Intervista a Davide Celli

16 Luglio 2013

 
“Un grande avvenire di attore dietro alle spalle”


Chi conosce il cinema di Pupi Avati sa che molte sue pellicole, soprattutto degli anni Ottanta, sono legate da storie differenti tra loro ma tutte parti di un filone intimistico/nostalgico. Molti gli attori diretti dal regista bolognese impiegati come valore aggiunto non solo perché possessori di facce che come si dice in gergo bucano lo schermo, ma anche perché ripetutamente serviti come veri e propri alter-ego: Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Lino Capolicchio... Molti di questi artisti, pur avendo in curriculum decine di film, trovarono quasi unicamente con Avati la retta sintonia per poter dare il meglio di sé come interpreti diventando per questo e a pieno diritto attori cosiddetti “avatiani”. A questo gruppo di importanti nomi del nostro cinema si unirono, negli anni Ottanta, altri giovani caratteristi oculatamente selezionati da Avati in ruoli variatamente da comprimari. Tra questi certamente il nome di spicco fu quello del compianto Nik Novecento, che grazie alla sua personalità sardonica/istintiva riuscì anche (e sin da subito) a trovare una vita artistica che andasse oltre alla factory di Avati (fu ripetutamente ospite al “Maurizio Costanzo Show”). Indubbiamente tuttavia crebbero nel gruppo altri interessanti attori che trovarono nella filmografia di Avati l’occasione per crearsi un “personaggio” e dunque per fornire la prova di avere più di una motivazione per essere presenti; tra questi Davide Celli: allora giovane caratterista - contraddistinto da uno spiccato accento bolognese - che recitò dal 1980 fino a primi anni Novanta, per poi dedicarsi ad altro. In questa intervista esclusiva per il “Davinotti.com” andremo a conoscerlo, tracciando cronologicamente la sua carriera di attore.


1. GLI INIZI E BALSAMUS


MARKUS: Caro Davide, ho letto nella tua biografia che hai iniziato a recitare appena dodicenne nel film “Si salvi chi vuole” (1980) di Roberto Faenza... 
DAVIDE: A dire la verità “Si salvi chi vuole” non è stato il primo film che ho interpretato. Negli anni Sessanta mio padre, Giorgio Celli, era un ricercatore universitario, un entomologo, che nel tempo libero si dedicava alla letteratura e al teatro. Conobbe un rappresentante della “Findus” che voleva fare il regista, un certo Giuseppe Avati. Per lui era un’impresa davvero epica dal momento che per fare il cinema a quei tempi bisognava abitare a Roma. Nonostante ciò aveva trovato un costruttore disposto a finanziare il suo primo film: “Balsamus, l’uomo di Satana”. Per questo chiese a mio padre di aiutarlo a scrivere i dialoghi e lui accettò. Un giorno i miei genitori mi portarono sul set proprio mentre stavano girando una scena con degli angioletti. Mi denudarono, mi montarono un paio di ali sulla schiena e mi fecero volare sul soffitto di una stanza appeso ad un cavo. Balsamus è stato quindi il primo film in cui ho lavorato come attore. Avevo un anno. Quando Pupi, anni dopo, girò “Cinema!!!” fece interpretare mio padre a Daniele Formica.

MARKUS: Come sei entrato a far parte del cast?
 DAVIDE: 
Andai a un provino. In particolare cercavano un bambino erculeo che alla fine del film avrebbe dovuto sfasciare completamente la casa del protagonista: Gastone Moschin. A quei tempi avevo dodici anni e per via di una cura ormonale ero diventato gigantesco. Fino a qualche mese prima apparivo come quel genere di bambino timido e imbranato che incarna lo zimbello del quartiere ed è solitamente preso in giro da tutto il circondario. Dopo questo improvviso sviluppo incominciai a divertirmi osservando il timore di coloro che mi avevano deriso. Nessuno di questi intuiva che dentro ero rimasto buono e un po’ imbranato malgrado le dimensioni. Fu per questo che incominciai a recitare, per un via del senso di rivalsa verso quel mondo di coetanei che mi aveva escluso, verso tutte quelle ragazze che alle feste preferivano sempre gli altri. Per uno come me che se ne stava sempre in disparte, seduto su di una poltrona guardando gli altri ballare, quella della recitazione è stata certamente una bella sfida, persa in partenza, ma degna di essere combattuta.



MARKUS:  Hai qualche vivo ricordo di questa ormai lontana esperienza cinematografica?
DAVIDE: Di ricordi ne conservo tanti, alcuni molto divertenti. Ad esempio avrei dovuto gonfiare una borsa dell’acqua calda fino a farla scoppiare. Il tecnico degli effetti speciali (diventato famoso in quegli anni per aver realizzato la neve finta nel film “Novecento” di Bertolucci) costruì un meccanismo idraulico molto complicato che collegava una bombola di gas a un boccaglio che mi passava sulla guancia all’opposto della macchina da presa. Un marchingegno il cui montaggio durava mezz’ora ed era piuttosto scomodo. Finite le riprese afferrai una borsa dell’acqua calda e provai a gonfiarla. Scoppiò davanti a tutti che restarono tra il sorpreso e l’allibito. Faenza mi disse: “se tu lo avessi fatto prima ci avresti fatto risparmiare tempo e un mucchio di soldi” e poi si mise a ridere. Ricordo le chiacchierate con Gastone Moschin e Claudia Cardinale. Due persone straordinarie e piene di ricordi che si mutavano in racconti emozionanti. Mi sedevo sempre nei paraggi per poterli ascoltare. Salutai Claudia Cardinale dicendo che quando sarei tornato a scuola nessuno dei miei compagni avrebbe creduto alla nostra amicizia. Lei mi regalò una sua foto con scritto sopra: “a Davide: il mio migliore amico”. Ovviamente, tornato a scuola, tutti pensarono ad un falso e continuarono a pensarla così fino a quando non uscì il film. Ho rivisto Roberto Faenza un paio di volte, in particolare quando Giacomo, suo figlio, (N.d.R. anche lui regista), si trasferì a Bologna per studiare giurisprudenza. Mi telefonò e mi chiese - dato che ero più grande - di dare una mano a Giacomo ad ambientarsi. Non ce ne fu nessun bisogno, Giacomo si adattò subito dato che è sempre stato un ragazzo molto sveglio e intraprendente. Mi sento davvero onorato di aver lavorato con un regista che ha realizzato film che resteranno nella storia del cinema, opere come “Cop Killer” con Harvey Keitel, “Prendimi l’anima”, o “Jona che visse nella  balena” con Jean Hugues Anglade.


2. AIUTAMI A SOGNARE

 
 MARKUS: L’anno successivo partecipi al film "Aiutami a sognare" di Pupi Avati, regista che diverrà per te e non solo fondamentale per la carriera d’attore. Come hai conosciuto i fratelli Avati?  
 DAVIDE: 
Questa è un’altra storia davvero incredibile. L’anno in cui Pupi mise a punto il cast, mio padre lo incontrò casualmente in treno. Parlando del più e del meno saltò fuori la storia di questo kolossal che il grande regista emiliano avrebbe dovuto girare tra Ferrara e Rovigo. Devo premettere che, a quei tempi, i miei genitori si erano da poco separati e avevano messo in piedi delle nuove relazioni sentimentali. Mia madre, insegnante, sarebbe andata a fare gli esami di maturità a Rimini per poi trasferirsi in Abruzzo ritornando a Bologna solo alla fine di agosto. Mio padre voleva trascorrere le vacanze a Parigi, diceva che se Jean Paul Sartre avesse vissuto a Bologna non sarebbe diventato Jean Paul Sartre. Non me l’ha mai confessato, ma credo si fosse convinto di volerci restare per sempre. Per questa ragione avrei dovuto passare le vacanze in una colonia estiva, cosa questa che detestavo. Mi sono sempre adattato male alle nuove compagnie. Così, durante quel viaggio in treno da Bologna a Roma, mio padre riuscì a convincere Pupi a scritturarmi. “Non è che hai una parte per un bambino sui 12,13 anni?” chiese: “Sì, c’è” – rispose Avati e aggiunse - “Non è una parte di primo piano, ma si tratta pur sempre di un ruolo vero e proprio. Dovrà parlare e ballare. Una trentina di pose sparse su due mesi di lavorazione ”. Mio padre esultò, mi sembra ieri quando mi accompagnò a Rovigo guidando la vecchia Citroen Dyane arancione in mezzo ai campi di grano e ai canneti.  Mi lasciò in albergo nelle mani della costumista e partì per la Francia. Lo rividi il mese dopo. Quella sera, alludo al mio primo giorno di cinema, montai su di un furgone della produzione e mi feci portare sul set che si trovava dentro ad una vecchia villa, malgrado l’aspetto decrepito, gli intonaci crepati e i tetti malmessi continuava a riverberare un glorioso passato nobiliare. Era sera, nel buio fitto sentivo le persone muoversi accompagnate dal frinire dei grilli e dal baluginare flebile delle lucciole. Non capivo bene cosa stesse succedendo, ma avanzai nell’oscurità e nel profumo dell’erba tagliata. Lavoravano tutti nel più che totale silenzio perché gli attori stavano provando. Ad un certo punto fui scosso dal grido che attraversa ogni set a scadenze 
puntuali: “AZIONE!”. Un grande occhio di bue disegnò un cerchio rotondo e luminoso al centro del giardino mostrando il corpo di ballo in tutto lo splendore dei costumi d’epoca. Ballavano sulle note della musica in play back. Quella non sembrava la scena di un film, quella mi apparve come un galeone spagnolo che emerge improvvisamente da un abisso. Proprio mentre sprofondavo in questo sogno ad occhi aperti fui scosso da uno strillo: “Stop!”  - gridò Pupi – “siete venuti troppo sotto la macchina da presa, la dobbiamo rifare”. Un signore anziano, seppur ancora prestante, gli corse accanto e incominciò a parlottare con i ballerini. Parlava inglese ed era Hermes Pan, il coreografo di Fred Astaire. La mattina dopo mi ritrovai immerso in questo eden hollywoodiano, tra mezzi d’epoca, carri armati e gruppi elettrogeni. Non male per un ragazzino introverso che andava male a scuola. Da quel giorno in poi, Pupi e Antonio mi trattarono come se fossi un nipote e non mi fecero mai mancare nulla e questo mi aiutò molto dato che ero reduce dalla sofferta separazione dei miei genitori. Gianni Amadei, uno dei responsabili della produzione, diventò una sorta di zio che mi portava il cestino all’ora di pranzo evitando di farmi fare la fila. Cesare Bastelli, allora aiuto regista, si comportò come un fratello più grande che mi insegnava le battute. Resta vivo il ricordo di questo aereo americano atterrato nel campo di barbabietole dietro alla Villa. Un’immagine visionaria che riassume da sola il senso del film: il sogno americano con tutto quello che si porta dietro (il jazz, i grattacieli, la gomma da masticare, il whisky, i film in bianco e nero) è atterrato nel giardino di casa durante la seconda guerra mondiale. Fu allora che compresi quanto sia fantasioso Pupi Avati, persona questa che annovero tra i maestri che mi hanno insegnato di più.

MARKUS: Che parte avevi nel film?
 DAVIDE:
Interpretavo uno dei due figli di Paola Pitagora e Orazio Orlando. Due grandi maestri di cui restai letteralmente incantato e anche un po’ spaesato per quanto riguarda Orazio Orlando. L’avevo visto in televisione in uno sceneggiato della Rai. “Qui squadra mobile”. Interpretava il poliziotto duro, puro e dai modi bruschi, insomma un po’ all’americana. Quando me lo presentarono indossava una palandrana orientale, gli zoccoli ai piedi e si arieggiava con un grande ventaglio rosso vermiglio. Aveva modi pacati e dolci, tutt’altra cosa dal personaggio rude che avevo visto in televisione. Quel giorno compresi cosa significasse interpretare un personaggio, e cioè si trattava di una vera e propria trasformazione, un po’ come certi invertebrati che da bruchi si trasformano in farfalle. Un vero attore riesce persino a fare il contrario come insegna Brad Pitt nel “Curioso caso di Benjamin Button".

MARKUS: La protagonista è Mariangela Melato, purtroppo recentemente scomparsa…
 DAVIDE:
Di Mariangela, il tratto che ricordo di più è la pazienza che aveva con noi bambini, era una persona buona. Capisco che forse la bontà non è così ambita come la bravura, che a lei certamente non mancava, ma la bontà era sicuramente il suo tratto distintivo. Ricordo anche di aver pranzato spesso con Jean Pier Leaud, l’attore alter ego di Francois Truffaut. Era molto introverso e chiuso, per questo diventammo amici, per quanto lo si può essere tra un bambino e un adulto.  Un tipo solitario, esattamente come me. Ci capimmo al volo.



MARKUS: C’è anche Anthony Franciosa…
 DAVIDE:
Di Anthony Franciosa, che avevo visto nel film “Un cappello pieno di pioggia”, ricordo solo la riservatezza. Usciva dal camerino, recitava la scena e ci tornava senza degnare nessuno di uno sguardo, sembrava non voler avere nulla a che fare con tutto quello che circondava la scena. Aver partecipato ad “Aiutami a sognare” fu davvero un’esperienza indimenticabile. Avrei dovuto passare l’estate in una colonia estiva al lago di Suviana e invece mi ritrovai dentro ad un’altra epoca. Si trattò di un vero e proprio viaggio con la macchina del tempo.


3. UNA GITA SCOLASTICA


MARKUS: Nel 1983 sei nuovamente diretto da Pupi Avati in un ruolo piuttosto importante nel film corale/nostalgico “Una gita scolastica”, dove hai avuto la possibilità di conoscere alcuni degli attori cosiddetti “avatiani” (come Carlo Delle Piane) e assistere al debutto di Nik Novecento. Mi racconti qualche aneddoto legato alle riprese di questo film?
 DAVIDE: 
Su “Gita scolastica” gli aneddoti si sprecano e lo stesso può dirsi della mia amicizia con Nik e temo di non riuscire a descrivere come vorrei l’atmosfera magica che impregnò quel film. Non è stato un caso se il titolo originale era: “L’incanto” (il titolo fu cambiato perché il distributore temeva che fosse scambiato per un film polacco, N.d.R.). Mi basterà dire, per semplificare, che l’esperienza vissuta dai trenta personaggi che hanno ispirato la storia è finita per diventare quella dei trenta attori che li hanno interpretati. Avevamo tutto in comune con loro incominciando dall’età, l’entusiasmo e la voglia di entrare nel mondo. Quindi, gli attori e i personaggi hanno vissuto la stessa esperienza irripetibile; alludo a quel particolare momento della vita di ognuno di noi dove ci lasciamo alle spalle l’infanzia e l’adolescenza per entrare nella vita adulta. Quando succede alcuni non se ne accorgono, altri, invece, ne sono consapevoli e ogni istante viene vissuto con una consapevolezza unica nel suo genere. E’ quell’attimo in cui comprendi per la prima volta cosa sia la vita nel suo eterno mutare sapendo che ogni cosa che ti lasci alle spalle non tornerà mai più. Credo che quando morirò, uno dei ragazzi, o delle ragazze del film, mi verrà a chiamare per invitarmi all’ultima gita, proprio come accade alla protagonista del film.

MARKUS: Com’è nato il tuo personaggio “Enzo”?
 DAVIDE:
In verità il mio personaggio, Enzo, non esisteva sulla carta. In quel film - dove ero il più giovane e soprattutto tra i più inesperti - mi vergognavo da morire al contrario di altri attori che avevano alle spalle delle scuole di teatro illustri e sgomitavano per avere una battuta. Quando Pupi improvvisava (praticamente sempre, la sceneggiatura è un misero canovaccio… ) e si metteva a scegliere gli attori per le scene che inventava lì per lì mi nascondevo dietro al primo cespuglio che trovavo per non essere individuato. Un po’ come a scuola, quando non si è studiato abbastanza, il professore osserva la classe per decidere chi dovrà andare alla lavagna e tutti s’impallano dietro al compagno che siede una fila avanti. Così ho fatto anch’io fino a quando Pupi Avati non se n’è accorto ed è stata la fine. Si divertiva a farmi recitare la parte del timido e indubbiamente si trattava della cosa che sapevo fare meglio, mi buttava continuamente in scena e non mi ha più mollato. Da quel giorno è nata un’amicizia con Pupi che dura ancora oggi. Quest’approccio creativo fondato sull’improvvisazione finì per determinare il cognome d’arte di Leonardo Sottani, in arte Nik Novecento. “900” era il numero delle scene che non erano presenti nel copione e venivano create da Pupi all’istante. La famosa scena della briscola e dei segni che vede Nik e Bob Messini ciurlare per il manico l’indimenticabile Ferdinando Orlandi (interpreta l’oste della locanda) è una di queste. Anche la mia scena dove parlo con Mauro Marchese del gattino senza un occhio è una 900.

MARKUS: Dunque nonostante la tua timidezza sei sempre stato a tuo agio?
 DAVIDE: 
Quando le riprese finivano andavo a casa di Pupi e giocavo con i figli, con Mariantonia soprattutto. Oppure andavo a trovare Antonio Avati e spesso mi fermavo a mangiare le tagliatelle della madre, una persona stupenda che non solo è stata fondamentale per far diventare i fratelli Avati quello che sono oggi sostenendoli in tutte le maniere possibili, ma ha conservato nelle sua memoria un patrimonio inesauribile di storie che hanno ispirato molti  film  dei due fratelli emiliani.

MARKUS: Come ti trovasti a recitare accanto a Carlo Delle Piane?
 DAVIDE:
Molto bene. Carletto è molto simpatico e affabile. Bisogna su questo ricordare che a quei tempi, quando giravi un film con Pupi e Antonio, ti trovavi bene con tutti e ti sembrava di essere entrato in una grande famiglia. Tra gli attori che ho conosciuto all’epoca vorrei ricordare Ferdinando Orlandi, detto Bob. Nella vita faceva il ristoratore a Minerbio, un piccolo paesino in provincia di Bologna, dove gestiva il ristorante “I Tarocchi”. Gli amari serviti alla fine del pranzo avevano come etichetta le locandine rimpicciolite dei film che Orlandi aveva interpretato. Era un uomo di grande umanità. In molte occasioni, vedendo che me la passavo male, mi chiese se non avessi bisogno di un aiuto economico. Ho sempre rifiutato pensando che la stima e i prestiti finiscono sempre per rovinare i rapporti umani (anche se Bob me li avrebbe concessi a “fondo perduto”). Di persone di buon cuore come lui non ne ho più incontrate.  

MARKUS: Nel cast del film c’è anche la cantante Rossana Casale che di lì a poco troverà una certa popolarità come cantante (Sanremo ecc. )…
 DAVIDE: 
Ero diventato la mascotte del gruppo, tutti mi volevano bene, anche lei.

MARKUS: Nel film partecipa l’allora giovane e bella Tiziana Pini nel suo momento d’oro. Che ricordo hai di lei?
 DAVIDE:
Ricordo che era altissima e questo le pesava non poco. Mi raccontò un aneddoto di quando aveva interpretato l’anno prima “In viaggio con papà”. Quando si ritrovò a recitare la scena sulla spiaggia con Verdone le dovettero scavare una buca per terra dove farla entrare per non far sembrare lei troppo alta o Verdone troppo basso. “Hai capito?” – ribadì – “Sono l’unica attrice alla quale hanno scavato la fossa prima ancora di incominciare”. Aveva - e presumo abbia ancora - un grande senso dell’umorismo veramente raro tra le attrici. A me piaceva molto, mi sono sempre andate a genio le donne grandi e spiritose”.

MARKUS: Dove fu girato il film?
 DAVIDE: 
Nei dintorni di Porretta Terme e fu prodotto dalla Provincia di Bologna. In realtà la Provincia sulle prime commissionò a Pupi un documentario. Lui preferì trasformarlo in un film. D’altra parte è sempre stato un mago nelle produzioni a “basso costo”. Basterà ricordare che aveva a disposizione solo sei metri di binario per il carrello, un cavalletto, tre o quattro riflettori e poco altro. Pupi è un genio capace di rendere poetico tutto quello che gli passa per le mani, anche le cose più insignificanti trovano una loro ragion d’essere se a lui servono in una scena. Per contro credo che la Provincia, in qualità di Produttore, non abbia mai guadagnato tanti soldi. Proprio così, Gita scolastica fu un grande successo e incassò fior di quattrini. Oggi siamo così abituai a parlare di quanto ci costa la politica che sembra impossibile che la stessa ci possa far guadagnare dei soldi. Eppure ai tempi di Gita Scolastica è successo.


4. NOI TRE
E FESTA DI LAUREA


MARKUS: Nel 1984 partecipi al film “Noi tre”, dove hai potuto lavorare accanto ad altri attori “feticcio” di Avati, quali Lino Capolicchio e Gianni Cavina…
 DAVIDE:
Con Gianni non ho lavorato perché le nostre scene erano sfalsate e ci siamo solo incrociati, senza contare che Gianni ha un carattere molto volubile e non abbiamo mai legato anche se lo stimo molto. Con Lino Capolicchio invece abbiamo fraternizzato. Come Moschin era un pozzo di storie, senza contare che io l’avevo visto nel Giardino dei Finzi Contini e nella Casa dalle finestre che ridono, due cult che hanno segnato profondamente la mia creatività. Gli piaceva fotografare e conosceva molto bene la tecnica 
cinematografica, cosa inusuale per un attore. Era amante della tecnologia filmica a tal punto che era diventato molto amico di Garret Braun, l’ingegnere diventato famoso per aver inventato la Steadycam usata per la prima volta nel film Shining. Mi diede molti consigli sugli obiettivi fotografici. In casa avevo una vecchia cinepresa 16 mm con un attacco per le ottiche molto raro, mi spiegò cosa avrei potuto fare per costruire un adattatore. Nei giorni seguenti mi parlò a lungo del film che voleva realizzare, e credo abbia poi realizzato (il film si chiama Pugili ed uscì nel  1995, n.d.a) dedicato al pugile Tiberio Mitri e tratto dalla biografia di Bosco “Una faccia piena di pugni”. Mio padre mi vide entusiasta e me ne procurò una copia, la lessi avidamente in meno di tre giorni. L’inizio è bellissimo: “Tiberio Mitri si trova in treno. La sera prima ha combattuto duramente e ha preso tanti colpi in testa, per questo non si ricorda più chi è”. Si tratta quindi di una biografia che nasce all’istante, mano a mano che il lettore procede di pagina in pagina emerge la grande levatura umana della “Tigre di Trieste”. Davvero geniale. Quando ho visto Memento di Nolan ho pensato a Capolicchio e a Tiberio Mitri. Come si usa dire: “le storie più emozionanti non le ha scritte nessuno, esistono da sempre e si tratta solo di scovarle”

MARKUS: L’anno successivo partecipi al film “Festa di laurea”. Ritrovi Carlo Delle Piane e si forma quella che definisco la “triade giovanilistica-avatiana” (Celli/Novecento/Parisini). Riconfermi il tuo personaggio nostalgico/bonario. Che ricordi hai di questa esperienza?
 DAVIDE:
Un’altra bella esperienza. Io e Dario Parisini legammo subito con Aurore Clément malgrado il momento paradossale in cui ci siamo conosciuti. Una sera ci sorprese in camera mentre festeggiavamo l’inizio delle riprese. Frequentavo la stessa scuola di Dario ed era per entrambi una gioia ritrovarci in vacanza insieme. La stanza era un campo di Roncisvalle, lattine di birra da tutte le parti, un vassoio di maccheroni ai quattro formaggi rovesciato sul tappeto, calzini qua e là. Aurore, proprio quella sera, aveva deciso di conoscerei i tre attori coprotagonisti del film (dormivamo nella stessa stanza anche se Nik non c’era perché era andato a ballare). Entrò come se nulla fosse e non fece caso al disordine. Ci raccontò di Paris Texas di Wenders (proprio quell’anno l’aveva fatta entrare nel firmamento delle star), di Francis Ford Coppola e Luis Malle. Insomma parlammo fino alle cinque del mattino mentre pensavamo ingenuamente che forse, un giorno, anche noi saremmo riusciti a sfondare nel cinema. Sognavamo ruoli che ci avrebbero dato da vivere senza costringerci a fare i lavapiatti tra un film e l’altro. La carriera di attore è la più ingrata di questo mondo, o lavori troppo o non lavori per niente, oppure lavori con una certa continuità in tante piccole produzioni interpretando minuscole parti che nessuno noterà mai. Poi è chiaro che è sempre meglio di un lavoro in fonderia.

MARKUS: Il film è ambientato sul Delta del Po, ma il casale dov’è organizzata la festa ho la sensazione che sia da un’altra parte (per esempio a Fregene, dove Avati girò “Regalo di Natale”). Ricordi il luogo delle riprese?
 DAVIDE:
Si, proprio così, sia “Regalo di Natale” sia “Festa di laurea” sono stati girati a Fregene, ma non nella stessa villa. All’epoca si usava perché costava molto meno rispetto a Roma.

MARKUS: Nel film c’è la giovanissima Fiorenza Tessari che interpreta il ruolo di una servetta improvvisata che ha una piccola storia d’amore con Dario Parisini. Che ricordo hai di lei?
 DAVIDE:
L’amicizia che mi legò a Fiorenza Tessari fu decisamente interessata. Aveva interpretato “Phenomena” di Dario Argento insieme a Jennifer Connelly di cui andavo pazzo. Così la tempestavo di richieste chiedendo quando Jennifer sarebbe passata da Roma a trovarla. La volevo a tutti costi conoscere… che provinciale! Scherzi a parte a quei tempi era una bravissima attrice, molto professionale ed educata, paziente e sempre puntuale. Ci perdemmo di vista dopo aver girato “Una domenica sì” per poi ritrovarci tanti anni dopo grazie a Facebook. Nella realtà non ci siamo più visti e mi farebbe molto piacere rivederla.


5. UNA DOMENICA SI'
 E CLAUDIO CASSINELLI


MARKUS: Nel 1986 hai un ruolo da coprotagonista nel film "Una domenica sì" di Cesare Bastelli, una pellicola dai toni giovanilistici/sentimentali che narra, tra sogno e realtà, la giornata di tre commilitoni in libera uscita nell’Italia centrale. Nel film vesti i panni di un milite dal carattere bonario che ha un desiderio fobico di stare sempre in compagnia. Mi spieghi com’è nata questa curiosa caratterizzazione?
 DAVIDE: 
Quella volta non dipese da me, non ho mai sofferto di una qualche fobia. Fu lo sceneggiatore, Cesere Bornazzini, ad avere questa idea. Dopo aver letto il copione gli tolsi il saluto, lui lo sapeva benissimo che a me piacevano i ruoli alla Sean Connery. Ovviamente scherzo. Siamo in ottimi rapporti e ogni tanto lo vado a trovare. Questa battuta mi permise, però, di aprire un ragionamento sulla mia carriera. Tra le tante ragioni per le quali ho abbandonato il cinema c’è anche questa: mi offrivano sempre e solo ruoli da bonaccione. Nel cinema degli anni Ottanta pullulavano i ciccioni, i timidi, gli sfigati e per lo più si trattava sempre di ruoli superficiali. Ricordo che l’ultima parte che mi fu offerta consisteva nell’interpretazione di un innaffiatoio robot protagonista di una fiction di fantascienza prodotta da Parenzo e girata alla Dear. Nessuno mi avrebbe visto in faccia e avrei dovuto recitare chiuso dentro ad un costume di gommapiuma e lattice sei giorni su sette, in piena estate. Il regista al provino mi fece indossare il costume - peraltro realizzato da Sergio Stivaletti - e mi diede le battute da leggere. Non mi fece neanche finire che gridò entusiasta: “magnifico, magnifico! L’innaffiatoio spaziale avrà il tuo splendido accento bolognese”. Vi confesso che ebbi l’impressione che quella parte non la volesse proprio nessuno e me ne andai. Se fossi restato - di questo sono certo - non avrei comunque vinto un Oscar.



MARKUS: Come ti trovasti a esser diretto da Cesare Bastelli?
 DAVIDE:
Con il “Bastellaccio” siamo praticamente fratelli e lo siamo sempre stati anche se ci sentiamo di rado. Cesare, insieme a Luca Bitterlin, possono essere considerati i pionieri del cinema bolognese, dopo di loro sono venuti tutti gli altri, ma loro due sono stati la prima testa di ponte necessaria per far sbarcare il cinema a Bologna, come dire che hanno incominciato a creare quel terreno fertile che offriva ai tecnici, alle manovalanze e agli attori un punto di partenza. Magari i ruoli professionali che saltavano fuori non c’entravano mai nulla con quello che in molti sognavano di fare, ma si trattava pur sempre di un modo per entrare nel giro.  All’epoca (non so adesso) entrare nel cinema era la cosa più difficile, dopo si riusciva sempre ad aggiustare il tiro. Penso a Filippo Corticelli che oggi è diventato uno dei più grandi direttori della fotografia italiani, ma che all’inizio fece tanti lavoretti, compreso il microfonista in Noi tre, prima di diventare il maestro che tutti conoscono. Ma mi riferisco anche a Giorgio Diritti, Massimo Martelli (regista cinematografico e quotato autore televisivo), Roberto Cimatti, altro importante maestro della fotografia italiana, Ambrogio Lo Giudice e tanti altri ancora. Se Bastelli non avesse incominciato a sfruttare le discese di Pupi Avati creando attorno a queste delle opportunità professionali nessuno avrebbe considerato Bologna una piazza attrezzata al cinema. Resta inteso che se Pupi si fosse scelto un altro aiuto regista, magari romano, il percorso sarebbe stato molto più impervio o forse non si sarebbe nemmeno concretizzato. Le discese di Marco Ferreri, o Bellocchio, ad esempio, molto più episodiche di quelle di Avati, non sarebbero state sufficienti a creare alcunché sebbene abbiano anch’esse contribuito in minima parte. Stando a come sono andate le cose si può dire che Cesare Bastelli è stato il maieuta discreto e misconosciuto del cinema Bolognese. In tanti dovrebbero fargli un monumento.

MARKUS: Oltre alla factory degli Avati chi altro frequentavi a quei tempi?
 DAVIDE:
Era per me fonte di grande gioia quando veniva a trovarci un attore che da ragazzo aveva interpretato alcuni testi scritti da mio padre. Capisco che il paragone possa essere avventato, ma era come andare a cena con Indiana Jones. Questo perché Claudio Cassinelli, questo era il suo nome, è stato l’interprete di tanti film italiani che devono essere ancora riscoperti, ma che lo saranno presto. Questo percorso è incominciato quando Quentin Tarantino ha fatto conoscere al mondo Enzo G. Castellari e molte sue opere fra le quali ricordo “Quel maledetto treno blindato”. All’appello di questo grande sdoganamento mancano ancora tutti quei film di fantascienza minori come “L’isola degli uomini pesce” o “La montagna del Dio Cannibale” (di Sergio Martino) e tanti altri dove Claudio vestiva i panni del protagonista. Insomma, quando veniva da noi e cenavamo in terrazza, ci raccontava dei suoi viaggi intorno al mondo, di produttori latitanti (tipo “Lo stato delle cose” di Wenders), delle attrici da capogiro con cui aveva recitato tra le quali figurava anche Ursula Andress e soprattutto ci descriveva la sua esperienza nelle giungle di mezzo mondo. Non è un caso se finì la sua vita in circostanze tragiche, seppur sempre avventurose. Rifiutò la controfigura e si schiantò con l’elicottero contro l’arcata di un ponte durante le riprese del film "Vendetta dal futuro". Tulio Kezich, nel coccodrillo, lo ricordò così: “Claudio è morto come l’avventuriero che aveva sempre sognato di essere, da vero uomo di coraggio che non si tirava indietro di fronte ai rischi del mestiere. Aveva nella figura imponente, nella dolcezza del carattere, nel gioco vitalistico delle passioni e delle contraddizioni, qualcosa di un personaggio di Conrad” Quando me lo dissero piansi per tutto il giorno rivivendo quella notte trascorsa nella sua casa delle vacanze sperduta nella campagna laziale. Durante la cena Claudio decise che mio padre avrebbe dovuto scrivere per lui un grande film e così incominciarono ad immaginarlo a voce altra. Iniziava con la contaminazione tossica di una città, camion militari e soldati con le maschere antigas e gli scafandri bianchi scendono dai mezzi militari... Continuai ad ascoltarli mentre dibattevano, ad uno veniva un’idea che l’altro subito modificava e poneva nuovamente al vaglio della discussione. Mi addormentai sul divano e quando mi risvegliai la mattina dopo l’intero copione era appoggiato sul tavolo della cucina in mezzo ai piatti sporchi, ai pezzi di pane e alle bottiglie di vino vuote. Cassinelli non riuscì mai a trovare il produttore per quel film che resta pur sempre una grande storia che nessuno vedrà mai sullo schermo.

MARKUS: In effetti, molti film B-movie italiani degli anni Sessanta e Settanta sono stati riscoperti grazie a Tarantino… penso a “Quel maledetto treno blindato” che hai citato, ma anche al più recente “Django”. Che differenze intravvedi tra quel cinema e quello di oggi?
 DAVIDE:
Da semplice spettatore posso dire che mancano storie e dialoghi nel cinema odierno per quello si pesca nel passato. Te ne accorgi quando ascolti alla radio i dialoghi di un vecchio film: reggono anche senza le immagini. Prendi un film come “La terrazza” di Scola, - recentemente è stato trasmesso dal programma radiofonico Hollywood party - ci s’immagina quello che manca ed è come se tu stessi guardando il film dentro ad un cinema. Lo stesso vale per quasi tutti i vecchi film. Quando gli obiettivi avevano una scarsa profondità di campo e le immagini erano in bianco e nero, se non avevi una trama decente la gente usciva annoiata dalla sala. Tutto ciò che la tecnologia aggiunge - prima il colore, poi gli effetti speciali, infine le tre dimensioni - toglie qualcosa alla creatività. I registi americani s’illudono che uno spettacolo pirotecnico – vedi gli ultimi action movie – possa coinvolgere lo spettatore a prescindere, ma non è così. Il cinema si fonda sulla trama e sui dialoghi prima di tutto, lo stesso montaggio, nel cinema sonoro, si costruisce sul soggetto e sulle battute, tutto il resto viene dopo. Senza di loro nessun film si regge in piedi. Eppure, il cinema odierno è diventato un pifferaio magico che ammalia i topi usando l’occhio anziché l’udito. E’ la nemesi di ogni incantatore.

MARKUS: Tornando a noi, in “Una domenica sì” reciti nuovamente accanto a Nik Novecento, alla bella Fiorenza Tessari e a Dario Parisini…
 DAVIDE:
All’epoca mi vergognavo un po’ di quel ruolo, sebbene ora, a distanza di tanti anni, quel film mi appare di una tenerezza e di una poesia disarmante. Non lo rivedo spesso: troppi ricordi. Mi mette malinconia, c’è persino mio nonno che interpreta l’autista del furgone che carica Dario e Nik quando vanno alla festa del maiale. Credo che sia uno di quei film italiani che qualche critico farà diventare un cult. E’ un poema minimalista.

MARKUS: C’è anche una giovane Elena Sofia Ricci che di lì a poco divenne una star del nostro cinema…
 DAVIDE:
Anche lei è una grande professionista, l’adoravo perché non mi faceva sentire inferiore. E’ sempre stata molto bella e di me non si è mai potuto dire lo stesso.


6. LA NEVE NEL BICCHIERE E SPOSI

MARKUS: Nello stesso anno partecipi al film “La neve nel bicchiere” di Florestano Vancini, di cui si hanno davvero poche notizie e personalmente non lo conosco. Me ne parli?
 DAVIDE:
Interpretai una piccola parte, lo scariolante Andrea, ma fu quasi tutta tagliata e ancora oggi ne ignoro le ragioni. Per questo non amo parlarne, anche se, come sostengono alcuni scrittori: “il libro più bello è quello che non si è mai scritto, che è andato perduto, o si deve ancora scrivere” lo stesso credo che valga anche per i personaggi da interpretare. Andrea è la mia interpretazione migliore.

MARKUS: Nel 1987 hai una piccola parte nel film "Sposi", precisamente nell’episodio diretto da Cesare Bastelli con Carlo Delle Piane ed Elena Sofia Ricci (ormai passata a prim’attrice). Che ricordi hai di questa tua partecipazione?
 DAVIDE:
“Sposi” è stato un film girato in una settimana. La trama era formata da cinque storie e ognuna aveva un regista e una troupe dedicata. Queste cinque unità giravano contemporaneamente e fu davvero un esperimento produttivo notevole che solo Antonio Avati poteva inventarsi. Anche in quel caso fu Bastelli (che dirigeva Carlo delle Piane ed Elena Sofia Ricci) che mi chiamò. Mi diede un piccolo ruolo che accettai solo perché mi disse che avrei potuto fargli da assistente alla regia. A quel tempo stavo già pensando di liberarmi dai miei panni di attore per trovare qualche altro ruolo che avrebbe potuto concedermi una maggior continuità lavorativa. Così feci, restai sul set per tutto il tempo e mi occupai un po’ di tutto, ad esempio battevo i ciak, spostavo i carrelli, le luci, portavo i panini, insomma mi dedicai a tutto quello che solitamente compete ad un assistente alla regia. Ricordo che a quei tempi avevo una ragazza di nome Sabrina. Le regalai lo stesso mazzo di fiori che Delle Piane offre ad Elena Sofia Ricci (finita la scena mi dissero di portarlo nel bidone della spazzatura). Era il più grande tra tutti i mazzi di fiori che avesse mai ricevuto. Fece seccare alcuni boccioli e li mise in un cassetto. Se un giorno qualcuno metterà all’asta questa memorabilia, sapete da dove viene!

MARKUS: L'episodio fu girato in un grand hotel nel centro di Bologna...
 DAVIDE: 
Al “Grand Hotel Baglioni”. Ricordo che ci offrirono un pranzo sotto le volte dipinte dai Carracci. Se rammento bene: “risotto al radicchio rosso e all’aceto balsamico”.  Straordinario.

MARKUS: Una stranezza che mi diverte di quell’episodio è che sia Carlo Delle Piane sia Elena Sofia Ricci seguitano a fumare come degli assatanati per tutte le riprese. Mi rendo conto che è un dettaglio ma mi ha sempre incuriosito capirne il motivo. Deduco una scelta di regia o chissà. Riesci a colmare questa mia curiosità?
 DAVIDE:
Il film non fu finanziato dalle multinazionali del tabacco, questa è l’unica cosa che posso dire e posso solo ipotizzare che Delle Piane, fumando accanitamente, volesse trasmettere l’idea di un uomo d’affari molto stressato.

MARKUS: Come sai, in "Sposi" c’è l’ultima partecipazione di Nik Novecento (morì nell’ottobre di quell’anno per un malore e, infatti, il film è a lui dedicato). Si ebbero delle avvisaglie o la sua morte fu quello che si definisce un fulmine a ciel sereno?
 DAVIDE: 
Nessuna avvisaglia. Nik è sempre stato un tipo molto vitale, ma la sua malformazione cardiaca era congenita e deve aver deciso di farsi viva proprio quel giorno. Quando me lo dissero ci rimasi malissimo. Non avevo mai messo in conto quell’eventualità. Era uno di quegli amici di cui non si può a fare a meno e sento ancora oggi la sua mancanza a distanza di tanti anni.

MARKUS: Cosa ricordi in particolare di Nik?
 DAVIDE:
L’assoluta mancanza di paura. Non aveva paura di vivere la vita e ci si buttava dentro a capofitto senza preoccuparsi di nulla. Se uscivi con lui un sabato sera era capace di riportarti a casa una settimana dopo.


7. E' PROIBITO BALLARE E LA TV


MARKUS: Nella seconda metà degli anni Ottanta, oltre ai set cinematografici, frequenti anche quelli televisivi; infatti, nel 1988, partecipi alla sit-com “E’ proibito ballare” prodotta dai fratelli Avati. Personalmente ho un ricordo molto vago (credo che le puntate, a oggi, non siano poi mai più state trasmesse). Cosa mi racconti di questa esperienza, e che personaggio interpretavi?
 DAVIDE:
Ero il protagonista di tutta la serie. Se fosse stata messa in onda in un altro momento sarei diventato famoso o comunque non avrei più dovuto fare il lavapiatti tra un film e l’altro. Quando andò in onda, Raidue oppose alla nostra sit-com il colosso americano Miami Vice. Praticamente ci trasformarono negli Spartani alle Termopili. “E’ proibito ballare” fece gli indici d’ascolto più bassi di tutta la storia della televisione malgrado vantasse tra gli sceneggiatori autori che hanno fatto film di cassetta. Per non parlare degli attori che avevano alle spalle storie professionali molto importanti. Nestor Garay, aveva recitato nel Caso Mattei e in Sandokan, il suo socio era interpretato da Arnaldo Ninchi, poi c’era Blas Roca Rey protagonista maschile di Storia d’amore di Maselli (Valeria Golino era la protagonista femminile), Valeria Cavalli, Stefano Dionisi, alias “Il partigiano Jonny”, uno dei pochi amici che ogni tanto mi telefona per sentire come mi vanno le cose, Enrico Salimbeni (Radio Freccia), Vincenzo Crocitti, il figlio di Sordi in “Un borghese piccolo piccolo” e, dulcis in fundo, Gabriele Muccino. Proprio così, nessuno se lo ricorda mai, ma Gabriele ha debuttato come attore e mi ha fatto da spalla in tante puntate.

MARKUS: Sempre nell’ambito televisivo ho letto nella tua biografia che hai lavorato nel noto programma televisivo della Rai “Mixer”, e condotto le dirette esterne della non tanto fortunata terza edizione del varietà “Lascia o raddoppia” presentato nel 1989 da Bruno Gambarotta e Lando Buzzanca (per la cronaca tentò di rinverdire il programma - sempre con scarsi risultati - lo stesso Mike Bongiorno nel 1979).
 DAVIDE: 
Partecipai a "Mixer" chiamato dallo stesso Muccino che era stato ingaggiato da Minoli per realizzare delle fiction dedicate ai giovani. La prima era formata da tre storie, ero il protagonista della terza. Girammo alcune scene nella camera della casa dove viveva con i genitori e altre nello studio da pittrice della madre che si affacciava sul Tevere. Ad una cert’ora interrompevamo le riprese e andavamo a prendere suo fratello più piccolo, Silvio, che usciva da scuola. Per quanto riguarda "Lascia o Raddoppia" fui scritturato da Franco De Chiara che poi è diventato uno dei pilastri della trasmissione “Chi l’ha visto”. Conducevo le dirette esterne dalla casa dei concorrenti, tre minuti che all’epoca mi fruttarono una grande notorietà. Nel team di cabarettisti c’era un avvocato di Fidenza, non più giovanissimo, che si esibiva con un repertorio molto particolare che faceva il verso alla poesia. Ricordo una parodia della poesia russa il cui titolo era: “Uzelinen, Uzelinen”.  Ero cresciuto allenandomi davanti a “Drive in” del vulcanico e geniale Antonio Ricci e non avevo mai visto nulla di così sottile, colto e raffinato prima di allora. Quell’uomo pacato e dall’aria addormentata era un intellettuale e conosceva a menadito il lavoro del Gruppo 63, persino le poesie di mio padre che era stato uno dei suoi membri. Questo talento incompreso che giocava a calcio nella squadra di quartiere e arrotondava patrocinando qualche episodica causa civile che gli capitava per le mani era Eugenio Ghiozzi, al secolo: Gene Gnocchi. Gli ascolti delle prime puntate di "Lascia o Raddoppia" non andarono bene e Gene, con tutti gli altri cabarettisti, fu licenziato in tronco da Bibi Ballandi che curava l’appalto della trasmissione. Fui l’unico a salvarsi, ma Eugenio diventò il grande Gene Gnocchi confermando così che il talento, quello vero, non può essere fermato da un licenziamento. Prima o poi viene fuori ed è solo una questione di tempo.


8. GLI ANNI 90 E MAGNIFICAT

MARKUS: Ho letto che hai partecipato alle pellicole “Antelope Cobbler” di Antonio Falduto (1991) e “Faccia di lepre” di Liliana Ginanneschi (1991) di cui in realtà non se ne sa molto…
 DAVIDE:
Sono quei film che un tempo erano chiamati “articolo 28”, e cioè produzioni a bassissimo costo pagate quasi unicamente con denari provenienti da un apposito fondo statale. Erano per lo più piccolissime parti in opere poverissime e non ho grandi ricordi da raccontare. Piuttosto vorrei ricordare il cortometraggio che interpretammo io e mio padre, s’intitola “A misura d’uomo”. E’ una piccola storia dedicata ai problemi dell’agricoltura intensiva e all’uso indiscriminato dei pesticidi. Ancora oggi girano delle logore copie in vhs del film in molte università di agraria e viene spesso mostrato agli studenti perché riassume molto bene i problemi che ho citato. Fu prodotto da Giulio Cingoli, uno dei padri del cartone animato italiano, e diretto da Mario Cangi.

MARKUS: In quel periodo hai lavorato anche in campo pubblicitario?
 DAVIDE:
All’inizio partecipai a qualche spot, ma solo perché i registi ingaggiati avevano nomi di grande richiamo e parlo di Daniele Luchetti, che tutti conoscono e non ha bisogno di presentazioni, che mi diresse in uno spot sulla mortadella Unibon e di Ambrogio Lo Giudice che è stato il primo e forse più grande regista di videoclip italiani al quale fu affidata la realizzazione di una reclame dedicata ad una carta di credito per sedicenni. Fece eccezione lo spot su Mirabilandia che aveva un regista esordiente, ma prevedeva alcune scene con Fiorello che conobbi in quell’occasione.

MARKUS: Diventaste amici?
 DAVIDE: 
Direi di no. Era già famoso e si circondava di una coltre di persone che lo scortavano e impedivano ogni confidenza. Per alcune cose mi ricordò Nik, anche se Nik era un personaggio tra il naif e il surrealista. Siccome la pubblicità pagava bene recitai in altri commercial per aziende che non esistono più e che forse nessuno ricorda, probabilmente a ragione. Ricordo una pubblicità dove interpretai un pompiere che doveva spegnere un’emorroide. Era così ridicola che il cliente si rifiutò di pagarla e non fu mai trasmessa in tv. Per fortuna mi pagarono e nessuno mi vide. Ero arrivato in prossimità dell’addio al cinema che avrei salutato per sempre qualche tempo dopo.

MARKUS: Nel 1993 partecipi per l’ultima volta (dopo otto anni dal precedente) a un film diretto da Pupi Avati. La pellicola, di ricostruzione storica, è “Magnificat”
 DAVIDE:
Devo dire che spesso gli inizi e i finali delle storie si assomigliano, soprattutto quando si chiude un cerchio. Pupi sapeva che avevo abbandonato il cinema e aveva smesso di chiamarmi, eppure qualcosa lo fece ricredere. Immagino, ma non gliel’ho mai chiesto, che sia stato mio padre a metterci lo zampino. In quell’anno, Sabrina, la mia compagna di allora, dopo quasi sette anni fuggì con un altro ed io caddi in una depressione profonda. Per questa ragione - immagino - che mio padre abbia chiesto un favore a Pupi e l’abbia supplicato di ingaggiarmi per farmi cambiare aria per un po’, esattamente come fece la prima volta per Aiutami a sognare e furono le uniche due volte in tutta la sua vita in cui si mise in mezzo. Mi sono convinto di questo perché la parte, contrariamente a quello che succedeva sempre, non era stata tagliata su misura per me e Bagnaro, il mio personaggio, avrebbe potuto interpretarlo chiunque. Fui contento comunque di partecipare alle riprese. Pupi si era evoluto moltissimo rispetto ai vecchi tempi. Non girava più le scene con i piani sequenza su cui innestava tutte le altre inquadrature e non sempre ad un campo opponeva il rispettivo controcampo, bensì girava tante inquadrature secondo uno schema che pareva non avere alcun senso. In realtà aveva il film già girato, montato e finito, tutto nella testa, come dire che girava come Hitchcock che ha inventato il “montaggio in macchina”. Quella vacanza fu molto salutare e mi aiutò a buttarmi il passato alle spalle tanto è vero che mi fidanzai con la truccatrice. Un altro debito che ho contratto con i fratelli Avati.

MARKUS: Correggimi se sbaglio, ma colloco proprio nell’anno 1993 il tuo canto del cigno come attore. L’abbandono del mondo dello spettacolo è scaturito da una graduale mancanza di occasioni lavorative o, come credo, fu una scelta per intraprendere altre strade professionali?
 DAVIDE: 
L’una e l’altra. La verità e che le mie vicissitudini sentimentali, di cui ho accennato prima, mi trasformarono in una nave fantasma alla deriva. Però non ho mai avuto nulla a che fare con le droghe, leggere o pesanti, che detesto perché uccidono il talento e ti trasformano in uno schiavo. Quella rovina esistenziale è durata per circa un anno, ma poi ho smesso di scrutare l’abisso e ne sono uscito completamente, tanto è vero che ho messo al mondo un figlio e trascorro attualmente un’esistenza molto tranquilla.

MARKUS: In questo brutto periodo tuo padre t’incoraggiò?
 DAVIDE:
Aveva sempre la frase giusta per ogni situazione: “Non farti fregare da chi pensa  che l’artista sia genio e sregolatezza. Prima dimostra di avere del genio e dopo potrai abbandonarti alla sregolatezza. Di uomini inutili è pieno il mondo, uno in più non farà certo la differenza. Quantomeno pensaci un po’ sopra prima di buttarti via così”. Aveva fiducia in me e sapeva che avrei superato il mio dramma. Come cantava De Andrè: “solo gli scemi muoion d’amore”.

MARKUS: Quindi?
 DAVIDE:
Finite le riprese di Magnificat ho intrapreso altre strade e sono tornato a vincere, seppur in altri campi… e quindi anche incassare nuove sconfitte. La vita è una partita dove si vince e si perde, non si può vincere sempre e chi ci riesce ha imparato a barare, prima o poi, il pubblico se ne accorge. Per quanto mi riguarda, non mi dispiace perdere: il successo ottenebra la mente, mentre la sconfitta rende tutto ciò che ti circonda molto più chiaro e poi come ebbe a scrivere Sun Tzu: “un generale che non ha mai perso una battaglia non è un buon generale”. Secondo quest’antico maestro militare, in guerra come nella vita, lo scopo è quello, non tanto di vincere, ma di essere sconfitti e sopravvivere. Non c’è nulla a questo mondo che t’insegna di più di una sonora sconfitta”.

MARKUS: Detesti il successo?
 DAVIDE: 
Il successo degli altri mi stupisce sempre un po’. Possiedo amici che quando ci frequentavamo ed eravamo dei “signor nessuno” mi consideravano, oltre che un amico, un valido consigliere. Abbiamo sognato insieme e condiviso le stesse delusioni. Da quando sono diventati famosi, se li voglio rivedere, devo prendere un appuntamento con la segretaria e non sempre me lo concedono. Questo non è valido per tutti. Ad esempio, se passo da Roma e suono il campanello di casa Avati, Pupi apre la porta, mi fa entrare e mi abbraccia. Mi domando come si possa credere che il successo ti trasformi in un'altra persona e soprattutto mi interrogo su come potranno costoro sopravvivere quando il successo svanirà nello stesso nulla dal quale è uscito. Il vero uomo di successo resta se stesso e non dimentica mai il passato.


9. GLI ULTIMI ANNI

MARKUS: Di cosa ti sei occupato in seguito?
 DAVIDE: 
Dopo aver abbandonato il cinema sono andato a lavorare in un giornale di Modena è ho imparato ad usare il computer: impaginavo, scrivevo articoli e disegnavo insegne pubblicitarie. Non mi fu difficile entrare in redazione perché avevo delle buone credenziali (da giovanissimo avevo lavorato per il Corriere di Romagna, a quei tempi diretto da Michele Bovi che è diventato un grande giornalista della Rai). Quando ho capito come funzionava il mondo della grafica mi sono messo in proprio e ho lavorato instancabilmente senza mai fermarmi. Quando il mio studio è diventato grande abbastanza per permettersi qualche rischio ho incominciato a produrre dei documentari per alcune istituzioni pubbliche. Nel 1999, per una lunga serie di scongiurati eventi, tanto per parafrasare il titolo di un famoso film, sono entrato in politica. Prima nei Verdi, che ho rappresentato come consigliere comunale, dopo (…dopo essere stato cacciato in malo modo, intendo) sono diventato un dirigente regionale del Partito Democratico da cui sono stato - anche lì - buttato fuori. Devo dire, quella volta, con grande classe, d’altra parte resto uno dei suoi fondatori e non avrebbero potuto fare altrimenti. Si è trattato indubbiamente di una bella avventura che ho scelto di intraprendere unicamente perché volevo confrontarmi con il mondo e trarre dallo stesso la maggior quantità di verità nascoste che potevo, cose queste di cui il mondo della politica è saturo. Se mi ritrovassi a scrivere una qualsiasi storia potrei attingere a una vera e propria miniera di ricordi. Anzi, devo dire su questo, che i miei primi errori editoriali, parlo del mio secondo libro “Confessione di un nemico del popolo”, sono nati da questo bagaglio immenso che mi porto dietro. Come diceva sempre Sergio Leone agli esordienti: “Quando girerete il vostro primo film, fate molta attenzione a una cosa e a una soltanto. So bene che siete ansiosi di mostrare al mondo chi siete, ma non fate l’errore di mettere troppa carne sulla griglia. Avrete tutta la vita per farlo e tanti film da girare o da scrivere”. Non gli ho dato ascolto e ho sbagliato, nessun’altra mia sconfitta è stata più istruttiva di questa, quel libro è decisamente ridondante e barocco. Ma, come direbbe Stallone, “al pubblico non interessa vederti andare a tappeto, al pubblico interessa vedere come ti rialzi.

MARKUS: Hai qualche rimpianto?
 DAVIDE:
Tanti, soprattutto per gli amici che non ci sono più. Amici come Nik, o lo stesso Bonvi, il disegnatore delle Sturmtruppen, che condivideva con me la passione per i fumetti e per il cinema. Rimpiango quelle sere trascorse ad ascoltare le avventure di Claudio Cassinelli sulla terrazza di mio padre, storie di isole felici e animali selvaggi che persino i nostri dirimpettai, sporti dalle finestre di fronte, ascoltavano avidamente. Rimpiango i tempi di Gita scolastica e rimpiango l’aereo di Aiutami a sognare abbandonato in quel campo assolato. Mi consolo ascoltando “No, je ne regrette rien” della Piaff. Questa è indubbiamente la mia più grande contraddizione, sono un uomo molto malinconico da una parte e una macchina inarrestabile dall’altra, mio padre mi ha sempre permesso di essere entrambe le cose, ma mai l’una senza l’altra: “Gli artisti, quelli veri,” - mi ripeteva – “non si fermano davanti a nulla e nessuno potrà arrestare la loro corsa” Finiva affermando che il motto dei mercenari è lo stesso degli artisti. Sebbene sia in tre lingue è chiarissimo: “Goo oder crev!”. Marcia o crepa. Io sono stato tirato su così, l’arte prima di ogni altra cosa: marcia, crea o crepa. Non ho mai avuto altre possibilità.

MARKUS: So che ultimamente hai rimesso il naso nel cinema… dico bene?
 DAVIDE:
Se alludi a “Un matrimonio”, cioè alla fiction diretta da Pupi che uscirà presto in tv, più che di una parte si è trattato di una comparsata, ma è stato bello tornare a fare, seppur per poco, quello che facevo da ragazzino.  Detto questo concludo dicendo che  molte cose mi hanno tenuto lontano dal cinema fino ad oggi, alcune, come la morte di mio padre, decisamente coinvolgenti dal punto di vista umano. Ma il cinema è, e rimarrà per sempre, la mia più grande e irrealizzata passione. Oggi i grandi limiti produttivi di un tempo sono decaduti, chiunque può girarsi un film in casa a basso costo e questo mi porta a pensare che molto presto, risolti un paio di problemi che mi attanagliano (N.d.R. sto costruendo una biblioteca che radunerà tutti i libri di mio padre, oltre trentamila volumi), tornerò al cinema. Di storie da raccontare ne ho a bizzeffe e perciò sono sicuro che ci rivedremo. Questa è una promessa. Fino ad oggi ho perso tutte le mie battaglie, ma è statisticamente impossibile perdere ancora. E’ come quando giochi alla roulette: se punti per tutta la sera sul rosso, prima o poi, ci prendi. Dato che fino ad ora mi è uscito sempre e solo il nero vuol dire che il rosso non è poi così lontano. Come avrebbe detto David Mamet se fosse stato al mio posto: “Le cose cambiano”.

MARKUS: Ti ringrazio Davide per averci rilasciato questa sentita intervista e mi auguro possa esser stata esaustiva, oltre all’auspicio di aver soddisfatto chi come me è affascinato dal cinema avatiano, e non solo. 

Davide Celli, su sua autorizzazione e richiesta, è rintracciabile al seguente indirizzo internet:
https://www.facebook.com/celli.davide?ref=tn_tnmn

INTERVISTA REALIZZATA E RACCOLTA DAL BENEMERITO MARKUS

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commenti (12)

RISULTATI: DI 12
    Powerglide

    16 Luglio 2013 14:43

    Bellissima e interessante intervista.
    Complimenti Markus!
    Geppo

    16 Luglio 2013 21:39

    Grande Markus... ottimo lavoro. Sentiti rallegramenti.
    Galbo

    17 Luglio 2013 06:57

    bella intervista, complimenti
    Hackett

    17 Luglio 2013 07:57

    Magnifica intervista! Grazie Markus!!!
    Markus

    18 Luglio 2013 08:31

    Grazie ragazzi!
    Caesars

    22 Luglio 2013 11:20

    Pur terdivamente, mi unisco ai complimenti a Markus per questa interessantissima intervista.
    Markus

    23 Luglio 2013 10:08

    Figurati, grazie!
    Manfrin

    27 Luglio 2013 21:37

    Veramente ma veramente interessante,bel colpo Markus!
    Markus

    29 Luglio 2013 08:18

    Grazie Manfrin ;)
    Cotola

    31 Luglio 2013 02:38

    Grande intervista, Markus! Belle, competenti ed interessanti le domande,
    così come le risposte che non sono le solite menate scontate che gli
    attori dicono di solito.