Un bel titolo che racchiude in sé l'approccio freddo, gelido (suggerito anche dall'ambientazione inizialmente immersa nella neve), inusuale, al dubbio instillato nello spettatore da tanto cinema thriller e facilmente riassumibile in un’unica frase: è colpevole o non lo è? Il sospetto, insomma, hitchcockianamente parlando, non può che sorgere: Samuel Maleski (Theis), insegnante e aspirante scrittore, trovato da suo figlio riverso sulla neve in una pozza di sangue di fronte alla loro casa, com'è caduto dalla finestra del terzo piano? Suicidio? Incidente? L’ipotesi ben più inquietante...Leggi tutto è diversa: omicidio. In questo caso l'unica possibile responsabile, a quanto sembra, è sua moglie Sandra (Huller), nell'abitazione con lui - al piano di sotto, dice lei - al momento del fattaccio.
Il primo a contattare Sandra è l'avvocato della difesa, Renzi (Arlaud), che la conosce da una vita e che pare assolutamente convinto della sua innocenza: il problema è dimostrarlo, perché è evidente come non sia facile fugare i dubbi, per mille immaginabili motivi. Daniel (Machado-Graner), il figlio ipovedente, non ricorda nulla tranne forse di aver sentito i genitori discutere, prima di essere uscito con il cane per fare un giro nei dintorni e di essere tornato in tempo per rinvenire il cadavere del padre.
Le indagini sembrano procedere ai margini del film, perché dai lunghi confronti con l'avvocato si passa direttamente al processo, in cui protagonista diventa soprattutto il pubblico ministero (Reinartz), che cerca di mettere in luce i contrasti esistenti tra Sandra e la vittima. Non c'è però una vera sfida: la donna non pare affatto reticente, né irritata o sopra le righe: la sua naturalezza, anzi, diventa il vero valore aggiunto del film, che ci regala un personaggio di grande spessore, profondamente umano e così diverso da quelli che di norma il cinema propone in ruoli simili.
Tedesca, Sandra ha conosciuto a Londra Samuel e per compiacerlo ha accettato di vivere in Francia nel paese d'origine di lui. Il suo carattere emerge attraverso le debolezze, le incertezze, la fragilità, con gli impacci per una lingua che non padroneggia ancora al meglio e la costringe a ricorrere molto spesso all'inglese (con sottotitoli nella versione italiana). In aula è sempre compita e fornisce con estrema precisione la propria versione dei fatti, anche di fronte a chi fa di tutto per metterne in dubbio la moralità. Perché è sul versante psicologico che il film lavora con accuratezza, senza lasciare un solo dialogo al caso. Non esiste una ricerca dello spettacolo fine a se stesso quanto piuttosto una regia che regge benissimo la lunga durata (due ore e mezzo), persino quando incappa in qualche fase meno interessante di altre.
Senza ricorrere a virtuosismi particolari che caratterizzano chissà perché solo i primi minuti (stop frame sulle fotografie, movimenti inusuali della mdp...), la regista Justine Triet riveste l'intera vicenda di una patina di autenticità disarmante, lontana da certe tronfie produzioni d'oltreoceano, ricercando un minimalismo efficace nella messa in scena e mettendo a fuoco ottimamente anche la figura del figlio, frastornato e comprensibilmente a disagio in un contesto che lo spaventa. Non c'è bisogno di colpi di scena eclatanti, basta sfruttare con intelligenza i pochi che la sceneggiatura propone per dare le necessarie svolte alla storia e rendere appassionante la lunga fase processuale, nella quale Reinartz si prende la scena dopo che Arlaud prima di lui aveva saputo fare altrettanto. Una Palma d'oro di valore, un giallo francese sui generis che, per quanto non sensazionale o interpretato in modo indimenticabile, non mancherà di farsi ricordare.
Un marito cade dalla finestra della sua baita di montagna e muore. Cosa è successo? E' ciò che la sceneggiatura cerca di ricostruire in un'opera dalle più anime: per lo più sembra un film processuale e lo è, ma è anche un dramma familiare. Alla fine però si scopre che è soprattutto un film sull'infanzia violata, calpestata, distrutta. E c'è ancora molto altro in una pellicola densa di spunti intriganti che stimoleranno discussioni anche a fine visione: merito non piccolo per un film dei nostri giorni, anche se le cose dette non sono certo del tutto originali. Vale la visione.
Ottimo film che mette in scena una morte sospetta e che da quel momento va a scavare nei meandri dei drammi e dei rapporti famigliari. Gran parte del film si svolge all'interno di un'aula di tribunale, ma nonostante si parli molto c'è anche spazio per ottime trovate di regia, soprattutto sul piano visivo. Bravi gli attori ma il bambino una spanna sopra tutti gli altri.
Suicidio od omicidio da parte della moglie? E' ciò che tentano di stabilire prima la polizia, poi i giudici, riguardo alla morte di un insegnante caduto dalla soffitta della baita isolata dove è andato ad abitare con la famiglia. "Legal" movie che guarda ai classici (Preminger riecheggia nel titolo) per dissezionare, in realtà, un rapporto di coppia approdato a una crisi insanabile. La mdp si fa strumento giudiziario d'indagine che tenta la ricucitura del reale per arrendersi di fronte a una verità sempre inconoscibile. Geometrico, rigoroso, speculativo, ma coinvolgente.
MEMORABILE: La scena del diverbio fra i coniugi messa in scena attraverso le registrazioni audio.
Ambientazione gelida per una vera e propria autopsia di coppia. Il marito cade dalla finestra di casa e muore. Si è buttato o è stato spinto? Durante un lungo processo il rapporto tra i coniugi verrà vivisezionato senza nessuno scrupolo. Nonostante la durata si resta incollati allo schermo grazie anche all'interpretazione della Huller e del sorprendente ragazzino ipovedente. Ottimo.
MEMORABILE: L'ascolto dell'audio del litigio in aula.
Non smettiamo mai di dubitare, fino all'ultimo fotogramma, mentre l'autopsia viene operata non tanto sul corpo morto della presunta vittima, ma su quello vivo della presunta carnefice. Sulla sua intimità, sulla sua psiche, anche. La violenza è istituzionalizzata, l'abuso un protocollo da espletare, a cui sottomettersi e sopravvivere, dopo l'ecatombe familiare. Se la verità non è riducibile ai soli fatti, alla concatenazione causale, allora può essere compresa solo dal beneficio del dubbio. Film processuale imponente, di assoluto rigore speculativo, magnificato dagli interpreti.
C'è qualcosa di sfuggente, in questo film. Al di là delle eccellenti interpretazioni (la Hüller strepitosa), il film sembra sempre sul punto di decollare, mentre è un'esplosione sorda, controllata. Parrebbe un dramma giudiziario, o forse un dramma familiare, ma alla fine è la descrizione di una personalità complessa, come lo è quella di chiunque, forse in questo caso anche di più. Tre quarti d'ora in meno avrebbero giovato.
MEMORABILE: Il pubblico ministero; Le interpretazioni di madre, figlio e... cane.
La misura nel racconto di questo dramma non è solo nelle mani delicate della Triet, nei tempi e nei modi che riesce a mettere su schermo, indugiando ora (e parecchio) sul versante processuale per posarsi, nei momenti che contano, sui contorni umani della vicenda. L'opera di finezza sta anche nella meravigliosa prova recitativa della Hüller, sostenuta da un eccellente Milo Machado Graner, nel ruolo del figliolo. Ne nasce un lavoro in cui l'evento, di per sé, rimane costantemente trattenuto e la tensione che ne scaturisce sorregge perfettamente tutte le due ore e mezza.
MEMORABILE: Il litigio, più autentico del pur meraviglioso crescendo di Marriage Story; Lo sguardo di Daniel a interrompere il giudice; Commiato al ristorante.
Ammirevole architettura di piani di lettura per questo film in cui la verità giudiziaria (che oscilla tra lo sgradevole cinismo accusatorio e l'ambiguità dei rapporti familiari) e la psicologica domestica si intrecciano mirabilmente. Film sul non vedere o il non voler vedere, formalmente esemplare nel détournement narrativo (la lite via audio al processo, il giro in macchina con il padre doppiato dal figlio, il ruolo del cane, quello dell'assistente sociale, quello della finzione letteraria), trova in una strepitosa Sandra Hüller e nel figlio due attori che sgomentano per intensità.
Certe volte il passo tra tumultuosi tinelli familiari e le aule di tribunale è molto breve: si cade da una finestra, si muore e chi resta piange e viene inquisito. La Triet gestisce con cura i tempi del dramma, mantenendo una impostazione euclidea quasi da laboratorio innervata da momenti emotivamente intensi e tiene bene la briglia degli attori. Tuttavia, la tagliola della verbosità finisce per scattare soprattutto in occasione di lunghi scambi tra avvocati e periti che poco portano al vero epicentro della storia, ovvero quell'universo misterioso e insondabile che è ogni famiglia.
Riuscita pellicola giudiziario-investigativa, ricca di spunti incalzanti e in grado di tenere costantemente alta l'attenzione nonostante alcune pause non sempre necessarie, tra cui le parentesi imputata-difesa che sembrano una sfida gratuita allo spettatore che teme l'immancabile love story. Nelle lunghi parti tribunalesche il ricattatorio (accusa e giudice sfiancanti e lombrosiani, quasi alla Dreyer) si fa sentire, ma ciò non va a discapito delle ricostruzioni, piuttosto convincenti. Belle ambientazioni, interpretazioni credibili, regia rigorosa, finale narrativamente irrisolto.
Anatomia di un processo: una scrittrice viene accusata della morte del marito e questo apre dibattiti su quanto i giudizi siano inquinati dagli obiettivi degli avvocati e quanto la verità possa essere difficilmente obiettivabile. Al solito si scava nell’intimità della vita familiare e non mancano i pregiudizi e i luoghi comuni. Molto brava la protagonista con la sua vasta gamma espressiva, il resto è un buon film giudiziario, non già un capolavoro.
Suicidio di uno scrittore mancato oppure omicidio da parte della moglie scrittrice affermata? Esclusa la possibilità di un incidente, questo il dilemma che devono affrontare i giudici e anche lo spettatore, dato che non esistono prove ma solo indizi contraddittori mentre l'unico possibile testimone è il figlio della coppia, un undicenne ipovedente. Bel film processuale incentrato sull'autopsia di un matrimonio segnato da incomprensioni reciproche, sensi di colpa, frustrazioni e tradimenti. Bravi Hüller e il piccolo Machado Graner, commovente vittima delle beghe tra i genitori.
Più anatomia di un rapporto di coppia che della caduta mortale: suicidio oppure omicidio? Disturbante nell'assillo giudiziario e ferocemente votato al denudare i rapporti familiari, il film viene diretto con forte padronanza dei temi proposti: incisiva, in tal senso, la scelta di ignorare "l'effetto" per andare a fotografare la "causa". Nulla da eccepire sulla direzione attoriale; molto male, invece, la gestione del ritmo narrativo (l'inizio fatica a carburare e ci sono almeno venti minuti di troppo rispetto al quadro finale). Visione a tratti prolissa, ma molto intensa.
MEMORABILE: La scoperta del corpo; La registrazione audio in tribunale; Il pubblico ministero; Il cane con l'aspirina; Il padre doppiato dal bambino; Il finale.
Film che parte benissimo, insinuando un bel clima di mistero e una tensione tangibile. Man mano che la storia procede però, ci si rende conto che alla Triet più che la soluzione del giallo interessa scandagliare un complicato rapporto di coppia (il finale aperto ne è la prova) e la verbosità finisce col prendere il sopravvento, anche a causa di una durata eccessiva (almeno venti minuti sono di troppo). Interpretazioni ottime (su tutti il ragazzino), risultato complessivamente buono ma le aspettative sono in parte disattese e i riferimenti a Preminger rischiano di limitarsi al titolo.
Caduta nel senso di fatto delittuoso ma anche della caduta di un rapporto e del lento scivolare delle indagini processuali all'interno di una coppia dove le cose non erano semplicissime. È abile la sceneggiatura a scandagliare l'animo della protagonista e di suo figlio (entrambi interpretati benissimo) con l'aiuto di una regia essenziale e un montaggio puntuale, che aiutano ad avvolgere lo spettatore negli stessi dubbi degli inquirenti e a cambiare spesso di posizione. Un po' lungo, soprattutto nella prima parte, e sicuramente non originale ma un buon lavoro, dalla scrittura curata.
Film ambizioso, anche curato nei dialoghi e nella costruzione del parallelo tra storia giudiziaria e storia di una famiglia in cui serpeggia il dissidio tra i genitori. Peccato che la montante verbosità danneggi la prima ora e contribuisca a renderla monocorde, poco modulata nel gestire quella che dovrebbe essere la suspense processuale. Pure la Huller si trova prigioniera di un personaggio costretto a parlare in lingua inglese, forse a stressarne la fragilità contingente. Più fluida la seconda metà di un film che poteva benissimo beneficiare di una sforbiciata.
Al di là della mera vicenda di cui il film tratta, è indubbio il valore di una pellicola che pone al centro della narrazione la "dissezione anatomica" di un legame sentimentale e i conseguenti eventi traumatici su un incolpevole bambino - la cui figura cresce progressivamente nel corso della storia - mantenendo comunque una forte ambiguità di fondo. Un film teso come un thriller, tutto sommato meno "verboso" di quello che si poteva temere e come possono essere i film "processuali", retto dalla straordinarie prove di Sandra Hüller e di Milo Machado Graner.
Girato in modo magistrale (ci sono almeno un paio di scene geniali sul montaggio video e audio). La regista Triet immerge, letteralmente, lo spettatore in un legal drama denso di dialoghi fino quasi a stordirlo, lasciandolo per tutto il film a porsi la domanda errata, ovvero se la protagonista fosse o meno realmente colpevole. Il vero interrogativo del film viene proposto a una manciata di minuti dal termine del film ed è viscerale.
La caduta cui fa riferimento il titolo è certamente quella di una famiglia e, come spesso accade, a pagarne le spese maggiori è un bambino. In questo caso oltretutto non vedente e terrorizzato dalla possibilità di perdere la madre, accusata dell'omicidio del babbo. Un film gelido come la neve che domina la prima parte e foriero di domande, come il lungo processo che si dipana nella seconda. Le grandi assenti sono invece le risposte, come sempre di fronte alla morte. Tutti gli attori sono molto bravi, ma la prova di Reinartz è davvero da manuale. Buon film.
Moglie finisce a processo per la morte, accidentale o dolosa, del marito. Film giudiziario che scava nel rapporto di coppia: gli interrogatori hanno un certo ritmo e vengono evitati colpi bassi (le divagazioni letterarie però sono alquanto fumose). Regia che ha una costruzione classica e che ha qualche idea che va a segno. La questione della doppia lingua complica solo la visione. La Hüller dimostra tutto il suo talento. Il finale non riesce a essere incisivo nella sua risoluzione.
MEMORABILE: La ricostruzione; La registrazione con i colpi del litigio; Il cane morente.
La caduta non è tanto quella mortale del marito, quanto quella di un rapporto fragile e crepato, portato alla luce dal processo alla moglie accusata di omicidio. Al netto della (inutile) complicazione del bilinguismo e della (probabile) forzatura sulla presenza di un bambino in tribunale, è un film implacabile nell’autopsia di un defunto amore e nel ritratto dei due sopravvissuti: la donna impenetrabile come Sfinge e il ragazzino cieco come Edipo che assiste al crollo della famiglia, ovvero l’arcaicità del mito precipitata (caduta) nel contemporaneo.
Il fin troppo lungo dibattimento processuale sembra in realtà poco più di una cornice per anatomizzare le distonie di una coppia in cui entrambi perseguono un fine personale, lei con successo, lui con difficoltà non solo creative, con in più il senso di colpa per il trauma che ha reso il figlioletto ipovedente. La narrazione tuttavia è piuttosto sghemba con buone intuizioni e molte lungaggini e diversi aspetti opinabili sulla conduzione del processo e sul ruolo del minore. Si sorvola sulla durata soprattutto in virtù della toccante prova della Hüller e del piccolo Machado-Graner.
Anatomia di una caduta, scene di dissezione da un matrimonio, fenomenologia di una relazione ma soprattutto struttura e forma di un cinema umanista che ancora si mostra in grado, utilizzando i suoi dispositivi narrativi classici in canone di ambiguità (la visione come punto di vista, il suono inteso come ascolto e il linguaggio come fraintendimento), di sorprendere, coinvolgere, confrontarsi dialetticamente. La Triet costruisce un teorema lucido, utilizzando al meglio la sensibilità di ogni protagonista, scandagliando (quasi) senza cedimenti la tridimensionalità della settima arte.
MEMORABILE: La Huller; Arlaud; Machado Graner; Reinartz.
Film glaciale e appassionante, con una sceneggiatura che sfiora la perfezione. Si potrebbe anche dire nulla di nuovo sotto il sole da Rashomon a questa parte, ma non renderebbe del tutto giustizia a un dramma familiare e legale che mescola le lingue, i ruoli di genere e le riflessioni sulla creazione di letteratura in una scenario indubbiamente attuale, indi per cui innovativo. Più su binari conosciuti invece la caratterizzazione del pubblico ministero e media al seguito. Indimenticabile il personaggio del bambino con cane al seguito, che forse sa più di quel che nel film vien detto.
Uno scrittore in crisi creativa ed esistenziale viene ritrovato privo di vita sulla neve dal figlio ipovedente e dal suo cane. Comincerà un processo che vedrà coinvolta e prima sospettata la moglie anch'essa scrittice ma di successo. Justine Triet ha il merito di coinvolgere lo spettatore in una storia cupa e malinconica in cui la famiglia dei protagonisti viene vivisezionata e gettata in pasto ai media e in generale a tutti i partecipanti del processo. La figura del bambino però non è molto credibile e l'opera soffre di un minutaggio eccessivo e di qualche momento di stanca di troppo.
MEMORABILE: L'incipit iniziale con l'insopportabile musica a tutto volume in sottofondo; La ricostruzione del litigio tra moglie e marito.
Complesso, ambizioso, non priva di difetti, ma certamente affascinante. Vale sia per la protagonista, sia per questa variazione sul tema del legal drama, che indaga su un suicidio sospetto e sulla possibile responsabile. Coppia di scrittori in crisi, artistica per lui, matrimoniale per lei, un figlio ipovedente (per colpa di lui), una caduta dalla mansarda e una chiazza di sangue sulla neve. In aula, però, non va la caduta ma il matrimonio, dissezionato in ogni aspetto, inclusi quelli squallidi. Un montaggio più serrato avrebbe giovato, ma vale assolutamente la pena vederlo.
“Anatomia di una caduta”; c’è chi lo definisce una verbosa rappresentazione su una lacerante disfunzionalità di coppia, chi una strisciante denuncia sulla misoginia inflitta da un sempre più avvizzito patriarcato. Ma al di là della evidente contrapposizione dei generi, quello che più resta di questo film è - per quanto geometrica - una sincera, cristallina emotività trainata da un intero cast in stato di grazia.
L'inizio sembrava presagire qualcosa di sensazionale per gli elementi che la trama gialla avrebbe potuto sviluppare. Invece viene tutto incredibilmente disatteso, trasformando la vicenda in un polpettone drammatico-giudiziario dai risvolti perlopiù deludenti, con un finale di rara inefficacia. Nel mentre si apprezza l'atmosfera generale (molto suggestiva l'abitazione), la sentita performance attoriale di un cast scelto con dovizia e la capacità registica nel confezionamento delle inquadrature. Una durata più contenuta e l'uso di una sola lingua avrebbero alleggerito la visione.
MEMORABILE: L'analisi degli schizzi di sangue; La registrazione del litigio; La deposizione del figlio.
Un uomo muore, forse assassinato, nella casa dove vive con la moglie e il figlio. Come in uno dei gialli chabroliani l'indagine processuale soggiace alla descrizione intima delle vite coinvolte: la moglie e il figlio ambiguamente, faticosamente, in contatto tra loro. L'elemento preponderante dell'opera è la riflessione sul rapporto tra linguaggio, rappresentazione e percezione. Segnato da uno stile iperrealista, semplice nel montaggio e nelle scelte figurative, se pur prolisso può vantare una sceneggiatura d'altissimo livello, davvero ricca, e la partecipazione di ottimi attori.
Ogni matrimonio è una caduta. Le scene da un matrimonio sotto kafkiano processo. Con hitchcockiana parestesia che riesce a gettare ombre e dubbi anche su un bambino cieco e una binocularità chabrolian-bunueliana, Triet mette alla sbarra e all'angolo le relazioni familiari (quasi sempre e quasi tutte destinate a fare schifo) e le loro reciproche vampirizzazzioni. Ne scaturiscono 150' fiscalmente essenziali di incandescente densità drammaturgica, della quale gli attori sono a un tempo legna attizzatoio e fiamma: Reinartz, particolarmente infiammabile, riscuote mille applausi al minuto.
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