Rispetto alla gloriosa ondata horror dei Balagueró, dei Plaza e degli Amenábar, la Spagna conserva per il genere una ragguardevole qualità nella messa in scena ma comincia a perder seriamente colpi sotto il profilo della personalità, adeguandosi a standard consolidati senza aggiungervi più nulla di originale. POSSESSION non è altro che una spudorata colata di spaventi improvvisi (persino gli americani cercano di dosarli un minimo, per non scadere nella baracconata fine a se stessa) racchiusa all'interno dell'ennesima casa maledetta. Facciamo finta di non leggere quel "basato su fatti realmente accaduti" che non si sa mai a cosa possa davvero...Leggi tutto corrispondere in film del genere e addentriamoci pure nell'appartamento al terzo piano d'un palazzo d'epoca di Madrid davanti alla porta del quale, nel prologo, il solito bambino distratto perde la biglia che lì rimbalza fino a sgusciare da sola, poco dopo, all'interno. Senza chiedersi come diavolo quella possa continuare a procedere autonomamente, il piccolo s'introduce nell'appartamento dopo che la porta gli si apre da sola davanti (!), con la biglia che finisce nella stanza al centro della quale siede di spalle, sulla sedia a dondolo, la milionesima mamma di PSYCO mezza impagliata. Stacco. Dal 1972 si passa al 1976, quando l'immancabile famigliola a corto di denaro prende possesso dell'appartamento (ah, Calle de Manuela Malasaña, la strada che dà il titolo al film, non ha nessun civico 32) in seguito alla morte dell'inquilino precedente per stabilirvisi in attesa delle ovvie manifestazioni spiritiche, che non tarderanno. Il primo a rischiare la vita è il piccolo Rafael (Renedo), con la porta della stanza che si chiude da sola bloccandolo al'interno. La sorella diciassettenne (Vargas), che già aveva notato il fare inquietante del nonno, capisce che qualcosa lì non va, ma mamma (Segura) e il suo nuovo marito (Marocs) non posson certo cambiar casa per simili piccolezze. Non lo faranno nemmeno quando basterebbe un decimo, di quanto accadrà loro, per far scappare chiunque a gambe levate, figuriamoci... E si va avanti così, tra una vecchia rattrappita nel buio e macchine a cucire che si avviano d'improvviso, tra messaggini misteriosi scambiati dal fratello maggiore (Castellanos) con la vicina di casa attraverso le funi per stendere il bucato (forse l'unica idea un po' “nuova”) e appuntamenti nel seminterrato buio, tra porte che si aprono, finestre che sbattono, fornelli che bruciano... Il campionato completo insomma (ah, c'è pure un pupazzo che dalla tv si rivolge direttamente al piccolo Rafa per un bel po'), concentrato in un unico film studiato solo e unicamente per spaventare quanto più possibile. E ci riesce, va detto, perché la gestione della tensione è buona e la qualità della messa in scena indubbia, con una bella fotografia e tagli di luce notevoli. Un film tutto di regia, che si regge sull'atmosfera cupa e opprimente dell'appartamento maledetto, non molto vivacizzato da interpretazioni solo corrette né impreziosito dai dialoghi, anonimi... E' tutto talmente già visto e riciclato (ultima parte compresa naturalmente, in cui si farà strada una storiella posticcia appiccicata lì a giustificare parzialmente gli orrori cui abbiamo assistito) da rendere pesanti e vuoti troppi passaggi, semplici riempitivi tra uno spavento e l'altro. Per carità, l'eleganza formale è un valore, la misura nel tratteggiare i caratteri anche, ma di fronte all'ultima parte con la milionesima posseduta lievitante e scrocchiante viene da invocare una salvifica sintesi... che non arriva. Niente da fare: tocca aspettare l'ultimo jump(scare)...
Film che conferma lo stato di ottima salute del cinema horror spagnolo, nonostante una trama non certo originale; siamo in territorio di infestazioni demoniache in un vecchio appartamento sulla scia lunga di L'evocazione e Verónica, tra spiriti vendicativi e una famiglia in pericolo. Ottima la ricostruzione ambientale della Madrid anni '70, buono il cast; ci sono momenti di tensione ideali e il film risulta sinistro nonostante tanti jump-scare già visti. Un lavoro che non offre nulla di nuovo ma che per il sottogenere è realizzato con mestiere e una certa cura per i dettagli.
Il diavolo del titolo italiano non c'entra ma si tratta idella solita anima in pena infestante un grande appartamento in cui va ad abitare una famiglia povera. Horror spagnolo che non si può certo definire minimalista: le biglie rotolano, le sedie a dondolo dondolano, gli schermi tv estrudono, gli specchi rispecchiano, le porte si chiudono da sole, i telefoni squillano anche con i fili staccati, i corpi lievitano e via discorrendo, in un sorta di discount di tutti gli stereotipi del sotto-genere in cui la costruzione della tensione è sostituita dall'accumulo. Derivativo al cubo.
MEMORABILE: I foglietti scambiati attraverso il filo per i panni stesi.
Famiglia numerosa si trasferisce dal paesotto a Madrid, ma l'appartamento è infestato da una presenza nefasta. Sia nella buona confezione che nell'uso delle atmosfere emerge il tocco ispanico e influenze di Balagueró, ma senza riuscire a catturare la sua aura disturbante e nero pece (Darkness, Nameless) che coinvolge solitamente sia sceneggiatura che regia delle sue pellicole. Siamo su un livello più all'acqua di rose e anche quando si arriva al nocciolo della questione, la storia dell'antefatto della possessione non è così interessante, anzi abbastanza forzata. Tuttavia vedibile.
Horror che ricicla tutto il repertorio sulle case infestate ma che assolve al suo compito primario di spaventare dosando la tensione con abilità per lunghi tratti, salvo poi sbracare (come spesso accade) in dirittura d'arrivo. Gli spagnoli comunque questi film li sanno fare, e infatti abbiamo una cura formale ineccepibile e anche l'ambientazione anni '70 accresce il senso di inquietudine. Qualcosa si poteva tagliare (la figura del nonno è abbastanza ininfluente), qualcos'altro aggiungere (il "peccato" appena accennato), ma se non si è fissati con l'originalità la visione la merita.
Se si vuol fare un ripasso di tutti i più abusati cliché del genere è il film giusto: li troviamo tutti qui, posizionati con un rigore matematico che punta a non scordarne neanche uno, con l’ulteriore aggravio dell’enunciazione secondo l’odierno modello delle ghost stories a stelle e strisce (palese la similitudine della Velasco con Lin Shaye). Ne vengono così mortificati sia l’ambientazione che le dinamiche familiari dei personaggi che una loro attrattiva la avevano. Verrebbe voglia di un voto più basso, ma non si può punire eccessivamente una confezione comunque dignitosa.
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