Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Ragazzino particolarmente religioso si dedica al ravvedimento dei suoi coetanei, fino al momento in cui... Interessante pellicola nella quale la recitazione non eccelsa non fa testo (anzi, trattandosi di una vicenda ispirata a fatti veri, la spontaneità di certe espressioni facciali risulta ben accetta) e il ritmo celere assicura una visione scorrevole. Nel complesso niente affatto male, sebbene il finale tragico sia prevedibilmente dietro l'angolo (ma tant'è); del resto l'intento pedagogico si percepisce sin dalle prime battute e il messaggio di speranza giunge forte e chiaro.
Pasolini gioca a imitare Godard e il risultato si assesta ben oltre la soglia del grottesco involontario, con terrificanti dialoghi preistorico-contestatari letti in stato di trance attoriale, il tutto alternato a soporiferi intermezzi vulcanici interpretati da Clémenti. In un contesto filmico non distante dai fasti degli "idiotoidi" e della "capocchietta di cavolo", spiazza vedere apparire, di tanto in tanto, i volti di Tognazzi (professionale) e Lionello (straordinario), per quanto rozzamente inquadrati. Sprecata anche la fotografia. Insieme a Medea, il peggior film di Pasolini.
Sin dal "MOM" palindromo che s'illumina sul telefonino di Nina (parola specchio), l'ossessione del doppio si insedia nel film come forza trainante e distruttiva. Quasi ogni immagine in cui Nina è protagonista è duplicata. Dai grandi specchi a parete a quelli di bagno o camerino, ai finestrini della metro, la sua immagine la perseguita ovunque. Fino a diventare allucinatoriamente reale/autonoma. La stessa, desiderata e odiata, Kunis è un suo doppio. Questa scelta figurativa fantastico/perturbante è più interessante della stessa follia di Nina, ed è la carta vincente di Aronofsky
Tra dissolvenze, sovraesposizioni e ralenti, il film di Peter Weir riesce a evocare - e invocare - un senso di stato percettivo vigile e alterato al tempo stesso. Opera visiva, emozionale, ritratto di un’epoca invasata dal rigore e soggiogata dalla Natura. Il mistero non chiede di essere risolto: quando il tempo si ferma e il luogo si impone è inutile porsi domande. Marion e Miranda probabilmente sono ancora lì - nascoste, perdute, rapite - a fissare un futuro molto lontano tra le calde rocce uterine di Hanging Rock. Spettrale.
Da una triste vicenda realmente accaduta, la storia di due ragazzi che il destino farà incontrare e del loro amore, del tutto spontaneo. Sullo sfondo, al solito, la cultura omofoba della piccola provincia del sud Italia, in cui ogni cosa deve necessariamente seguire un copione accettabile. Un racconto pieno di luce (e di ombre), che non indulge mai nel pruriginoso. Tanto sole, tanto mare, tanto sale.
Mai nella storia del cinema la vita personale e la carriera artistica di uno dei più grandi protagonisti sono così intrecciate, al punto da far pensare che quasi coincidano. E mai un talento così importante ha saputo mescolare successi imprevisti e precoci con difficoltà altrettanto impreviste causate dalla miopia di chi deteneva il potere economico. Un documentario coinvolgente su un vero e proprio genio, che ci fa capire molto della sua carriera.
Quando ci si sposta nei desolati borghi in altura, al cinema, i rumori si spengono, l'azione rallenta, la narrazione si rarefà, si colgono piccoli particolari che nei film più tradizionali passerebbero inosservati e si cerca un protagonista che incarni al meglio lo spirito quasi eremitico che domina quei posti. Il regista Damiano Giacomelli lo trova in Giorgio Colangeli, che soprattutto negli ultimi anni sta guadagnandosi sempre più partecipazioni variando il genere e dimostrando versatilità non comune. Qui è Ottone Piersanti, un ex maestro elementare ed ex...Leggi tutto giornalista di cronaca locale che - lo si capisce fin dalle prima scene - ha un conto aperto con una famiglia di calabresi migrata dal Sud e che faticosamente cerca di integrarsi. Ottone spara a uno degli appartenenti, ciccando i colpi e sfasciando il suo vecchio fucile, ma ciò non toglie che gli animi siano tesi e si vede.
Poi si rintana in casa, dove vive da solo assistito in qualche modo da un suo ex alunno, Giorgio Petinari (Abruzzetti), diventato poliziotto in un paese che conta quattro anime, disperse tra la bocciofila e pochi altri luoghi di ritrovo. Perché quello che si respira è un clima di totale abbandono, nel quale bene si inserisce la scomparsa di tale Rambaldi, un venditore ambulante partito la mattina e non più rientrato. Un caso che, all'interno del nulla cosmico in cui è immersa Castelrotto, fa scalpore. Tanto che l'ex moglie (Attili) di Ottone, giornalista ormai dedita agli articoli online, spinge l'ex marito a riprendere in mano la penna (o meglio la macchina da scrivere) e, per aiutarlo a "trovare l'ispirazione", gli spedisce lì una giovane e fascinosa stagista, Mina (Tantucci), che non manca di far presto innamorare di sé il buon Petinari...
Ma la scomparsa di Rambaldi entra ed esce dalla vicenda come se restasse sullo sfondo, esile filo che lega scene tra loro spesso riunite in modo frammentario, dominate dal lento incedere del suo protagonista che trasmette la sua indecisione al film, che si appesantisce di conseguenza minuto dopo minuto spesso non riuscendo a comunicare alcun coinvolgimento, arenandosi troppo frequentemente in un nulla di fatto che ha la sua giustificazione esclusivamente nel modo di girare scelto dal regista, vicino a un cinema d'autore cui difetta tuttavia la forza necessaria.
La fotografia slavata che spegne i colori è una scelta piuttosto convenzionale, in casi come questo, mentre lo è molto meno la colonna sonora di Peppe Leone, a forte base percussiva, ricca di contrasti, di passaggi sincopati che si vorrebbero ascoltare meglio e in più parti. Non mancano insomma motivi per apprezzare il film, recitato sommariamente bene, curato nel disegno dei personaggi eppure troppo dispersivo, con un finale velleitario che presenta vaghe tracce felliniane (i musicanti nel bosco) in cui si disperdono le sorprendenti intuizioni espresse dalla testimonianza di Piersanti al processo. Il suo cambiamento nel carattere, da amico di tutti in paese a uomo solitario e burbero, mostra un altro percorso interessante, così come non sono da sottovalutare le relazioni che intercorrono tra le poche figure di spicco in paese. Però il ricorso (corretto, per carità) a un'inflessione dialettale che rende a tratti difficoltosa una piena comprensione, le tante pause, la pesantezza con cui la regia porta avanti la storia, la scelta di sopprimere ogni tipo di azione e di tensione in favore dello scavo psicologico, sono tutti elementi che non depongono a favore della godibilità dell'opera, per molti versi valida ma spesso respingente.
In questi thriller da divano che chiaramente non possono disporre degli stessi mezzi di quelli destinati alle sale, le trame sono ciclicamente sempre le stesse. Quella in cui un elemento estraneo si intromette all'interno di una famiglia felice per sostituirsi in qualche modo a uno dei componenti è tra le più abusate; e, all'interno di queste, la variante più frequente è proprio quella della baby sitter che, millantando referenze inventate lì per lì e spacciate per autentiche grazie a trucchi vari, mostra subito mille risorse diventando, per chi...Leggi tutto ne ha richiesto l'aiuto, insostituibile.
Ecco, l'ambito di THE STRANGER GAME è esattamente quello appena descritto, con la differenza che la tata è qui un... tato, ovvero un uomo. Charlie (Orth), infatti, è il tuttofare che, conosciuto da Joanna Otis (Rogers) a un party legato al suo lavoro (lì fa il cameriere), le si propone per badare al loro figlio Sam (Dubois) quando loro non sono a casa. E capita spesso, perché anche Paul (Hope), il marito di Joanna, è uno che ci dà dentro col lavoro e spesso resta in studio fino a tardi. Anzi, i due escono da una crisi perché lei aveva scoperto come a quei rientri in piena notte era da associare un'amante che con l'uomo filava da oltre un anno! Poi il perdono, il pentimento di lui e il rientro nei ranghi. Ora la nuova "capa" è una sventola bionda (Salomaa), ma Joanna cerca di fidarsi di Paul e lui sembra davvero ravveduto.
Serve una mano in casa, comunque, e Charlie casca come il cacio sui maccheroni: cucina, sistema le lampadine, mette le trappole per i topi, cura il giardino, diventa da subito amico del simpatico cicciottello Sam... Che si può volere di più? Una trama meno scontata? Forse, ma dopotutto ci si può pure accontentare, dal momento che Mimi Rogers garantisce un'interpretazione superiore alla media del genere e che David Orth ha lo sguardo malizioso giusto per tenere tutti sulle spine. Scoprire il suo gioco tuttavia non è cosa da nulla (come non lo è mai, in questi casi); perché è talmente servizievole, gentile, ricco d'ingegno, capace di risolvere ogni problema che non è facile rinunciarci. E perché poi si dovrebbe? Controindicazioni non sembrano essercene ed è il solo Paul a non fidarsi di tanta untuosa disponibilità, come da tradizione. Mamma e figlio, al contrario, ne vanno pazzi. E non si accorgono che se qualcosa comincia a girare storto, nelle relazioni in casa, è perché “qualcuno” ci ha messo lo zampino.
La regia spigliata di Terry Ingram garantisce buona scorrevolezza, i momenti di ambiguo confronto non mancano e solo il finale appare tirato via e inefficace. Quando insomma ci sarebbe da far partire il vero spettacolo... casca un po' il palco e ci si rifugia in una svolta action goffa e modesta, difetto che coinvolge invero un po' tutta l'ultima parte. Meglio quando la famiglia è ancora all'oscuro dei piani di Charlie e ci si diverte a vedere quali stratagemmi il diabolico tato architetta per mettere zizzania tra i coniugi...
Si può guardare se si vuol passare un'ora e mezza senza impegno; poi certo, a contare i buchi e gli spunti buttati lì senza criterio (si veda l'amico che spunta dal passato di Charlie e gli tira un brutto scherzo alle giostre, con zuffa alle spalle di Joanna che non s'avvede di nulla) si dovrebbe essere più impietosi, ma dal momento che in fondo lo si vede con un certo gusto...
Commovente ritratto di un creativo poliedrico, capace come pochi di spaziare nei diversi campi dell'arte lasciando tracce di sé in alcuni casi indelebili. Un documentario tanto più interessante quanto più riesce a trasmettere lo spessore del personaggio, troppo a lungo confinato nell'ambito del cabaret senza che si riuscisse a comprenderne le reali potenzialità. Raccontarne le esperienze, ripercorrere le tappe di una vita tanto varia, significa raccontare il talento dell'uomo, ampiamente riconosciutogli dai tanti intervistati le cui frasi al miele ne certificano...Leggi tutto la straordinarietà.
Inevitabilmente molta parte dell'opera riguarda gli anni in cui Faletti più si è mostrato in pubblico, più ha raggiunto una notorietà riconducibile a un volto, un'espressione, un personaggio. Poi certo, è naturale che l'inatteso, enorme successo ottenuto come scrittore abbia cambiato ogni prospettiva inquadrandolo in un'ottica diversa, culturalmente più elevata. Se “Io uccido” svetta tra i romanzi italiani più venduti di sempre è scontato che ogni altra esperienza precedente venga in qualche modo oscurata.
E' ottimo in regia il lavoro di Alessandro Galluzzi e Michele Truglio nel porre l'attenzione sulle peculiarità della personalità di Faletti, dando risalto (fin dal titolo) alla canzone che, presentata a Sanremo nel 1994, fece conoscere all'Italia intera il volto inedito, di quello strano “comico” che ancora tutti identificavano inevitabilmente con l'agente Vito Catozzo, il personaggio che più di ogni altro era rimasto impresso nella memoria di tutti nonché l'unico tra i tanti suoi (la suora Adalpina, lo stilista gay di ”Emilio”, il bimbo matto Carlino...) che lo stesso Faletti diceva di interpretare “diventandolo”.
Attraverso le fondamentali, toccanti testimonianze della vedova Roberta Bellesini Faletti, del cugino a cui fu vicinissimo, degli amici Enzo Iacchetti, Nino Frassica o Nino Formicola (il Gaspare del due con Zuzzurro) ne cogliamo le debolezze e il carattere fragile, mentre attraverso le parole di due cantautori di successo come Angelo Branduardi (per il quale scrisse due album) o Paolo Conte (astigiano come lui) se ne mettono a fuoco le grandi qualità come autore di testi (scrisse anche per Milva e Gigliola Cinquetti), portate in evidenza per l'appunto dal brano “Signor tenente”. La genesi del brano viene ben spiegata: Faletti chiese a Danilo Amerio e altri di scrivergli una breve introduzione musicale per contrabbandare poi per canzone (a Sanremo all'epoca il rap non esisteva ancora) quello che era di fatto un testo recitato, di buon valore poetico e di denuncia.
Poi il successo definitivo, raggiunto con la pubblicazione di “Io uccido”, e le ridicole accuse (che lo ferirono) di avere alle spalle un ghost writer, le ospitate alle “Invasioni barbariche” di Daria Bignardi e non solo, la giusta celebrazione di chi aveva saputo scrivere un giallo d'impronta internazionale, destinato a segnare la storia del genere in Italia. Fondamentale l'apporto del “collega” Massimo De Cataldo (anche coautore della sceneggiatura), del compianto giornalista musicale Massimo Cotto (a cui il documentario è dedicato), del compagno d'avventure nella Milano fine Settanta Antonio Ricci (che lo lanciò poi in “Drive In”), del regista Fausto Brizzi che lo rilanciò anche come attore in NOTTE PRIMA DEGLI ESAMI (non mancano i simpatici aneddoti raccontati da Nicola Vaporidis) e che ricorda come la frase più citata del suo film fu opera proprio di Faletti, il quale pretese di inserirla per il finale e che Brizzi accettò di lasciare nonostante fosse poco convinto che funzionasse.
Un bel compendio, quindi, delle esperienze che hanno contribuito a iscrivere Giorgio Faletti tra le figure più singolari, eclettiche e fors'anche più sottovalutate dei nostri tempi, sfuggente e maturo, spesso malinconico, talvolta quasi dimenticato a fronte di risultati (almeno a livello di scrittura, sia musicale che letteraria) inavvicinabili dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi più celebrati. Un artista a tutto tondo che non merita di essere dimenticato, che rivediamo in molti sfiziosi filmati d'archivio.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA