Già nei due film precedenti i fratelli D'Innocenzo avevano fatto capire quanto il loro cinema lavorasse sulla psicologia di personaggi tormentati, su un gioco d'interazioni capace di mettere in luce i caratteri e i drammi interiori di un'umanità che vive ai margini, nel degrado di una periferia in cui la desolazione esteriore si riflette amplificata in quella interiore. In AMERICA LATINA, con spirito da cinema indipendente e coraggioso, il medesimo disegno assume tratti più estremi concentrandosi su un'unica figura, misura di ogni percezione esterna. La mente e il cuore di Massimo Sisti (Germano) diventano il filtro di ogni disvelamento, catalizzatori di sensazioni...Leggi tutto vissute nel corpo di chi avvertiamo da subito non comportarsi in maniera del tutto logica, razionale. Scendendo nella cantina di casa Massimo trova legata a una sedia, imbavagliata, una ragazza: chi è? Cosa ci fa lì? Chi ce l'ha messa? Da quanto tempo? Una raffica di domande senza risposta stimola in un istante l'immaginazione del protagonista e nel contempo dello spettatore, che si ritrova a condividerne l'incubo, immerso nelle tinte verdastre di una fotografia assolutamente ricercata e d'effetto. Ci si ritrova s'improvviso catapultati in un dramma personale che pare deformare la realtà per precipitarci in un terrore che spiazza, che decolla verso un iperuranio surreale dal quale sarà sempre più difficile ridiscendere. Il lavoro dei registi è quello di catturare i dubbi, le paure, le angosce che si traducono in lunghi silenzi in un film dall'incedere lentissimo, che raccoglie ogni spunto autoriale dei film precedenti per moltiplicarlo a dismisura, chiudendosi a riccio in un viaggio nell'io che non tutti digeriranno facilmente. Per quanto il lavoro psicologico che Germano regge con sapienza dia bella tridimensionalità al suo Massimo sortendo l'effetto voluto, dall'altra non si sa bene come reagire di fronte a una staticità cronica che a lungo andare rischia di indisporre, a quel perenne sguardo nel vuoto mentre nella testa ronzano cattivi pensieri, alle mute tappe in cantina dove attende una ragazza che non parla, che urla, che pare irragionevolmente autocondannarsi e non si capisce perché. D'accordo, la spiegazione arriverà (e non sarà certo questo gran colpo di scena), ma intanto ci si muove nelle aride campagne di Latina tra un amico (Lastrico) la cui presenza non sembra così necessaria e i ritorni alla gelida vita in casa con la moglie e le due figlie, volti enigmatici di un microcosmo da cui nessuno pare mai davvero uscire, affezionate al padre ma senza mostrare grande affetto. Un percorso rivelatore nascosto dietro l'apparenza di un ritratto poco significativo c'è, ma per arrivarci tocca traghettare estenuati nel ristagnare di mezze parole, in un limbo liquido impregnato di eccessi autoriali che non hanno più le sfaccettature multiple delle FAVOLACCE romane e che pretendono troppo senza contraccambiare con sufficiente, visionaria generosità. Non si riescono a rilevare la stessa acutezza d'un tempo, la stessa voglia di trasgredire tagliando e ricucendo. Lo stile è ancora ricco, la messa in scena sobria ed elegante, ma il film si limita a un approfondimento psicologico di maniera, un'ordinarietà di fondo contrabbandata con ruffianeria per straordinaria e calata in un'apatia che difetta del necessario coinvolgimento.
Un dentista gode di una vita tranquilla fino a quando, uno stesso giorno... Un viaggio nell'inconscio magistralmente diretto dai D'Innocenzo che cambiano produttore e ambientazione ma giocano molto ancora una volta sull'indagare a fondo nella psiche dei personaggi. Il titolo, che evoca il sogno (l'America) e la realtà (Latina), è veramente geniale e i continui primi piani con i quali vengono inquadrati i protagonisti danno la dimensione del bel lavoro di scavo psicologico.
I fratelli D'Innocenzo al terzo film propongono un’inquietante vicenda con protagonista il sempre bravo Germano, un dentista di Latina con “un problema” da risolvere. Cercando di sorprendere senza ripetersi, i due costruiscono un meccanismo tensivo dall’estetica straniante e ricercata, in cui (più di) qualcosa non funziona: si punta tutto sul finale – che però non spiazza del tutto – e si mancano le tante traiettorie possibili offerte dall’interessante soggetto. Quasi impossibile dare un giudizio senza rovinare tutto: altro segno di un'impresa riuscita a metà.
Più che un thriller, uno psico-dramma ambientato nella provincia italiana, dove un uomo convive coi suoi fantasmi esistenziali mentre contemporaneamente conduce una vita borghese fatta di lavoro, famiglia, cani, piscina. Poi improvvisamente un fatto nuovo che lo condurrà alla prova del nove. I fratelli D'Innocenzo indugiano sui primi piani, affidandoli ad attori per fortuna capaci, ma risolvendo il tutto in un film che aggiunge poco al tanto a cui miravano.
Più che la vicenda in sé e i suoi sviluppi, a essere importanti sono le sensazioni: è su questo aspetto che i D'Innocenzo lavorano, inquadratura dopo inquadratura, assieme al direttore della fotografia per allestire un montato che getta lo spettatore nell'angoscia quasi da subito. Ma scelta di colori e forme di grande impatto (le linee della casa preannunciano il film sin dalla prima apparizione), musiche e soprattutto suoni (la torta) sarebbero tecnica vuota senza l'interpretazione del solito Germano, coadiuvato da un ottimo cast. Non guardatelo se cercate un momento sereno.
"Che noia che barba che barba che noia": questa visione rischia come non mai di farci sentir vicini alla compianta Sandra Mondaini e al suo celebre malcontento serale. Un film inutile, che non racconta nulla e quel poco poteva essere sviluppato in un cortometraggio. Invece, ci si trascina per 90 interminabili minuti in scene che si ripetono in loop e situazioni concepite solo per colpire lo spettatore. Spiace vedere Germano trascinato in un film così, impiegato per mugugni ed espressioni da abete al posto di... fargli recitare un copione. L'impegno si può trovare in ben altri lavori.
Il terzo film dei fratelli d'Innocenzo è un'opera che si inserisce in un certo discorso autoriale che da sempre ha contraddistinto i registi romani. La maggiore libertà artistica sul prodotto, abbinata a un aumento del budget a disposizione, non corrisponde però in questo caso ad un risultato migliore. Il film è retto esclusivamente dall'interpretazione monstre di Elio Germano che, lavorando di sottrazione, regala momenti di grande intensità artistica. La storia però è pasticciata e i tempi dilatati all'infinito invece che aiutare ad aumentare la tensione finiscono per annoiare.
Il mondo del dentista Massimo Sisti (il catatonico Germano) pare coincidere solo parzialmente col nostro: una villa-iperoggetto nelle isolate campagne di Latina, due figlie diafane, una moglie che sembra loro coetanea e un solo amico, il concessionario Simone (Lastrico), con cui sbronzarsi ogni settimana. Finché una lampadina si fulmina... I fratelli D'Innocenzo firmano il loro film più estetico e autoriale (silenzi infiniti, spazi vuoti, consecutio infrante), intagliando di arabeschi e simbolismi una storia insolitamente thrilling, ma al contempo piuttosto prevedibile. Nella media.
MEMORABILE: Scoperta in cantina; Bar deserto nel mezzo del nulla; Chi è il fidanzato di Laura (Gamba?); Suona più forte!
Stavolta i D'Innocenzo vogliono strafare. L'indagine sulla psiche, e solo su quella, è tra le più ostiche imprese al cinema e almeno per ora non sembra nelle corde di registi, in fondo, così giovani. Restano confermati lo stile adamantino (ormai non inquadrano i loro oggetti, ci surfano su), i quadri hopperiani e l'intesa con Elio Germano. Però la catarsi è fangosa, il "segreto" custodito stancante per gli spettatori: si attende con fastidio e non curiosità nello stallo tra verosimiglianza e sogno. E così la sublimazione stile The Others, sembra quasi non aggiungere nulla. Peccato.
MEMORABILE: La lezione di piano su YouTube; Il primo incontro con la bambina sequestrata; Il dialogo col padre.
Avessero realizzato questo film in Spagna si sarebbe parlato di nouvelle vague ispanica; purtroppo l'esterofilia ha creato danni irreparabili nel cinema italico: qui si assiste a un thriller anomalo ma realizzato con valido mestiere che vede un monumentale Germano (forse anonimo il resto del cast, se si eccettua un cameo di Wertmüller), in cui un dentista benestante entra in un vortice psichiatrico da cui l'uscita appare irreparabile. Un plauso ai fratelli D'Innocenzo.
Deludente terza opera dei gemelli D'Innocenzo, ormai totalmente catapultati nel delirio narcisistico scivolando persino oltre il già velleitario Favolacce. Qui i fratelli si prodigano in estenuanti inquadrature simboliste come i volti riflessi negli specchi a rappresentare la dualità e la schizofrenia. Peccato che tutto l'apparato thrilling non funzioni e non coinvolga, provocando sbadigli. Inoltre il plot di base (qualcuno che viene ritrovato in cantina) è scopiazzato da Inheritance, dimenticandosi poi il resto della narrazione. Colpo di scena finale stantio e prevedibile.
Con Favolacce i fratelli D'Innocenzo avevano indovinato il giusto mix tra immagini d'autore e una storia che coinvolgeva, magari non per tutti i gusti ma comunque ben costruita. Qui Germano si ripresenta in un personaggio apparentemente più complesso ma le cui radici si dimostrano presto poco solide fagocitando l'intera narrazione. Si aggira in una famiglia ispirata al cinema di Lanthimos e cerca di comunicare senso di straniamento e di profonda frustrazione, ma quello che ci arriva sa di artefatto e poco interessante. Brava la Casali ma diamole appuntamento altrove.
Il sospetto che i fratelli D'Innocenzo abbiano dato vita anzitutto a un esercizio di stile aleggia sul film in maniera prepotente, ma non per questo compromettente. In una sorta di incubo allucinato a tratti lynchano si muove un ottimo Elio Germano, circondato da personaggi più ambigui del suo. Come per Favolacce il centro di tutto è rappresentato dalla famiglia, ma in questo caso l'attenzione è rivolta in particolar modo al ruolo del marito/padre. Criptico, a volte in maniera ingiustificata, ma davvero interessante.
Eccellente Germano, calato perfettamente nei panni del fragile Massimo; è semmai la pellicola di cui è protagonista a non convincere pienamente. L'intera vicenda appare confusa e raffazzonata, a partire dal colpo di scena iniziale, buttato là quasi per caso dopo dieci minuti, proseguendo con un ritmo fin troppo sonnacchioso (quasi un one-man-show dell'attore romano), fino al telefonato finale. Qualche virtuosismo registico e un'originale ambientazione non sono sufficienti a garantire il guizzo che ci si illude possano dare i minuti conclusivi. Bene Lastrico.
MEMORABILE: L'inquietante colazione della festa di compleanno.
Partito dalla terra dell'abbastanza e percorso l'intrigante itinerario al confine di grottesco e iperrealismo, il cinema dei D'Innocenzo perde la bussola: vorrebbe dirigersi verso il Sudamerica della psiche e approda ad una banana republic della dissociazione. Se a livello visivo si indovina certo livido parossismo(la cui patina autoriale però offusca ogni impeto d'angoscia), lo script è di risibile inconsistenza, con sparso materiale di risulta: Haneke e Polanski, passando per Lanthimos a Amenabar. La performance di Germano, più "in squadra" del solito, limita ulteriormente l'opera.
Dentista scende nella sua cantina e scopre qualcosa di sorprendente. I D'Innocenzo continuano a perseguire un cinema personale, lontano dalle mode e dai desiderata dello spettatore medio. Qui ammantano di autorialità una storia tutto sommato semplice e per certi versi prevedibile: le possibilità che spieghino ciò che succede sono in buona sostanza solo due. Quindi la sceneggiatura non è certamente la qualità migliore del film, che si avvale invece di un comparto tecnico - fotografia e sonoro sono curatissimi e da urlo - che resta e che, forse, meritava miglior sorte. Ottimo il cast.
I D'Innocenzo provano a invischiarsi nei meandri di un cinema di genere collocato sul thriller psicologico riuscendo nell'intento a metà, per via di un finale troppo didascalico e allungato inutilmente. Il soggetto in sé è molto interessante, Elio Germano è formidabile nella sua interpretazione e ciò garantisce la "piacevole" visione, che ha il limite di non spingersi mai troppo oltre e lasciare allo spettatore la possibilità di fantasticare con la mente. La regia e la fotografia sono ben fatte e la resa dell'inquietudine generale viene ben mostrata. Peccato per il finale. Non male.
Scelta coraggiosa dei D'Innocenzo che, per questo loro terzo film, decidono di cimentarsi in un thriller psicologico registicamente molto claustrofobico (la macchina da presa è costantemente sui primissimi piani degli attori - pochissimi i campi larghi). Scivolone nel finale, con uno "spiegone" davvero posticcio e ridondante, ma tutto sommato il film rimane godibile.
Ebbene sì: ancora la mente birichina causa avarie affettive e macerie emozionali. I D'Innocenzo riscrivono la cri(p)tica della sragion pura di Immanuel Kent con ticket di seconda classe della Pan-american. Fior d'esteti, mica che, devono solo imparare a raccontare una storia, e a raccontarla giusta. Perché un mistero delegato alle sole baroccaggini di adipe formale che non perde un frame per fare il Marchese del Grillo cessa di essere misterioso e cade sovente scultissimevolissimevolmente. Il valente Germano capita male, chiamato a stringere redini senza cavalli. So good it's so bad.
Un dentista della provincia di Latina scopre qualcosa che lo sconvolgerà nella cantina della sua villa. Thriller soporifero. La storia non è niente di eccezionale, ma a tratti riesce anche a coinvolgere. Il film però manca di brillantezza, di qualcosa che alzi l'interesse durante la visione e che soprattutto spiazzi. Peccato. Elio Germano purtroppo sottotono. Mediocre.
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