Il film ha fatto di Brando un'icona di duro biker di poche parole e ancor meno sorrisi, ma amato dalle donne, che precede i "giovani arrabbiati" dei futuri film americani. La storia (che prende spunto da un fatto reale del 1947) si svolge in un paese californiano messo a soqquadro dalle scatenate bande di motociclisti di Johnny (Brando) e Chino (Marvin). Un drammone per l'epoca in cui è stato girato, abbastanza datato per una visione odierna, ma sempre interessante per capire, una volta di più le mentalità, di un paese libero quale l'America.
MEMORABILE: La corsa in moto di Johnny di notte (le false notti che si giravano di giorno con l'uso di filtri) con la figlia dello sceriffo che lui salva dal branco.
Tranquillo villaggio è sconvolto da una banda di mototeppisti. Il loro capo, in una marmorea ma fascinosa interpretazione di Brando, è un bullo incapace di sentimenti, con i quali dovrà confrontarsi senza riuscire a comprenderli. E' in questa analisi psicologica l'aspetto più approfondito del film, dove lui che non sa essere altro che un'icona di sé sfiora lei che sogna senza speranza un'altra sé. L'aspetto più evidente (e di successo) è invece la vorticosa giostra dei bikers ribelli in pelle, destinata a trasformare il film in un cult.
Ovviamente va contestualizzato, perché agli occhi di oggi il bullo "Johnny" Brando rischia di non sembrare più così pericoloso (complice anche una traduzione italiana comicamente letteraria nel doppiaggio d'epoca). In fondo sarebbe solo uno dei tanti (buoni) melodrammi della Hollywood anni '50, se non fosse per il valore aggiunto iconografico-documentario. A colpire di più in tal senso è come nel dopoguerra gli USA potevano permetersi il "lusso" di avere il problema della delinquenza giovanile.
MEMORABILE: Lo scontro con Lee Marvin per il trofeo rubato.
Nel 54 in Italia i giubbotti in pelle e le bande di motociclisti erano davvero un qualcosa di distante e moderno, che spiega il perché del mito americano, al quale oggi siamo assuefatti. Grande Marlon Brando nel ruolo del ragazzo ribelle, ombroso e direi triste, con la sua banda di ragazzacci ribelli e rumorosi, in una ambientazione quasi da western in un piccolo villaggio in legno. Notevole pure la sequesnza con Brando che porta la ragazza con la moto nel viale alberato, dove poi dimostrerà rabbia ma anche fragilità davanti ad una donna.
Se è vero che all'epoca fu presumibilmente qualcosa di nuovo (si parla di bande di bikers e siamo nel '54), è altrettanto vero che come film è invecchiato proprio male, tanto che se togliamo il carisma naturale di Brando, per il resto potrebbe essere un qualsiasi film di mestiere dell'epoca. Con tutta la buona volontà non riesco a prendere come "minacciosi" dei simpatici scavezzacolli giusto un po' vivaci (ai giorni nostri si vede di peggio all'oratorio) e di conseguenza tutta l'atmosfera va a farsi benedire. Non il "classico" che mi aspettavo.
Pellicola più iconica che profonda, più figurativa (i mitici giubbotti di pelle e le corse in moto) che attenta ai risvolti psicologici e comportamentali; appare anche non troppo incisiva quando contrappone la mentalità perbenista (ma dagli ideali invero bruti e retrogradi) al biker rozzo e strafottente (ma che all’interno conserva un animo nobile). Rimane un lavoro stilisticamente curato, un melodramma dal carattere duro come il protagonista Johnny: solo in un America dove chi prova sentimenti è costretto a subirne le amare conseguenze.
Sorprende il ribaltamento di prospettiva che vede l'insorgere della violenza dal perbenismo borghese frizionato dal vitalismo dei motociclisti. Oltre la netta allegoria sociale, sorge il classico melodramma di aspirazioni frustrate e sentimenti non riconosciuti. Ma il motivo di maggior interesse rimane la componente grafica, le ciurme di bikers in corsa sulle strade assolate, i giubbotti in pelle e i jeans sgualciti, l'erotismo tangibile di Brando e le notti selvagge che hanno infiammato interi immaginari (i più eclatanti: Corman, Tom of Finland, Verhoeven, Bigelow e Twin Peaks). Iconico.
Non tanto selvaggio quanto inquieto, un cowboy motorizzato errate che dietro il look aggressivo cela uno spirito malinconico. Già ad inizio carriera Brando aveva mostrato le sue doti d'attore: in questo ruolo iconico, all'interno di una trama dal sapore western, non gli viene chiesto di recitare ma solo di mostrarsi, bello come un angelo caduto fasciato di pelle nera, capace di ipnotizzare lo sguardo ad oltre 70 anni dalla prima apparizione, anche se la banda di giovani delinquenti di cui è il capo suscita più compatimento che inquietudine nello spettatore odierno abituato a ben altro.
Pellicola che si ricorda certo più per i personaggi che per la.storia. Brando interpreta un ruolo che a suo modo diventerà iconico, come il Tony Manero di Travolta: un centauro in giubbotto di pelle e jeans (look ancora impensabile in Italia) che con la sua gang va in giro a cercare guai. E li trova, in un paesino ove però incrocia anche una ragazza, nata e cresciuta dietro il banco di un bar, che non sa nulla del mondo.che lui vorrebbe mostrarle. Indimenticabile, pur se amaro, l'unico sorriso di Brando nel finale.
Sembra incredibile che questo film sia stato vietato per tanto tempo in Gran Bretagna, dove temevano un danno d'immagine per il marchio Triumph. Ciò che accade nel film sembra ben poca cosa, d'altronde la sceneggiatura si rifà a eventi accaduti realmente e ben poco rilevanti come fatti di cronaca. Si tratta lo stesso di un buon film perché Marlon Brando, nel dialogo con la ragazza al bar, mette l'accento su ciò che ha sempre caratterizzato chi si mette alla guida di una moto: la sensazione di libertà, di evasione. "Non si va in nessun posto, si va e via. L'importante è scappare".
Uno dei film che ha costruito la mitologia di Marlon Brando, qui motociclista anaffettivo che deve confrontarsi con sentimenti mai provati fino a quel momento. E' evidente l'importanza della sua presenza fisica, qui veramente debordante. La storia è molto semplice e quasi semplicistica, le situazioni da western moderno non erano originali neanche all'epoca ma la sua presenza iconica salva il film.
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Marvin all'epoca non sapeva andare in motocicletta ma, per non risultare inferiore a Brando, decise di prendere lezioni, tanto che alla fine poté partecipare ad alcune competizioni.
La banda di Marlon Brando è ben distinguibile da quella di Lee Marvin per il logo di appartenza dietro i giubotti di pelle: il simbolo del teschio con i pistoni con l'acronimo B.R.M.C. (tradotto in italiano alla meno peggio in "Banda Ribelle MotoCiclistica").
Oltre quarant'anni dopo, il nome della gang ha ispirato quello dell'omonima rock-band californiana: Black Rebel Motorcycle Club