Dopo la grandeur reaganiana di ROCKY IV (uno dei film simbolo degli Anni Ottanta) la saga del triste pugile interpretato da Sylvester Stallone torna a dimensioni più umane, e non è un caso che il regista chiamato a dirigerlo sia lo stesso del primo capitolo (di gran lunga il migliore), John Avildsen. La particolarità di questo quinto capitolo sta nel ribaltamento dei ruoli: Rocky non è più il combattente ma il manager e l'immancabile scontro finale avverrà in una sede non proprio idonea. Queste le due novità per un film altrimenti riconducibile con...Leggi tutto facilità ai primi due ROCKY: molto spazio per gli allenamenti e un po' per la famiglia, con gli immancabili Adriana (Talia Shire) e Paulie (Burt Young, sempre impagabile nel ruolo del balordo di buon cuore) ai quali si aggiunge il figlio Junior (Sage Stallone, che si candida a protagonista per un possibile ROCKY VI), alle prese coi soliti problemi a scuola dove i compagni più rozzi lo pestano istigandolo all'inevitabile vendetta sponsorizzata dal padre. Il pupillo di Balboa è invece un giovane dal fisico imponente, Tommy Gunn (Tommy Morrison), che finirà presto sotto le grinfie di un manager senza scrupoli dietro il quale non è difficile riconoscere la figura del famoso Don King, per anni gran tessitore del pugilato mondiale. La storia è costruita bene, con un certo gusto (nonostante qualche scivolone) e riesce come accade da sempre con Rocky ad accumulare la giusta tensione destinata ad esplodere nell'esaltante finale (qui in verità non ripreso benissimo). Nota dolente le musiche di Bill Conti, riciclate e anonime. Burgess Meredith (Mickey) fa un cameo in flashback.
Non si sono certo spremuti le meningi per la sceneggiatura, con il classico pugile sul viale del tramonto, mezzo suonato, ma bonaccione e generoso (i soldi che mancano, il ritorno nei bassifondi e il figlio trascurato). Si lascia vedere, ma si dimentica anche a impressionante velocità. E nel momento in cui il giovane pugile viene messo contro il suo maestro, il film diventa sì più divertente, ma inizia anche a scivolare definitivamente nel banale, con un finale a dir poco improbabile. P.S. Anche Paulie, ora particolarmente buono e saggio ("La barca sta affondando"), non è più lui.
MEMORABILE: La stampa, pagata dal manager cattivone, dopo una vittoria del pupillo di Rocky, lo ritrae in un disegno come una marionetta nelle mani di Balboa.
Caduta di tono nella saga di Rocky... Ora lui, invecchiato, passa ad allenare l'imponente Tommy Morrison (buon pugile anche nella realtà e diventato famoso per aver contratto l'AIDS proprio nella fase migliore della sua carriera). Non convince invece il rapporto tra padre e figlio, soprattutto per colpa di quest'ultimo che proprio attore non è. Burt Young continua invece imperterrito a far breccia nei nostri cuori divertendoci come pochi altri personaggi della storia del cinema. Ottima l'idea del combattimento finale, ma non ben sfruttata.
Gli elementi classici del drammone post declino sono ben presenti e sfruttati, ma quanta noia nel farlo! Fin dalle prime scene si sa già dove il film andrà a parare, così come fin dall'inizio appare arrogantissimo ed antipatico il pupillo di Rocky. Si ricordano le scene di disagio familiare, la proiezione dei sogni dell'ex campione, e, soprattutto, l'improbabile e iper scontata scena finale, che comunque un po' di adrenalina la pompa comunque. Rimandato!
Per il quinto episodio della saga del pugile italo-americano, Stallone richiama alla regia John Avildsen, autore del primo capitolo. Il risultato (probabilmente perchè il primo attore mantiene il controllo della sceneggiatura) non cambie ed è coerente con gli ultimi mesti episodi. Il personaggio appare francamente esaurito e il film si traduce nella solita miscela di botte da ring (e non solo) e buoni sentimenti che appare totalmente prevedibile. Cast all'altezza.
Rocky V, ovvero: Stallone riparte da zero. Per quello che doveva essere, probabilmente, il capitolo finale della saga, viene richiamato il regista dell'inarrivabile prototipo e la storia riporta il nostro eroe ai bassifondi da cui era partito. Un ritorno quindi all'atmosfera originale, anche se viene inserito un elemento di novità (il giovane pugile). Il film si mantiene su un buon livello, con interpretazioni del cast sempre convincenti, risultando un sequel privo di americanismi eccessivi, decisamente più decoroso dei capitoli 3 e 4. Godibile.
Una spanna buona sopra il quarto capitolo. Ben scritto e ben diretto dal ritrovato Avildsen, ha un buon ritmo, una buona costruzione della storia, personaggi approfonditi e un cast in buona forma. Stallone riesce a riscattare il suo personaggio dal limbo di mediocrità in cui era piombato. Young comunque è il migliore della compagnia. Il giovane Tommy Morrison è uno dei pronipoti del grande John Wayne.
Il ritorno alle origini, con la regia affidata a John G. Avildsen, la musica di Bill Conti e il figlio di Rocky impersonato dal vero figlio di Stallone, Sage, è una vera e propria boccata d'ossigeno, dopo l'intermezzo fanta-politico di Rocky IV. Tommy Morrison è un Tommy Gunn che si fa subito detestare, ma se l'intento è quello di gettare un j'accuse sul business del mondo della boxe è riuscito. Ottima la prova di Talia Shire, ma anche Burt Young è decisamente in forma. Gradito il ripescaggio del Mickey di Burgess Meredith nei flashback.
MEMORABILE: Mickey che appare come un fantasma e urla a Rocky durante lo scontro con Tommy Gunn: "Rialzati, non ho sentito la campana... Mickey ti vuole bene"!
La serie di Rocky continua a soprendere aggiornandosi continuamente: torna il tema della povertà da affrontare unitamente ad un nuovo rapporto padre/figlio. Manca il combattimento sul ring (ormai Stallone ha 44 anni) e proprio questo dà alla storia una svolta, inventandosi un Rocky allenatore prima entusiasta e poi deluso dal tradimento del suo pupillo. Memorabili la rissa in strada e i flashback dove rivediamo (seppure brevemente) il vecchio Meredith.
MEMORABILE: "Non ho sentito suonare la campana! Ancora un altro round!"
Dopo il fondo toccato con la quarta versione, la grande svolta visto che ormai il Balboa era bolso assai: Rocky perde tutto, riparte dalle origini nei bassi della città dell'Amore Fraterno e cerca di ricostruire secondo i propri valori. Purtroppo il mondo è cambiato. Il film comunque scorre fino al termine e, pur non essendo un capolavoro, permette almeno allo spettatore di non avere come ultima immagine del pugile più amato della storia quella di un cialtrone sul ring di Mosca. Dignitoso.
Deludente. Se da una parte è apprezzabile il "ritorno alle origini" e un (non certo enorme) cambiamento rispetto ai clichet che hanno caratterizzato la serie, dall'altra ci si rende conto che il tentativo non è del tutto riuscito. Psicologie dei personaggi stereotipate, ma Stallone è sempre simpatico e, a tratti, si nota il ritorno di un regista vero dietro la macchina da presa. Il meno godibile della serie.
Dopo le innumerevoli botte ricevute da Ivan Drago in Rocky 4, Balboa non puù più combattere e decide così di allenare un ragazzo di talento. Rispetto agli altri film della serie mette in luce una trama che non sia esclusivamente incentrata sul combattimento contro il cattivone di turno e questo può essere considerato un pregio. Al sottoscritto (si lo so, sono un inguaribile nostalgico) manca in questa pellicola il Balboa che si allena, che sembra perdere e poi vince, che cerca e grida Adrianaaaaa...
A quanto pare il quarto capitolo non ha solo rovinato la saga, ma pure lo stesso Rocky: costretto al ritiro, decide di allenare un giovane e ambizioso pugile. Avildsen torna dietro la macchina da presa e punta a ricreare l'atmosfera del primo capitolo, tuttavia con un risultato mediocre. Il problema principale è un sentimentalismo familiarista rozzo e gratuito, unito ad un ritmo diseguale che smorza il tono della pellicola. Ma la presenza di Young e certe sequenze ben girate rendono il film degno di almeno una visione.
Altra perla rara per Stallone, che mette in scena un penultimo atto della saga per nulla al di sotto delle aspettative, anzi. Questa volta troviamo Rocky nei panni di allenatore dell'ottimo Tommy Gunn (peraltro vero pugile) e del padre distratto e non all'altezza delle aspettative del figlio, sempre isolato e perennemente alla ricerca del suo affetto. Un film a tratti triste e con un combattimento finale, su strada, eccellente.
MEMORABILE: Bravo l'hai messo giù; ora perché non ci provi con me?
...e arrivarono i critici a stroncare il divertentissimo Rocky IV. Stallone, dunque, cerca di correre ai ripari modificando il personaggio e la trama per scacciare le polemiche di quelli che "se ne intendono". Alla fine il film è triste, gelido, noioso... Il pubblico rimane deluso ma forse quei critici saranno soddisfatti. Se non fosse che, chissà, forse, la loro era solo invidia.
Formula vincente non si cambia, è questo il successo (anche di critica) del quinto capitolo della saga di Rocky, nata dalla strada e giunta al suo apice nella strada. Molta attenzione alla continuità, da Bill Conti alle prime sequenze (le ultime di Rocky IV) e ancora una parte del cast originale che include flashback del vecchio maestro di Rocky proseguendo con Talia Shire che anche qui dà un'ottima interpretazione memore dell'esperienza passata e della conoscenza del suo personaggio. Un mito che riesce a rinnovarsi nella sua essenza.
Dopo il fracassone Rocky IV (trionfo del sogno americano e del reganismo) Stallone riveste i panni del noto pugile, ma il quinto capitolo della saga è anche una netta presa di distanza dal precedente: svaniscono i sogni, lo sperpero di denaro, i ring blasonati e si ritorna alle umili origini (la sceneggiatura prevede la caduta in disgrazia di Rocky). Si parla di malattia, di amicizia tradita contestualizzata in una bigia Philadelphia. Una volta accettato il mutamento, il film funziona... gli Anni '90 sono arrivati!
Dire che non mi è piaciuto non rende bene l'idea dello sconforto che ho provato nel vederlo. Questo ritorno alle origini è sì interessante ma mal sfruttato e tutti i personaggi mi sono parsi un po' sotto tono. La regia di Avildsen (firmatario del primo Rocky) non può fare miracoli e anche lei viene risucchiata in una spirale poco attraente. Buono il finale e coinvolgenti i ricordi con Mickey, ma nell'insieme la saga di Rocky non poteva chiudere con questo capitolo. ** di stima.
Pensandoci, meglio Rocky IV di quest’inutile parabola sportiva su caduta, riscatto, probabile risalita e tradimento. Un ritorno alle origini (con pretesto al limite dell’esilarante) che francamente ha il sapore del polpettone stracotto, intriso com’è di retorica di formazione, flashback discutibili, rapporto dozzinale tra padre-figlio (con intramezzi risibili e vacui) e riscoperta dei valori di un tempo sommersi oramai da cupidigia, egoismo e avarizia delle nuove generazioni. Scontro finale ai limiti del trash più orgogliosamente ostentato.
Si torna nelle location da cui tutto partì quattordici anni prima; l'unica differenza è la trama forzata e stanca di un film uscito soltanto per esigenze di contratto. Questa volta il contraltare di Balboa è un ventenne sbandato che lui stesso lancia nel panorama boxistico rendendolo famoso; Tommy però, anzichè ringraziare il suo pigmalione che lo tratta come (e quasi più di) un figlio, lo tradirà. Tra mille peripezie si arriverà al finale, assai incerto e incompiuto. Molto meglio il capitolo di sedici anni dopo.
Tornare alle origini con Avildsen poteva essere una giusta mossa per questa quinta parte della bellissima saga. Per un certo verso è una mossa riuscita, visto che - causa un fallimento finanziario - il buon Rocky torna nella Philadelphia sporca ben fotografata, ma mancano alcuni piccoli anelli di congiuntura. Per prima cosa i siparietti con la famiglia sono di terza categoria. Tommy Gunn è comunque odioso al punto giusto ed è accettabile pure il finale da gang-stradaiola. Una cosa non si può tollerare: il rap e il campionamento di "Eye of the Tiger".
Tutti gli dei erano immortali, ma nessuno è esente dall’avere succedanei. Astro calante inadatto alla lotta e ridotto per le pezze, Rocky può giusto reinventarsi in veste di manager, con un pupillo ingrato che ritorcendoglisi contro gli ridarà la perduta gloria. Ormai ridotto a maniera e macchietta, a Stallone non resta che dribblare l’una e invertire l’altra incarnando l’anti-eroe equamente spartito tra brama di riscatto e dissesto familiare, in una riflessione facilona sull’insuccesso quale rifrazione della gloria e viceversa. Peccato che Avildsen vi addivenga rincorrendo il blockbuster e al prezzo di qualunquismi e posticce soluzioni non sempre perdonabili.
Arrivati al numero cinque Stallone decide di cambiare qualcosa per evitare di ripetersi troppo e, nonostante i primi minuti lascino presagire il contrario, questo capitolo rappresenta un piccolo elemento di discontinuità. Rocky ritorna da dove era venuto, dai sobborghi stradaioli di Philadelphia, ma non perde il suo sentimentalismo e la rabbia con cui affronta i colpi della vita. Cambia anche la colonna sonora che, oltre ai brani storici, tenta la via del rap.
Quinto capitolo, con una trama diversa dal solito; con l'ormai pensionato Rocky che si trova ad allenare un giovane pugile promettente (Tommy Morrison). Buoni l'inizio, il rapporto Rocky-figlio e i flashback con il maestro di sempre Micky oramai defunto. Con il passare dei minuti però il film ha il difetto di perdersi e nell'ultima mezz'ora convince poco.
Torna John G. Avildsen alla regia, come nel primo irripetibile episodio della saga, ma purtroppo il personaggio Rocky ha ormai finito tutte le cartucce che poteva sparare. La sceneggiatura non decolla mai e ci si ritrova a dover fare i conti con una storia francamente debole e stanca. C'è un interessante ma banalmente rappresentato conflitto padre-figlio e qualche buona battuta, ma in sostanza "la barca sta affondando", come dice Paulie in una scena.
Se col IV capitolo il personaggio di Rocky Balboa aveva raggiunto l’apice del successo, il quinto non poteva che raccontarne il declino. È comprensibile che il grande pubblico americano, dopo la sbornia nazionalistica del IV episodio, non abbia apprezzato il ritorno alla realtà; stupisce però il giudizio ultranegativo della critica, perché il film di Avildsen e Stallone non solo completa la parabola di Rocky in maniera coerente col primo episodio, ma lo fa ricollegandosi al finale del quarto, giustificandone in qualche modo l’esistenza.
Il tempo passa, la saga invecchia e i personaggi storici spariscono. Non ci sono più Mickey e Apollo e Rocky è ormai anziano per combattere, così mette a frutto l'esperienza dei capitoli precedenti per insegnare il mestiere a un giovane, come fece Mickey con lui. Operazione nostalgia, tra i ricordi passati, i problemi fisici e lezioni morali dispensate qua e là. Certo, senza i guantoni Rocky è un'altra cosa, anche se alla fine si concede un'esagerata scazzottata da strada con l'ex allievo, perché i sobborghi di Filadelfia non moriranno mai.
Dopo le spacconate del capitolo IV si torna alle origini e non per niente il timone torna nelle mani del regista primigenio, il compianto e bravo Avildsen. Quindi boxe, sentimenti e umanità, con Rocky tornato persona normale e con la consueta vicenda di ascesa (qui del pupillo), tradimento e riscatto finale. Sly ha dimostrato di essere un buon attore forse solo in questa serie e anche qui fa bene, poi c'è il consueto staff con Burt Young in testa, la regia è buona ma la vicenda è abbastanza risaputa. Bene comunque.
Torna alla regia colui che diede inizio alla saga. Purtroppo il risultato non è proprio lo stesso ottenuto col primo capitolo e alla fine si tratta di un film da pcoo, alquanto irrealistico nonostante la partecipazione di un vero pugile come attore. Forse era meglio fermarsi al numero tre (il quarto meglio nemmeno citarlo), che era sì mediocre ma se paragonato a questo era un gran film.
Il ritorno di Avildsen non riesce a restituire lo smalto che la saga aveva già perduto. L'assenza di personaggi carismatici (Mick, Apollo) sposta tutto il peso della pellicola sul buon Sly, che riesce ancora a essere efficace ma non può fare miracoli. Poco credibile (perché repentino) il cambio di bandiera di Tommy Gunn, troppo tedioso il personaggio di Robert, troppo caricaturale Duke. I presupposti per un buon episodio, tutto sommato, c'erano tutti, ma ci si è accontentati di una sceneggiatura approssimativa. Occasione sprecata.
MEMORABILE: Il flashback in cui Mick regala a Rocky il gemello di Marciano; La scazzottata finale per strada (con tanto di volo fatto fare al viscido Duke).
Rocky torna dalla Russia con due sgradite sorprese: la sua salute, che non gli permette più di salire sul ring e il fallimento, con conseguente perdita dei suoi soldi. Il nostro è costretto a vendere i propri beni, a cambiar casa e sostanzialmente a ricominciare da capo. Ma una nuova sfida incombe. Stallone ha spesso "rinnegato" questo capitolo, che invece ha delle sue peculiarità e un suo valore. Certo, qualche aggiustamento ci poteva stare, ma ci sono una poetica e un certo romanticismo. Segnalazione per il luciferino Richard Gant.
MEMORABILE: La colonna sonora, su tutte "Keep it up" degli Snap che sottolinea gli incontri di Tommy; Il manager senza scrupoli, che ricalca il celebre Don King.
Alcuni fattori hanno penalizzato il film: checché ne dica il protagonista, il pubblico lo vuole sul quadrato (dove lo ha sempre premiato) che combatte per una cintura o per la morte di un amico; le motivazioni qui non convincono e Stallone non fa molto per rendere il personaggio meno anacronistico di quel che è. Il ritorno alla povertà genera le cose migliori con la Shire e Young sugli scudi mentre il resto del cast è da TV movie; altra storia sarebbe stata se la produzione avesse assecondato l’idea iniziale di Stallone di far morire il personaggio.
Il cerchio pare chiudersi: il regista è lo stesso del primo capitolo e Rocky torna in strada (impossibilitato a tornare sul ring e nelle vesti di allenatore). Stavolta, il dramma del protagonista è tutto interiore; senza contare che il Nostro prende una grossa cantonata focalizzandosi sulla persona sbagliata e trascurando gli affetti familiari... Anche se la trama non è originale (ricorda Bomber con Bud Spencer), il finale teso dal retrogusto amaro è comunque denso di significato. Ottima prova dell'intero cast (anni dopo Stallone jr. e Morrison moriranno entrambi prematuramente).
Un canto del cigno pieno di umanità, una pellicola in cui la boxe fa solo da cornice e la vera tematica è il rapporto padre-figlio e maestro-allievo. Meno testosterone (lo Stallone italiano non sale sul ring e le musiche adrenaliniche hanno un ruolo molto limitato), ma parecchio cuore per un film intenso che con una chiave diversa dal solito riesce a colpire ancora una volta con forza!
Il ritorno di Avildsen alla regia corrisponde al ritorno di Rocky alla strada, laddove tutto era cominciato. Si passa dal trionfale over-the-top di Ivan Drago al dramma personale di un campione in rovina, che arriva a trascurare la famiglia in nome di un surrogato di gloria che gli si rivolterà contro. L'idea non piacque al pubblico, né allo stesso Sly, che ha rinnegato l'opera, ma nonostante varie ingenuità a livello di script, non per ultima la morigeratezza dei toni tragici (il finale originale avrebbe avuto tutt'altro peso), resta un sequel all’altezza dei precedenti. Underrated.
MEMORABILE: Rocky tremante dopo l'incontro; Il montaggio con l'allenamento di Gunn alternato a quello di Rocky Jr.; Lite familiare a Natale; L'ultima scazzottata.
Sly riparte dal grado zero di Rocky richiamando in cabina di regia Avildsen (a cose fatte più per una questione di "principio" che per un qualche imprimatur stilistico) e tornando, per scelta di script, nei sobborghi di Philadelphia. Ne vien fuori un concept decisamente grezzo e basico, la cui ruspante banalità, pur risultando sovente imbarazzante (i duetti e il subplot con lo sfortunato Sage, i flashback di Mickey, il voltafaccia lunatico di Morrison), è di vitale, divertita baldanza. Richard Gant appare perfino più estremo e sovraccarico del Don King cui si ispira... e ce ne vuole.
Nella workprint recentemente rilasciata, che connota in maniera lievemente diversa e più positiva Tommy Gunn, il film non cambia troppo nella sostanza, ma rimane un bel ritorno alle origini più "a sinistra" e popolari, delle origini. Dalla gestazione travagliata (ma sullo schermo la cosa non traspare); nonostante il ritorno nel vecchio quartiere a un livello di vita da classe lavoratrice per colpa del commercialista disonesto sia poco credibile, il film prende quota nel secondo tempo. La rissa finale da strada è un bel pezzo di cinema, tra i migliori del genere, oltre che originale.
MEMORABILE: L'inizio che si "salda" con la fine a Mosca di Rocky IV; Paulie incassatore d'un destro da Tommy Gunn; L'apparizione del fantasma di Mickey sul ponte.
Stallone fa il verso a Bud Spencer e allena il suo rampollo ingrato. La storia non è (e non può essere) all'altezza dei primidue ma di certo cancella l'imbarazzo del terzo e del quarto capitolo restituendo al personaggio l'umanità e la genuinità iniziale. Data la vistosa differenza d'età e il temperamento dello strafottente "Tommy Gunn", è intelligente l'idea dello scontro finale in strada e non sul ring. Col senno di poi, davvero commoventi le scene con il figlio (sul set e nella vita) Sage Stallone, scomparso troppo presto. E non finisce qui.
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Esordio cinematografico per Sage Moonblood Stallone, il figlio di Sylvester Stallone, morto nel 2012;
1991 Young Artist Awards - nomination miglior attore non protagonista.