Non mi ha convinto granché. Certo: non è un brutto film ed alcune rappresentazioni sono interessanti. Prevale, però, sempre e comunque, il poeta, certo non il regista, perché Pasolini, tecnicamente pensando, non lo è e non è necessario essere un cineasta per accorgersene: mi chiedo come sia stato possibile assegnargli un rilevante premio cinematografico (vedi nelle Note). Il fiore delle Mille e una notte mi pare nettissimamente superiore.
Mortalmente noioso, sciatto, prolisso, scurrile e - peccato capitale - per nulla divertente. Svanite alcune intuizioni del suo cinema nel decennio precedente, che facevano passar sopra certe grossolanità tecniche, si ritorna al saggio consiglio di Fellini ("torna a scrivere che è meglio"). Orrendo. Si sottrae al giudizio, naturalmente, il bieco Hugh Griffith, attore dal volto di shakespeariana bruttezza.
Giunto al secondo capitolo della trilogia della vita Pasolini mostra di aver perso, parzialmente, lo smalto dimostrato nell’occasione precedente. Pur essendo, infatti, molto ben congegnato da un punto di vista squisitamente narrativo, il film non è sorretto da quella forza vitale e ludica che è possibile scorgere nel “Decamerone”. Ciò non impedì all’opera di essere duramente osteggiata dai ben pensanti, tanto che il film ebbe diversi problemi con la censura.
Dopo il Decameron Pasolini affronta un altro novelliere medievale, quello di Chaucer nei cui panni si raffigura al termine del film stesso. Nato per essere un gioioso inno alla vita, questo film è invece calato in un’atmosfera livida e cupa, dove il sesso è più bestiale che vitale e dove aleggia in continuazione il tema della morte. Non mancano sfizi visivi (Brueghel) e cinematografici (con un omaggio esplicito a Charlot).
Il capitolo più debole - ma non per questo scadente - della "trilogia della vita" pasoliniana, nel quale vengon spesso presi di mira - con particolare accanimento - sacri paramenti, istituzioni e personalità religiose. Pasolini si propone nei panni di Chaucer, autore al quale il regista vorrebbe guardare (ma senza riuscire a mediare con il pubblico) con cinefila trasposizione. Purtroppo però, pur essendo apprezzabile la messa in scena, rimangono impressi particolari volgari (tipo il demone gigante che evacua frati) e dialoghi decisamente audaci. Esagerati taluni giudizi critici capziosi.
Novelle tratte dai racconti dello scrittore inglese Chaucer in cui il regista che impersona lo scrittore stesso evidenzia elementi pruriginosi legati alla sessualità e all'amore. Il secondo capitolo della trilogia della vita viene narrato in maniera lievemente plumbea e infarcito di pseudo religiosità. Tuttavia il risultato è apprezzabile ed alcune novelle suscitano quella cruda ilarità che, in un certo senso, rappresenta il credo di Pasolini regista.
Dietro la macchina da presa nomi altisonanti, da Pasolini a Morricone, da Delli Colli a Ferretti. E infatti tecnicamente c'è poco da eccepire. Ma la storia non prende tanto e scivola più volte nel trivio banalizzato. Si gustano una serie di volti caricaturali (rimane impresso Griffith) ma per il resto, tra giovanotti palliducci e scenette alquanto "telefonate", c'è poco da annotare. A Berlino gli hanno voluto bene.
Rispetto al Decameron, i Racconti di Canterbury è meno ilare e goioso. Comunque si fa apprezzare molto per il tipo di poesia che solo Pasolini sa trasmettere. Doppiaggio sbagliato a Franco Citti. Bellissima l'immagine di Pasolini che sorride pensando.
Uno dei miei film pasoliniani da annoverare tra i non-preferiti. Questi piccoli racconti che si mischiano tra di loro, avendo Pasolini scelto di decurtare le scene d'introduzione a ciascuno di essi, tendono ad essere ripetitivi e un po' a sè stanti. C'è sempre una trovata geniale, una comicità "medievale" e moderna allo stesso tempo e anche il finale si distingue per la dissacrazione e la schiettezza, ma non basta. Gradisco un Pasolini regista più poetico.
Pasolini mette in scena l'opera omonima di Geoffrey Caucher (interpretato in un cameo proprio dal regista) e confeziona un film in pieno stile "decamerotico". I racconti/episodi riguardano perlopiù due temi: la morte e il sesso. Qualcuno divertente e barzellettesco, qualcuno riflessivo e talvolta surreale. Tutti comunque hanno toni ultra-grotteschi. I costumi dei borghesi sono esaltati sia nelle forme che nei colori e tutte le scenografie sono rozze e spartane ma curatissime nei minimi dettagli. Particolare l'uso di attori non professionisti.
Esigenze artistiche (e pecuniarie) spingono Pasolini e Grimaldi a forzare quelli che al tempo erano, almeno sugli schermi italici, i limiti del mostrabile. La confezione è ineccepibile, ma non è sufficiente a coinvolgere ed emozionare lo spettatore: i raccontini scioccherelli sono degni di uno dei tanti decamerotici seriali, Citti e Davoli si aggirano sperduti e fuori parte, la conclusione è raffazzonata. Assolutamente insopportabile la compiaciuta identificazione del Nostro con Chaucher. Pasolini ha fatto e riuscirà ancora a fare di meglio.
Secondo film della trilogia della vita pasoliniana che si rifà ai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer. E' lo stesso Pasolini nelle vesti di Chaucer a introdurre gli otto racconti che ci vengono presentati. I comuni denominatori sono la lussuria e la cupidigia. Ogni racconto è caratterizzato da elementi grotteschi e dal canto che ci porta in una dimensione poetica. Ci si diverte parecchio durante la visione e si riesce a comprendere anche la grandezza del regista friulano, che riesce a farsi beffe della vita in luoghi senza tempo.
Si distingue dai tanti lavori decamerotici di quel tempo (il cui unico intento era spesso mostrare situazioni pruriginose) per la messa in scena curata e l'ottima fotografia. Nobilitato dalla provenienza letteraria, coglie quasi esclusivamente la parte più pecoreccia del lavoro del poeta inglese (impersonato in modo poco convincente da Pasolini stesso). Piuttosto forte nel linguaggio (pensando all'epoca in cui è stato girato), più che nelle scene; discutibili quelle finali dove i demoni concludono con peti che sembrano essere il filo conduttore del film.
Infelicemente disorganico e privo proprio di quella "vitalità" che alcuni vorrebbero ascrivergli. Colpa, forse, degli umori nordici del modello che non si confanno alla poetica del regista, più a suo agio con le latitudini terzomondiste (meridionali, mediorientali, africane). Il film si risolve, perciò, in un collage di vignette goffamente licenziose, spesso gratuite e insidiate da quel crassume scurrile tipico delle produzioni decamerotiche del cinema basso. Notevoli alcune location.
Un film fondamentalmente poco riuscito, dalle ambientazioni - che non riescono a scatenare alcun tipo di atmosfera nordica o medievale - alla scelta degli attori, che sembra per lo più infelice se si esclude la prova di Citti nei panni del Diavolo; fuori posto anche la seppur curiosa apparizione di Pasolini nei panni del narratore. Tra i più episodi caratterizzati dalle scurrilità che fanno eco al cinema popolare, Pasolini ne inserisce altri degni di nota: il già citato episodio del Diavolo e l'ultimo, del frate truffatore all'inferno.
La splendida, fantasiosa ricostruzione storica non salva purtroppo il film dalla noia, specialmente nella parte centrale. Pasolini dirige con la solita sobrietà stilistica: moltissimi primi piani e un apprezzabile rigore geometrico nelle riprese, ma è proprio lo sviluppo delle storielle che non convince nel suo complesso. E se l'omaggio finale a Bosch è bellissimo, anche visivamente, lo stesso non si può dire del segmento chapliniano con Ninetto Davoli, che sembra quasi provenire da un altro film. Curioso il doppiaggio, ad opera quasi esclusivamente di non professionisti.
Se Il Decameron era, pur con tutti i difetti, un unicum nella messinscena dell'erotismo, il secondo capitolo della qui tutt'altro che vitale Trilogia della vita abbraccia in pieno l'atmosfera dei boccacceschi minori, con la loro immagine voyeuristica e proibita del sesso. Seppur con delle differenze: nessun decamerotico era altrettanto cupo (Shadow compreso), né altrettanto ben fotografato, né altrettanto spinto. Fiacco e volgare nei rari momenti comici, riuscitissimo nei passaggi più plumbei, che fanno emergere i primi e gli ultimi episodi rispetto a quelli - trascurabili - mediani.
MEMORABILE: Gli azzardi exploitation, ai tempi una novità per i nostri schermi: sesso etero e omo, pissing, deiezioni surrealiste alla Jodorowski.
Impeccabile dal punto di vista formale, il film è carico di poesia visiva e i tempi sono naturalmente pasoliniani, per non parlare dei modi. Gli attori semiesordienti garantiscono freschezza e ingenuità alle scene ma spesso tolgono compattezza narrativa. Certo non è un cinema che incontrerà i gusti di tutti, ma in questo caso l'artista friulano centra lo spirito vero di Chaucer, compresi gli irriverenti eccessi. Cast tecnico da standing ovation che contribuisce non poco alla creazione di un piccolo capolavoro, forse il più delicato della Trilogia. Per serate di grande cinema.
MEMORABILE: I cori che intervallano le scene con canzoni d'epoca, scelti con molta cura e filmati con grande maestria.
Dopo Boccaccio, Chaucer: questi Racconti, dopo il successo dell'anno precedente, ne sono la naturale prosecuzione. Lo schema non cambia, ma a differenza del Decameron lo stile evolve, con il linguaggio che varia da un registro alto a uno prettamente popolare. Ne scaturisce un quadretto eterogeneo, colorato e vivo, con novelle che stimolano la riflessione morale e altre in cui si sorride di gusto. Le facce sono le solite pasoliniane, ma una menzione va spesa per la Betti, perfetta comare di Bath.
Pasolini dirige a modo suo qualche novella medioevale. Le ricostruzioni ambientali sono di livello, come pure i costumi. Quando la regia si mette a far carrellate descrittive mostra tutti i suoi limiti; meglio lasciare fare agli attori, anche se in qualche frangente le vicende grossolane sono oltremodo gratuite (Davoli e dal mugnaio). Anche Citti non riesce a lasciare il segno. Le nudità sparse evitano l'effetto provocatorio, ma si capisce la censura successiva all’uscita del film (visto il tema di frati e suore). L’epilogo all’inferno è fantasioso e coraggioso come esposizione.
MEMORABILE: Il marito che riacquista la vista; Il marchio a fuoco sul sedere; I frati defecati.
Il cinema di Pasolini incontra Geoffrey Chaucer e il risultato non poteva che essere curioso, anche se non sempre felice. Il regista inserisce una componente grottesca e scandalosa ai racconti, che stavolta però sembra leggermente forzata e inserita non sempre con grande criterio. Nel complesso il film è piacevole, pur con i momenti lenti tipici di Pasolini e alcuni bozzetti sono molto interessanti. Recitazione sempre naif ma efficace, la telecamera a mano indugia su molti particolari pruriginosi. A volte divertente, a volte noioso. Per un fan, però, è d'obbligo la visione.
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Volevo segnalare l'uscita di questo titolo per la BFI inglese. Master restaurato in HD ricavato dal negativo originale. Tra gli extra un documentario di circa mezz'ora tutto in italiano con interviste ad Alfredo Bini, Luciano Martino, Piero Vivarelli ed altri.
Per la sua "trilogia della vita" (comprensiva del Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte), Pasolini ebbe la sgradevole sorpresa di trovarsi di fronte ad un folto gruppo di critici prevenuti, che lo accusavano sempre più spesso di avere tralasciato tematiche "sociali e contemporanee" in favore di storie frivole.
Ma il regista aveva un'altra concezione del trittico:
"Tutto me stesso, quello che amo e che non amo, quello che vorrei che fosse e vorrei che non fosse, è concentrato in essi." 1
NOTA1 Fonte: Pasolini Requiem, di David Barth, 1995 (pag. 852)
Rivedendo questo film in tv due giorni fa ho notato un orrore linguistico davvero insopportabile in film di questo tipo: uno dei ragazzi che invitano Davoli a giocare a dadi dice "ok". (Pensavo di essermi sbagliato e ho controllato sul mio dvd, ma non avevo sentito male). Per me è una cosa da far cadere le braccia; e già che il film non è esattamente un capolavoro...
Questo "ok" è un obbrobrio che da solo è equiparabile a tutto l'infame primo doppiaggio di Solaris (quello della Maraini).