più ne ha più ne metta.
Va bene che la saga non è mai stata accostabile all'horror solo suggerito, a quello psicologico o delicatamente ricamato, ma qui si esagera; dimenticando che, insomma, l'atmosfera qualcosa dovrebbe ancora contare. Nella prima parte, a dire il vero, sembrava che si volesse percorrere la strada che già discreti frutti aveva dato nel capitolo precedente, sempre diretto da Chaves; ma quello aveva un occhio più puntato alla patina rilucente che, qui, una fotografia meno scintillante non garantisce allo stesso modo. E anche la presenza molto più ingombrante che in precedenza di Judy (Tomlinson), la figlia dei Warren e medium a sua volta, non sembra aggiungere granché: cresciuta, è alle prese con il fidanzato ex poliziotto (Hardy) che ci tiene a fare bella figura con coloro che dovranno nelle sue intenzioni essere i futuri suoceri. “Avrai capito che non siamo proprio una famiglia normale”, gli dice Ed, e il povero ragazzo non impiegherà molto per arrivare a comprenderlo.
La professionalità con cui l'operazione è condotta è quella di sempre, ma la storia è fiacca e poco degna di apparire come il "rito finale" di una saga tanto influente, conclusa oltretutto con la solita coda romantica nella quale Ed e Lorraine ci mostrano quanto si amino e il loro legame sembri fatto per durare in eterno. Baci, abbracci, corse in moto nelle campagne mentre Van Morrison canta la suadente "Comfort You": pare quasi la parodia di una rom com...
La componente horror è affidata ai soliti jumpscare, associati a qualche discreta idea spaventevole (il filo del telefono che scompare in una porta sul buio, quello elettrico che si fa corda per una tragica impiccagione...) e a suoni e rumori in crescendo quando ci si avvicina allo spavento, mentre la colonna sonora si preoccupa principalmente di sottolineare l'ambientazione eighties con Howard Jones (“Things Can Only Get Better”), i Cult (“She Sells Sanctuary”), David Bowie (“Let's Dance”)... Nella stessa direzione è da registrare la presenza di vhs (pure utilizzate in un video "rivelatore") e musicassette.
Lo si intuiva già in PIOVE, che il pugliese Paolo Strippoli avrebbe continuato a imporsi con uno stile personale, virtù appannaggio di pochi. Scelto l'orrore (più psicologico che grafico) come ambito in cui esprimere al meglio la propria arte, il regista trova nel grigio plumbeo delle montagne friulane il clima ideale in cui immergere la sua nuova storia di paura e mistero. E lo fa studiando con cura le location (siamo a Tarvisio e dintorni, anche se la cittadina immaginaria prende il nome di Remis), individuandone alcune...Leggi tutto di ideali che inquadra con il talento di chi ben conosce il mestiere e sa come valorizzarle, in una luce cupissima che la fotografia stinge fin quasi fino ad annullare ogni barlume solare. Nulla di nuovo in questo. Né nella storia, a dire il vero, che attinge da fonti eccellenti e mescola qualcosa dello straniero che raggiunge terre di imperscrutabili culti pagani in WICKER MAN a quelle comunità apparentemente amiche ma invece sotterraneamente ostili (se non le segui) che rimandano alle mogli di Stepford o alle vette gemelle.
Sergio Rossetti (Riondino) si introduce nel mondo a parte di Remis da "straniero" ignaro, alieno, turbato da foschi pensieri derivati dalla morte di suo figlio. Preda di crisi improvvise, attacchi d'ira, pianti, è stato assunto, lui ex campione di judo, come nuovo insegnante di educazione fisica nel liceo cittadino. Il primo impatto non è dei più rosei: attacca senza un vero motivo i suoi alunni, si mostra intransigente, burbero, e quando incontra Matteo Corbin (Feltri) son dolori, per il ragazzo: esentato dalle lezioni, viene ugualmente messo in fila da Sergio con gli altri. Ma lui è diverso, e ce lo ricorda più di una volta Mia Martini con "Almeno tu nell'universo", regolarmente tagliata al momento del fatidico ritornello, che chiunque sa come completare comprendendo di conseguenza il palese riferimento.
Matteo è l'angelo di Remis; lo chiamano così perché possiede un potere inimmaginabile: quando lo abbracci, ogni tuo dolore interno svanisce. Se ne accorge anche Sergio, il quale verrà una notte accompagnato da Michela (Maggiora Vergano) nella strana "chiesa" locale, un edificio a facciata triangolare (location suggestiva, soprattutto nelle sue forme esterne) in cui il padre di Matteo, Mauro (Pierobon), accoglie e mette in fila tutti coloro che necessitano dell'abbraccio di suo figlio. I prescelti entrano e, al cospetto anche di Don Attilio (Citran), avvicinano "l'angelo" stringendosi forte a lui. Sergio non ci può credere ma è vero: riacquista pure lui il buonumore, perfino la capacità di scherzare come un tempo. Ma chi è davvero Matteo? Cosa nasconde il suo passato? Perché è costretto dal padre a sottoporsi costantemente agli abbracci di tutti gli sfortunati del paese?
Da uno spunto in fondo semplice, dalle tinte nere polanskiane, un film tutto giocato sulle pause e i silenzi, riempiti da una colonna sonora di grande fascino (di Bisozzi e Tomat), delicata, inquietante al punto giusto e calzante. Tecnicamente il film ha punte pregevolissime, momenti in cui si coglie appieno la voglia di percorrere strade nuove e coraggiose; però frequentemente s'inceppa, si autocompiace di scene prolungate senza un vero motivo alla ricerca di un'autorialità ad ogni costo che finisce col danneggiare pesantemente il risultato. Smarrendosi tra le troppe ambizioni di un cinema italiano che di rado, in questi casi, accetta di fare i conti con il pubblico. In questo Strippoli si avvicina allo spirito dei fratelli D'Inncocenzo: grandi qualità, tecnica e senso del cinema eccellenti penalizzati spesso da un ermetismo eccessivo.
Qui le due ore e più si sentono tutte e si ingrana troppo tardi, confidando in una seconda parte che finalmente accelera e ti trascina nel vortice oscuro, ma che esplode davvero solo nell'ultima mezz'ora. Senza che peraltro si raggiungano vette eclatanti. I personaggi, esclusi il protagonista e il giovane Angelo con i suoi turbamenti, entrambi ben delineati, vivono soprattutto grazie alla bravura degli attori (il solito impeccabile Citran, sovrano del cinema a Nordest, ma il migliore è Pierobon), mentre certi espedienti lasciano il tempo che trovano (inquadrature rovesciate, grandangoli...).
Risulta meno godibile di PIOVE forse anche per un budget limitato che in questo caso più si fa sentire, restituendo una certa sensazione di povertà (nella recitazione di alcuni, nelle scenografie interne, talora nella messa in scena...). Le potenzialità di Strippoli sono evidenti e non si può dire che il film non sappia distinguersi e colpire, anche per come si rifiuta di aderire alla regola del jumpscare o dell'effetto speciale gratuito; ma una regia più ficcante, meno estatica, e una decisa accelerazione, magari sfoltendo il film dalle scene superflue, avrebbero garantito un risultato migliore.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA