Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Opera di raro rigore poetico e pulsante, in cui Ermanno Olmi cesella ogni inquadratura con eleganza misurata e intensità emotiva. Una Parigi livida e malinconica, lontana da ogni oleografia, avvolge e accompagna il pellegrinaggio interiore di Andreas Kartack, senzatetto interpretato da Hauer, mosso da un incrollabile desiderio di restituire un prestito ricevuto. Ma il suo proposito, ostacolato da imprevisti quasi kafkiani, si trasforma in un cammino di redenzione, attraversato da una dimensione religiosa che impregna ogni gesto e amplificato dalla fotografia crepuscolare di Spinotti.
Il primo film di fantascienza italiano si approccia al genere con argomenti tipicamente hollywoodiani (la missione lunare, la terra minacciata da una pioggia di meteoriti, le grandi potenze che si alleano per scongiurare la catastrofe), ma con risorse molto più limitate, che costringono l'esordiente regista (e Mario Bava alla fotografia) a fare ampio uso di immagini di repertorio. Piace però la serietà con cui viene trattata la materia e si respira anche una discreta tensione, malgrado la prevedibilità del finale. Cast senza infamia e senza lode, non male le musiche di Rustichelli.
Simpatico prodotto da drive-in che combina il revenge-movie adolescenziale con gli extraterrestri. Il classico fucile d'assalto scolastico viene infatti sostituito da un’arma laser aliena. Trama che spesso dimentica la logica, a partire dal vendicatore: troppo fusto per essere un perseguitato plausibile (calcolando che tra i bulli c’è Eddie Deezen!). Effetti speciali da discount, ma si apprezza comunque il buon stop-motion che, oltre che essere sempre più credibile dei costumi in gommapiuma, richiede una certa tecnica. Interessante la polizia cafona già un po’ Hazzard.
Operazione meramente commerciale per attirare un pubblico che, a suo tempo, si divertì con il film del 1988. Qui il divertimento è ridotto ai minimi termini: si ride poco e a denti stretti, con battute poco felici. E vogliamo parlare della differenza tra un attore comico di razza com'era Nielsen e di uno come Neeson (portato naturalmente per pellicole d’azione), incapace di far sollazzare? Alla fine non prende un voto eccessivamente negativo in quanto il film ha perlomeno la bontà di durare poco, ma il risultato finale è comunque al di sotto della mediocrità.
Film che compone il mosaico rubacchiando qua e là idee altrui. Dopo un primo delitto fin troppo solare e puerile, ingrana incupendo le atmosfere e trasformandosi in un simpatico giocattolo con pupazzi e manichini da luna park. Il suo fine pare infatti proprio quello di spaventare e divertire nello stesso momento. Nonostante qualche scivolone nel trash e un generale caos nella direzione, conserva comunque una certa dignità. Stupende Robin Sherwood, purtroppo tolta alla gioia degli occhi troppo presto e Tanya Roberts in hot pants alla Daisy Duke.
Una ordinaria, tra virgolette, storia di caccia a un omicida seriale si tramuta in riflessione sull'eutanasia, magari un po' in anticipo sui tempi. La prima parte del film è ben riuscita, con felice accostamento tra il sensitivo inizialmente riottoso (sarebbe una gradita novità se qualcuno accettasse subito senza perdere tempo) e l'altrettanto riottosa - alla sua compagnia - poliziotta. Poi però ci si avvicina dalle parti dello scontro tra superdotati e l'atmosfera che s'era creata svanisce. Nessuno che abbia avuto la premonizione che la strada presa non era quella giusta, peccato.
Un Aronofski meno esplosivo del previsto per un noir a tinte pulp che rimesta nel gran calderone del genere per uscirne con un film nella media, percorso da una certa scossa d'imprevedibilità in alcune circostanze ma privo di quell'inventiva che permette ai migliori di emergere, per di più con l'inserimento di un gatto che sa tanto di espediente ruffiano per accontentare chi ama le deliziose creature e s'intenerisce non appena le vede.
Nel porre al centro della vicenda una ex promessa del baseball che ama l'alcol e i San Francisco Giants, il regista sceglie...Leggi tutto un protagonista dall'aria sufficientemente innocente ma con qualche ombra nel proprio passato (che riemerge costante in un flashback al ritmo di “Rock You Like A Hurricane” degli Scorpions, in cui vediamo la sua auto schiantarsi causando la morte del ragazzo che sedeva accanto a lui); né forte né debole, né furbo né scemo, perfetto esempio di giovane nel quale è facile identificarsi e che si ritrova in un ginepraio dal quale non sa come districarsi. Hank, interpretato con corretto spaesamento da Austin Butler, ha una ragazza (Kravitz) che ama ma che non riesce a sopportare l'idea di non vedergli mettere la testa a posto. D'altra parte lavora in un bar, vive alla giornata e ha la casa stipata di bottiglie di alcolici. Ha anche un vicino inglese con tanto di cresta punk, Russ (Smith) il quale, prima di partire per Londra ad assistere il padre malato, gli chiede di badare per qualche giorno al suo gatto. Il problema è un altro, però: Russ si porta dietro la mafia russa, che lo cerca e per sapere dove quello sia finito intanto prende a calci chi sta in casa sua, ovvero il povero Hank.
Sarà solo l'inizio di una serie di attacchi che costringeranno il giovane a fuggire, a rivolgersi alla polizia dove lo ascolterà la detective Roman (King), a ripararsi da chi pretende che gli si dica dove avrebbe nascosto una certa chiave. Non è neanche così importante ciò a cui quella chiave serva, perché il film si sostanzia in un action triller a base noir in cui ciò che conta è muovere il protagonista tra le strade della New York del 1998, anno in cui è ambientata la vicenda: luoghi ai margini come Coney Island o Flushing Meadows, le due torri gemelle a richiamare un'epoca passata ma che non appare poi così dissimile da quella attuale, le strade e i vicoli di una città comunque mai ripresa nei suoi scorci più riconoscibili. E lì in mezzo Hank, chiaramente in difficoltà nel combattere contro nemici troppo più grandi di lui.
Se Aronofski non esagera con inquadrature virtuosistiche o abusando di quegli stacchi di montaggio che avevano caratterizzato certi suoi esordi, si affida però molto, per dare un'impronta personale al film, all'ottima colonna sonora di Rob Simonsen, ricca di percussioni e fraseggi sincopati che, sparati ad alto volume, lasciano un segno indelebile, pompando induscutibilmente ritmo in sequenze altrimenti un po' anemiche. Per il resto si limita a rielaborare un genere in declino da tempo accontentandosi di dare forma godibile a una sceneggiatura piuttosto impalpabile, all'interno della quale i saltuari tocchi ironici ovviamente rappresentano la componente chiave, fin dai tempi in cui Tarantino aveva saputo elevare il pulp ad arte pura. In questo senso si può leggere la presenza dei due rabbini killer interpretati da Liev Schreiber e Vincent D'Onofrio, figure sopra le righe e macchiettistiche, forse uniche in grado di caratterizzare in qualche modo il film; piuttosto debole, infatti, la prova di Austin Butler, spesso oscurato da chi sta in scena con lui (a cominciare da Zoë Kravitz).
Ininfluente quanto ingombrante la presenza del gattone che morde, inevitabili gli spargimenti di sangue, il timido accenno alla tortura e certe minacce sopra le righe. Imprevista l'apparizione nel finale di Laura Dern come madre di Hank, che fin lì avevamo sentito solo via telefono gioire con il figlio dei successi degli amati Giants. Qua e là ottimi sprazzi di cinema, a ricordarci quanto Aronofski non sia un regista qualunque.
La boxe da sempre al cinema si sposa con gli ambienti degradati, la periferia, l'ansia di emergere da una realtà disgraziata. GHIACCIO (il cui titolo fa riferimento a una nota pratica usata dai pugili per lenire il dolore alle mani, immergendole appunto in una bacinella colma di cubetti) si riaggancia a temi che ben si sposano a quella romanità che ormai da anni su grande schermo, quando c'è da raccontare storie di emarginazione, malavita, scommesse, è humus ideale.
Non c'è davvero nulla di nuovo nel copione scritto dal cantautore Fabrizio Moro...Leggi tutto insieme ad Alessio De Leonardis, autori anche (da esordienti) della regia, e quindi nemmeno nei due personaggi principali, il giovane pugile Giorgio Orsini (Ferrara) e il suo allenatore, Massimo (Marchioni). Quest'ultimo cerca nell'allievo quelle rivincite che la carriera gli ha negato: sa di avere in mano un buon talento, ma va sgrezzato; perché Massimo è indolente, sprezzante, ha mille pensieri a cominciare da una madre oppressa dai creditori del marito ucciso. Quando incontra Floriana (Cardinaletti) qualcosa in lui cambia, mentre all'orizzonte inizia a profilarsi il match che - come da tradizione del genere - dovrà occupare l'ultima parte portando sul ring la giovane promessa. L'avversario, Santo Gerani detto "Lo Zingaro" (Aversano), non pare dei più abbordabili, ma Massimo sa come caricare il suo pugile ed elargirà ovvi insegnamenti con l'obiettivo di risvegliare la scarsa concentrazione di Giorgio (detto Giò, che pare Joe ma è il semplice diminutivo romano di Giorgio).
Un'inattesa richiesta di "Pisciasotto" (Camilli), il boss del quartiere, rischia però di compromettere seriamente le mire di Giorgio, e da lì in avanti il film troverà gli spunti giusti che prima mancavano per incuriosire, sviluppandosi fino a convergere nel match con lo Zingaro, girato piuttosto bene. Senza dover ricorrere alla spettacolarità e alle esagerazioni di ROCKY, i due registi dimostrano di saper riprendere l'incontro con bravura, assistiti dai due pugili, che non lasciano troppo intuire l'artificiosità dei colpi. La tensione in questo modo sale, mantenendosi su buoni livelli fino all'amaro epilogo e riscattando parzialmente un film a lungo adagiato in una descrizione di maniera della periferia romana, con Ferrara fin troppo chiuso nel suo mutismo e Marchioni, cui spetta invece dare una fisionomia più solida al proprio personaggio.
Mescolando l'ambiente della boxe a quello romano si finisce nel moderno neorealismo più tipico, in cui gli attori si mangiano parole che, talora storpiate dal dialetto, finiscono spesso per perdersi nell'incomprensione. La felpa di Totti senza una delle tre "T" diventa uno dei pochi elementi riconoscibili, mentre non ci si eleva dalla media nella descrizione delle figure femminili, tendenzialmente marginali anche rispetto ai criminali che spacciano e allungano la loro ombra sul futuro di Giorgio. Di qualità invece la colonna sonora dello stesso Moro, perlopiù a base pianistica (notevole l'accompagnamento quasi tribale all'entrata sul ring dei due contendenti), con il brano "Sei tu" cantato sui titoli di coda a renderne riconoscibile l'autore. Da non confondere con l' "E tu" di Baglioni cantata in maniera terribilmente stonata da Marchioni per riconquistare con una serenata la sua bella. Un film corretto, discretamente diretto ma incisivo solo nell'ultima parte.
Le commedie francesi con Christian Clavier tendono a far perno su di lui curandosi ben poco del resto e questa non fa eccezione: un copione logoro in cui l’ottimo francese recita nel ruolo del nuovo compagno di una donna divorziata, Carole (Seigner). Il marito l’ha lasciata per una più giovane e popputa, lei ha trovato in Philippe l’uomo che cercava. Podologo, legato ai suoi tempi e stagionatello, non proprio con l’aria del vincente, Philippe ha difficoltà a piacere ai figli di lei, Julien (Buchsbaum) e la tredicenne Manon (Groyne), tipici adolescenti maleducati...Leggi tutto che pensano solo al cellulare e ai loro amici. Sua è però l’idea per convincere Julien a impegnarsi di più a scuola: fatti promuovere e scegli tu dove andare in vacanza. Detto fatto, e la meta sarà Ibiza, dove il ragazzo spera di ritrovare una coetanea per cui aveva preso una cotta.
Philippe non immaginava di finire coinvolto nel viaggio, ma Carole lo convince e allora eccoli tutti e quattro sulla più viziosa delle Baleari: Ibiza è sole, mare, droga, alcol e discoteche, l’ideale per dare luogo a equivoci ed eccessi. L’impatto, in aeroporto, fa già capire tutto a Philippe: un tizio gli si avvicina chiedendo se sta cercando cocaina, e non sarà l’ultimo. Noleggiato un Hummer, il gruppo raggiunge il grande albergo con piscina dove alloggerà per una vacanza all’insegna del divertimento. Almeno per la generazione in avanti con gli anni, perché invece i due giovani sono come da regola insoddisfatti, scontrosi, palesemente insofferenti nei confronti del povero Philippe, che cerca costantemente di stabilire con loro un minimo di complicità.
Inevitabile che spesso le strade dei due gruppi si dividano, con i grandi agganciati quasi subito da un vecchio amico di mamma diventato lì deejay di successo (Starr). Sarà lui a trascinarli prima a folleggiare in discoteca e poi sulla sua barca, diretta alla vicina Formentera. Non che succeda molto, a bordo, al di là dei prevedibili rimbrotti di lei nel vedere come lui butti troppo l’occhio sulle due avvenenti ospiti sudamericane dell’imbarcazione.
Sballottato in un mondo che non conosce e che crede di poter affrontare senza problemi, Philippe è chiaramente il centro della vicenda, che di tanto in tanto devia fugacemente sui due adolescenti giusto per variare un po’ il registro. Ma le gag hanno le polveri bagnate e, nonostante i tentativi di rendere viva la storia anche attraverso qualche buon pezzo di musica (l’immortale “I Love Rock’n’Roll” di Joan Jett con cui Philippe sbanca al mixer in disco o la “Still Loving You” degli Scorpions, riproposta in ogni salsa), si ride molto poco, con personaggi nel complesso scarsamente sopportabili.
Scontatissimo e costruito senza inventiva alcuna lo scontro generazionale (con lieto fine immaginabile) e appena potabile l’incontro con la famiglia ricca e radical chic in villa, comprensivo di una scena piuttosto disgustosa e di rara volgarità tra nudismo e schizzi di cacca che colpiscono a pioggia. Certo, i paesaggi balneari sono splendidi, il mare è favoloso, gli scorci tra i vicoli di Ibiza pittoreschi, l’atmosfera di festa si respira come da previsioni... Ma la fantasia latita (fin dal titolo) e i protagonisti vengono sbattuti di qua e di là senza costrutto, da un ristorante sulla spiaggia all’albergo o a un bar, cercando di ricomporre i dissidi tra loro mentre Clavier è chiamato a fare il pesce fuor d’acqua ad oltranza, senza che la sceneggiatura gli offra battute che vadano oltre la trattenuta irritazione, l’atteggiamento di comprensione nei confronti di chi lo maltratta, il desiderio perlopiù frustrato di far vedere quanto vale. Simpatica qualche scena in aereo (Carole lo soffre), buona la performance della Seigner, anonima quella dei ragazzi… Qualche battuta va a segno, la confezione è professionale, ma lo stesso Clavier sembra tirare avanti col pilota automatico. Durata contenutissima (meno di un'ora e venti!) e scena aggiunta sui titoli di coda.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA