Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Commedia gialla elegante e raffinata, che inizia in modo lineare prendendo spunto dal Volpone per poi diventare un abile gioco di scatole cinesi, in cui fino alla fine non sarà ben chiaro chi dice la verità. I dialoghi sono un po' prolissi ma la regia di Mankiewicz sa renderli vivaci, complice anche un ottimo gruppo di attori e attrici, con Rex Harrison amabile maestro d'inganni. Bella l'ambientazione veneziana, resa ancora più vivace dalla buona fotografia. Notevole.
Constant Girel prima di tutti riesce ad avere l'intuizione di collocare la sua macchina da presa su di un battello riuscendo così a regalarci immagini in movimento. L'effetto è sorprendente e si riesce ad avere una panoramica bellissima e interessantissima del Reno e delle sue rive. All'epoca avrà sicuramente meravigliato, ma ancora oggi riesce nell'intento di incuriosire lo spettatore, che effettua una sorta di crociera sul Reno con balcone a vista. Il corto ha un'importanza storica assoluta sia per la tecnica utilizzata sia per il tipo di contenuto. Imperdibile.
Il ritorno dei Fantastici 4 al cinema è un enorme omaggio ai classici fumetti anni '60, Marvel Comics, firmati Stan Lee e Jack Kirby, con la minaccia di Galactus, il gigantesco divoratore di mondi, che vuole mangiarsi la Terra, annunciato da una Silver Surfer donna da sgominare e con Sue e Reed che diventano genitori del piccolo Franklin. Più super-genitori e super-parenti che super-eroi, il quartetto si gloria dell'ottima performance di Vanessa Kirby e di Pedro Pascal, che ricorda un Christian de Sica giovane, nonostante i baffetti. Non male la variante femminile di Surfer.
Opera minore di Akira Kurosawa, maestosa per poesia e ispirazione. Sguardo su un Giappone dimenticato, reso vivido da colori saturi e splendenti: la vita degli ultimi. Come trait d'union della passeggiata tra le casupole, un ragazzino che crede di guidare un tram e ripete ossessivamente il suo onomatopeico "dòdeskàdén" di rotaie immaginarie. Ognuno ha abbracciato un'illusione: il progettare case col pensiero, la scelta assurda di essere gentili con chiunque, l'essere fedeli a sé, a un amore svanito, al tormento, al senso del dovere, al vizio… Elegia del precario destino umano.
La cospirazione per falsificare lo sbarco sulla luna dell'Apollo 11, da sempre cavallo di battaglia del complottismo, che ha poi trovato il suo apice in Operazione Avalanche, in questo film diventa ipotesi, drammaturgicamente plausibile, di un viaggio verso Marte confezionato in studi TV a insaputa degli stessi astronauti, destinati per la credibilità della messinscena a morire poi nell'inventato viaggio di ritorno. Un tentativo di smascherare l'asservimento dell'informazione al potere, a sua volta mascherato da thriller. Hollywoodiano per sbaglio. Non è Lumet, ma gli si avvicina.
Un esperimento audace e disturbante, che esplora il tema della morte con una crudezza spesso difficile da digerire. Sebbene la sua struttura episodica e il realismo brutale siano ammirevoli per chi cerca un cinema estremo, manca di coesione narrativa e rischia di alienare lo spettatore medio. La potenza visiva è indubbia, ma il film a tratti sembra indulgere troppo nella shock value, lasciando poco spazio a un’emozione autentica o a un messaggio più profondo.
Sono almeno un paio le ottime idee attraverso le quali Soderbergh filtra questa convenzionale storia di spettri scritta da David Koepp. In particolar modo una, articolata poi con l'arricchimento di tecniche da sempre apprezzate come il piano sequenza. L’idea è che la “presenza”, imprigionata in una casa da cui non si esce mai, diventi il nostro occhio: il punto di vista non solo privilegiato ma unico attraverso cui osservare ogni scena. In poche parole, una soggettiva dello spettro, un ribaltamento sostanziale attuato immaginando che gli occhi della macchina da presa...Leggi tutto siano quelli dell fantasma che si aggira per l'ampio appartamento al centro del film. Una visuale pesantemente deformata dall'ottica grandangolare e dal frenetico aggirarsi per gli spazi, con un movimento costante del regista chiamato a percorrere velocemente e senza sosta le scale interne e ogni stanza per mostrarci cosa vi stia avvendendo. Senza stacchi, in piani sequenza interrotti da improvvisi stop che anticipano uno o due secondi di buio.
E' attraverso il comporsi di questi frammenti di diversa durata che scopriamo come la famiglia appena trasferitasi nella casa già “abitata” dalla presenza sia composta da due assi ben precisi: da una parte la figlia Chloe (Liang) e il padre Chris (Sullivan), più “spirituali” e pacati, dall'altra il secondo figlio Tyler (Maday) e la madre Rebekah (Liu), tra loro legatissimi e decisamente più scettici, pratici e sfacciati. Chloe però ha un motivo, per essere tanto schiva e triste: le è da poco morta la migliore amica, dopo che già una ragazza che conosceva aveva fatto la stessa fine. Ce ne sarebbe abbastanza per farle saltare i nervi, ma lei trova invece conforto nell'amico (Mulholland) del fratello e non si spaventa troppo nemmeno quando la “presenza" cambia posto ai libri che lei aveva lasciato sul letto. Fin da subito la giovane si convince che il fantasma sia quello dell'amica Nadia, ma non ha alcun modo di averne certezza. Salterà presto fuori anche la solita sensitiva, immancabilmente colpita dalla forza che parrebbe risedere nella casa.
David Koepp aveva già affrontato un tema simile (ma in modo certamente meno rivoluzionario) in ECHI MORTALI, tratto da Matheson; qui lo ripropone con alcune varianti fondamentali che annullano il clima di terrore di allora per farlo confluire in una vicenda raccontata in modo più sofisticato e comprensiva di colpo di scena in coda. Non c'è però alcuna indagine, qui, volta a conoscere l'origine della presenza, e c'è soprattutto il rifiuto di sottostare a jumpscare o altri espedienti legati al cinema horror tradizionalmente inteso. Lo scopo non è affatto quello di spaventare ma di favorire lo studio psicologico (per quanto relativo) dei caratteri, lasciando che il film confluisca in direzione di un dramma dalle connotazioni sovrannaturali, magari un po' prolisso in alcune parti riguardanti Chloe ma efficace, tanto singolare nella forma e nello stile da farci sorvolare su incongruenze e difetti.
Appresa la lezione impartita da tanti classici precedenti, Soderbergh la pone al servizio di un progetto che punta a colpire in modo diverso, impedendo alla macchina da presa di uscire dalla casa perché prigioniera come lo spettro che rappresenta: quando l'azione si svolge sul balcone o nelle immediate vicinanze dell'edificio, il punto di vista non oltrepassa mai il confine posto dalle finestre, con l'immedesimazione nel fantasma che si concretizza in un continuo ronzare claustrofobico e impazzito tra i diversi ambienti interni.
Chi guarda “in macchina” significa che avverte la “presenza”, ma altrimenti l'avvicinamento anche estremo ai protagonisti non porta a contatti di sorta. L'intervento sugli oggetti è limitato, perlopiù figlio della disperazione di un fantasma che non sa come reagire in altro modo, quando vorrebbe cambiare le cose. I dialoghi avrebbero potuto essere più incisivi, la storia forse meno elementare, ma l'approccio è originale, la regia di valore e il risultato, quantunque imperfetto, si farà ricordare e un suo piccolo posto nella storia del genere se lo guadagnerà.
Ormai, soprattutto negli slasher, sequel e remake tendono a sovrapporsi: certo, questo SO COSA HAI FATTO cita apertamente il film del 1997 fino a richiamarne i due sopravvissuti e la "star" Sarah Michel Gellar per un cameo “onirico”, ma di fatto ne è nel contempo un chiaro remake, dal momento che la situazione che viene a crearsi è identica a quella di allora e il meccanismo pure.
Siamo da principio alla festa di fidanzamento di Danica (Cline) e Teddy (Withers), alla quale è stata invitata...Leggi tutto la migliore amica di lei, Ava (Wonders), e pure il ragazzo col quale quest'ultima stava ai tempi del liceo, Milo (Hauer-King). Da allora è passato qualche anno, ma ancora i ricordi sono vividi, tanto che quando alla festa i protagonisti incrociano Stevie (Pidgeon), una loro ex compagna con la quale poco avevano legato, la invitano a festeggiare insieme il 4 luglio andando sulla strada lungo il mare a godersi i fuochi artificiali. Poi una “canna” di troppo e Teddy comincia a fare lo scemo, a mettersi in mezzo alla strada, a “sfidare” gli automobilisti che passano fino a quando uno di loro, per schivarlo, perde il controllo e finisce giù dal precipizio, sugli scogli. Andare fino a laggiù a vedere che fine abbia fatto è impossibile, ma almeno si chiama la Polizia, che infatti arriva e può solo constatare il disastro.
I cinque si guardano bene dall'ammettere qualsiasi tipo di responsabilità e si ritrovano insieme un anno dopo al matrimonio di Danica, che nel frattempo ha cambiato partner. Tra i regali scartati ce ne è uno inquietante: un bigliettino anonimo sul quale sta scritto ciò che tutti immaginiamo: "I know what you did last summer" ("So cosa hai fatto l'estate scorsa"). I sospetti corrono subito a Teddy, non presente alla festa e che tutti pensano abbia il dente avvelenato per essere stato lasciato. Ma è davvero tutto così semplice? Ovviamente no, e intanto fa capolino un killer che veste come quello del 1997: impermeabile da pescatore, cappellaccio largo e in mano un uncino con cui sventrare le sue vittime. La mattanza prende ufficialmente l'avvio, costringendo il gruppo di ragazzi a contattare Julie James (Love Hewitt), che da un assassino vestito allo stesso modo si era al tempo salvata. E non molto bisogna aspettare perché ricompaia pure Ray Bronson (Prinze jr.), l'altro sopravvissuto. Poco tuttavia i due possono fare per impedire il nuovo massacro...
Formula immutata con la regista Jennifer Kaytin Robinson, anche coautrice dello script con Sam Lansky e Leah McKendrick, che replica senza gran fantasia soprattutto negli omicidi, tutti tendenzialmente identici e mancanti del necessario tasso di splatter. E se si elimina il gusto di veder sprizzare un po' di sangue, in uno slasher, cosa resta? Giusto il colpo di scena in stile whodunit, che occupa l'ultima parte dando una parvenza da thriller classico - che non dispiace - al film. Con una recitazione accettabile dell'intero cast i danni sono limitati, ma certo le situazioni in cui i nostri vengono a trovarsi sanno decisamente troppo di già visto, con l'inserimento dell'immancabile influencer estroversa e invadente esaltata all'idea di riprendere per il suo blog i veri luoghi a Southport dove si era verificato il precedente massacro.
Le dinamiche tra i personaggi funzionano a fatica, i depistaggi sono puerili e pure il killer sembra più goffo del previsto. Qualche discreta sequenza non manca, l'interazione tra passato e presente è elementare ma mantenuta con coerenza, mentre la Gellar “ammazzavampiri” si fa rivedere solo in un incubo di Danica per un paio di minuti, il tempo di sanguinare un po' in faccia. In definitiva un'operazione superflua e mai intrigante, con un paio di jumpscare telefonati e la stanca riproposizione di un canovaccio ampiamente anticipabile anche da chi non avesse visto il modello targato Williamson (che già non era proprio un granché, nonostante successo e sequel). E poi non si può vedere oggi, in uno slasher, un attacco alle spalle reso visivamente solo con lo schizzo di sangue su di un monitor...
Viaggio nel Mississippi di metà Anni Sessanta, quando ancora la condizione di Stato fortemente ostile all'integrazione razziale creava contrasti sociali insanabili. Tre attivisti per i diritti civili (due ebrei e un nero) vengono uccisi nella loro auto da alcuni poliziotti e nessuno (tranne gli autori del delitto, ovviamente) sa che fine i poveretti abbiano fatto. Per capirlo l'FBI spedisce sul posto due agenti diversissimi: da una parte il progressista Alan Ward (Dafoe), convinto di poter combattere il cancro del razzismo senza doversi mai porre sullo stesso livello d'inciviltà,...Leggi tutto dall'altra il più sbrigativo Ruper Anderson (Hackman), di tutt'altro avviso. Sorprendentemente è nel loro contrasto che il film trova alcune delle scene migliori, in una tensione che spesso esplode in conflitti aperti, benché combattano entrambi dalla stessa parte.
Anderson è originario del Mississippi, conosce quella gente ed è convinto di saperla trattare molto meglio del giovane agente che gli è superiore in grado, ma intanto il gruppo di poliziotti locali - spalleggiati da autorità che la vedono come loro (il sindaco interpretato da L. Ree Ermey, ad esempio) - fa il brutto e il cattivo tempo minacciando e attaccando i neri in modo che non si azzardino anche solo a pensare di dire qualcosa. Ma forse c'è un altro anello debole nella catena dei killer, ed è la moglie (McDormand) del vicesceriffo (Dourif), che ha testimoniato di essere stata con lui a casa, la sera del delitto, ma che i due agenti federali ritengono non abbia detto la verità.
In un crescendo di violenze e soprusi e nel vergognoso silenzio complice delle autorità, Ward e Anderson (che fanno dragare un'intera palude da centinaia di uomini chiamati lì per ritrovare i corpi dei tre attivisti scomparsi) cercano di elaborare una strategia che arrivi a incastrare i colpevoli.
Incorniciato dalla fotografia straordinaria di Peter Biziou (giustamente premiata con l'unico Oscar guadagnato dal film, ma era l'anno di RAIN MAN) e dominato da un Gene Hackman sornione, ironico, a tratti selvaggiamente infuriato che è un vero spettacolo (Hoffman gli soffiò l'Oscar ma l'avrebbe sicuramente meritato pure lui), il film di Alan Parker è una cupa avventura vissuta con grande prevalenza di esterni, recitata magistralmente da un cast folto di nomi che avrebbero fatto strada (Dafoe, la McDormand, Rooker, Dourif) e diretta da un Alan Parker che lavora benissimo sulle immagini finalizzando al meglio il lavoro di una troupe impeccabile. Se i neri sembrano troppo arrendevoli è perché si capisce come non abbiano i mezzi per ribellarsi, chiusi da un'indecisione di fondo che impedisce loro di schierarsi con maggiore decisione dalla parte dei due agenti dell'FBI, lì con il chiaro obiettivo di difenderli. La sceneggiatura di Chris Gerolmo ha ottime frecce al proprio arco e la storia procede senza incagli, arrivando alle due ore senza che se ne avverta la pesantezza. Un lavoro di grande impatto, dirompente nel messaggio e originale nel rapporto che lega i due protagonisti.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA