Rassegna estiva: Italian Graffiti d'agosto Straordinario tour de force antonioniano, con uno degli incipit più belli del nostro cinema anni 60 (la Vitti che esce dalla villa di Rabal e si incammina per un Eur spettrale e quasi post apocalittico, altro che quella poveracciata de
L'ultimo uomo della terra!), dove le scenografie degli interni e degli esterni sono pura gioia per gli occhi, e diventano protagonisti assoluti.
Una Vitti svuotata e sospesa (col ticchettio dei sandaletti con il tacco) che si barcamena tra una madre venale che gioca in borsa e pene d'amor perdute , un Delon piuttosto schifosetto e subdolo (che appella le sue amanti occasionali come "bestioline"), una Roma algida, ma al contempo quasi "futuristica", una sorvolata su Verona e
Eclisse twist di Mina che brilla sui titoli di testa (e quando la Vitti ispeziona la funerea casa di Delon).
Momenti di assoluto gran cinema (la Vitti e le sue due amichette nell'appartamento, con quest'ultima che, truccata da africana, improvvisa una danza tribale-con stoccate sui negri , chiamati "scimmie" che oggi non passerebbero-, l'Alfa Romeo cabrio rubata a Delon, poi ripescata con cadavere, Marta che, dal balcone del suo palazzo, tira una fucilata al palloncino, la Vitti che segue, silenziosa, un giocatore di borsa che ha perso 50 milioni tra farmacie e tavolini di un bar, i due negri fuori dal bar dell'aereoporto veronese, Rabal che tenta di entrare nel palazzo dove abita la Vitti, in una costruzione geometrica dell'immagine sacheggiata dai thriller nostrani a partire da Mario Bava).
Le sequenze della borsa romana, forse, andavano un pò accorciate, ma è lì che si sente Delon pronunciare la parola "troia" , inusuale per un film dei primi anni 60.
E tra incomunicabilità tanto cara all'autore di ferrara, Delon che apre il giornale e si leggono titoli di donne misteriosamente e brutalmente assassinate, appuntamenti che non avverrano mai, baci attraverso le vetrate, gelide seduzioni, cinismo e mal di vivere, ti arrivano quei cinque minuti finali che sono di una bellezza quasi agghiacciante e inquietante, dove, pare, che i due amanti non siano mai esistiti, dove sembra succedere un ecatombe di terrificanti proporzioni, e dove c'è tutto il cinema del Dario Argento che verrà (il bus che si ferma, raccoglie un passeggero e riparte, tra gli alberi mossi dal vento, è presa di peso nell'intro di
Phenomena).
Antonioni ammalia, affascina, ipnotizza, lascia che siano le costruzioni, le strade vuote, i viali, i giardinetti, la maestosità del fungo dell' Eur, i palazzi, gli irrigatori, le location suggestive a costruire il racconto. Un racconto fatta di silenzi, caos (la borsa), amoretti superficiali, il mito di una terra lontana (l'africa), la sfuggente passionalità di una Vitti che fa telefonate mute, spia dalla finestra, girovagando per una Roma alienata e algida, silenziosa e quasi fantascientifica.
Quello che può sembrare sfiancante e "noioso", e, in realtà, una raggelante manifestazione del vuoto interiore (gli incontri con le amiche, l'indifferenza verso l'ex, il cinismo di Delon- la sequenza delle cornette del telefono riagganciate valgono più di mille parole- la fredezza della madre, i clienti messi sul lastrico).
Inaspettato il twist finale con la ragazza bionda di spalle che cammina sul marciapiede.
Pura essenza del cinema antonioniano, con quella chiusa sull'accecante luce del lampione, che vale quanto una partita di tennis senza la pallina o la villa che esplode più volte a ritmo dei Pink Floyd.