Racconto nudo e crudo dove aleggia il sospetto del manicheismo ma bisogna dire, senza sentire uno stupido bisogno di autofustigarsi, che così andavano (vanno?) le cose. Kechiche procede senza soste con la giusta sgradevolezza e ha il merito di non cercare scorciatoie di comodo o melodrammi annunciati. La messa in scena è considerevole sia a livello di attori che di atmosfere e nonostante la tanta carne messa al fuoco i 160 minuti passano bene. Tra Lynch e Ferreri ma con una sua precisa personalità.
Peggio di una gragnuola di calci in faccia: questo l'effetto che fa il film. Ci si sente continuamente violati come la protagonista ed il suo corpo: si subiscono le sue angherie e violenze. Un film forte, sgradevole, che mette a disagio col suo sguardo spietato ma non compiaciuto. Il regista poteva risparmiarsi qualcosa, ma va detto che il suo non è mai lo sguardo del voyeur e se non arretra dinanzi a nulla, lo fa proprio per provocare sgomento e orrore in chi guarda. In questo modo ci restituisce in modo pieno il dramma della protagonista.
Come Grosz e Goya fecero con la pittura, qui il regista ci mostra il dettaglio dei volti e degli sguardi morbosi, saturi di laida bramosia, dei bravi cittadini e borghesi "civilizzati" verso il "fenomeno da baraccone" rappresentato dalla sventurata Boscimana protagonista e oggetto dei turpi desideri di una società ipocrita. Nonostante le masse della sua carne, lei vola quasi leggera fino alla fine nel suo personale abisso, con interpretazione perfetta nella sua necessaria ambiguità. Finale insostenibile nella sua fredda e feroce disumanità.
Cinismo alle stelle, ma con una ripetività che alla lunga rischia di stancare. Il film comunque è buono: ben fatto (con ricostruzione storica credibile e verosimile), montato in maniera efficacemente febbricitante e magistralmente interpretato da praticamente tutti gli attori. Non manca però un certo compiacimento (che porta ad allungare eccessivamente alcune sequenze, magari già presentate con poche varianti poco prima), e le forti analogie con La donna scimmia di Ferreri disseminano il film di pesanti deja vu. Comunque interessante e riuscito.
Come dismostrare quanto gli uomini cosiddetti civili (incluso quelli della illuminata scienza) siano più bestie degli esseri che loro considerano tali. Il tema è di qualità senz'altro e la ricostruzione minimale fa bene al racconto, ma qualcosa nella recitazione sa di finto e studiato, così come nella sceneggiatura dove abbondano tempi morti e ripetizioni noiose e non funzionali. Ma nella seconda il film vira verso un versante diverso e la tragicità prende il via, riportando la storia su un piano che s'abbina bene alla realtà della storia.
Alla fine della storia l'unico che non cambia mai è l'Essere Umano: ci si affanna, ci si accalca, si suda e si apre il portafoglio per vedere l'ultimo spettacolo, quello più nuovo, quello più sconvolgente. In questo è bravo Kechiche a rendere universale la vicenda della Venere ottentotta evitando il compiacimento ma non nascondendo nulla delle umiliazioni subite da Saartje Baartman, in vita ed in morte. Buona anche la ricostruzione ambientale; peccato che la ripetitività di alcune parti finisca per rendere il film prolisso e non tutto necessario.
Kechice non si limita a raccontare la tragedia di questa donna, ci obbliga a viverla; non accenna alla minima sinossi, anzi, assistiamo agli spettacoli completi della Venere, al processo completo, al precipizio verso l'inferno senza mai tagliare, ridurre, deformare, scartare. La visione diviene allora un doppio sacrificio, faticoso per una noia ingombrante e duro nell'accettazione di colpe insite e sconosciute della nostra società.
Provate a immaginare la scena di Freddie Francis che vessa in pubblico John Merrick reiterata ad libitum per 150 minuti con scarse variazioni sul tema. Per rilanciare l'orrore di un abuso lucrativo lungo una vita, Kechiche abusa dello spettatore indulgendo in una tautologia compiaciuta, non meno narcisista di un apparato tecnico e di un afflato figurativo ai limiti dell'iconico che -per carità- spaccano, ma alla lunga si spacca anche qualcos'altro e tutto l'empatico dolore per le sorti della protagonista si commuta presto nella personale passio christi spettatoriale di una visione debilitante.
La pellicola che evidenzia le influenze di Ferreri, ma aggiungerei anche Fassbinder, ha dalla sua una veemenza, una capacità di disgustare e impressionare davvero notevole. Parallelamente la lentezza e quindi la lunghezza della stessa smorza un risultato finale che si raggiunge con fatica. Finale stesso che aggiunge dolore e umiliazione e scarnifica ulteriormente la dignità umana. Bello ma faticoso.
La “grazia” del film risiede tutta nella “orizzontalità” in cui Kekiche tiene la narrazione. Quella di Sarah non è infatti una progressiva discesa agli inferi quanto una dilatata sequenza di allucinati quadri di schiavitù, in ognun dei quali si logora senza gradualità la “patetica” tragedia della venere ottentotta. La monotonia della storia è però esaltata dalla umanità e dalla ipnotica capacità dialettica del franco algerino, instancabile indagatore di sguardi, parole e corpi. Originale e molteplice anche la visione del rapporto “servitù”-spettacolo.
MEMORABILE: Il modo in cui la Saartjie fuma la sigaretta; La sequenza del salotto parigino.
Inizia dalla fine, con il corpo esposto agli scienziati a conferma della tesi della superiorità razziale dell'uomo bianco. E la storia di Sarah è tutta narrata attraverso la sua esposizione: mostro da baraccone, curiosità da esibire nei salotti, oggetto lubrico per bordelli, corpo in vendita fino all'estremo oltraggio. Una esposizione prolungata, troppo insistita per non essere programmatica nel suo costringerci alla visione, contaminando anche il nostro sguardo di spettatori "civilizzati". Approccio forse discutibile ma efficace, per un film che non vuole e non può lasciare indifferenti.
Un essere umano è qualcosa di più delle sue funzioni vitali. E' più della materia che lo costituisce, del pensiero che esprime. Ciò che viene violato, nel film di Kechiche, è più di un corpo, di un'identità; è la persona, è il sacro che la sostanzia, intangibile ma inoppugnabile presenza nella spietata esposizione che la nega, che riduce quel corpo a nulla più dello sguardo che lo osserva. E un grande film Venere nera: ricostruisce la cultura coloniale convocandone la complessità, non per risolverla ma per affermarla, annichilendo il giudizio, silenziando ogni obbiezione.
Siamo nel 1815 e questa è la prima cosa che impressiona; la seconda è che tra i soloni della scienza e i frequentatori di salotti "buoni" parigini (dove vegliarde assatanate di sesso mostrano orgogliose i loro corpi cadenti) non pare ci sia nessuna differenza; anzi, i secondi hanno dalla loro la scusante della depravazione. Saartje Baartman viene violata in ogni modo, nel corpo e nell'anima; Kechiche sceglie di mostrare più volte lo spettacolo, aggiungendo ogni volta gioielli alla Venere ottentotta ma anche più umiliazioni, fino all'impietoso finale.
La storia vera del fenomeno da baraccone Saartjie Baartman è simile a tante come la Donna scimmia o Handia, ma qui Kechiche affronta la stratificazione delle violenze psicofisiche e culturali: coloniale, razzista, sociale, economica, sessista, "semplicemente" umana, condivisa da aguzzini e amici, giudici e scienziati. Ottima ricostruzione ambientale-antropologica di inizi 800. Protagonista notevole. Intensa regia che scava in primi piani e dettagli in scene molto lunghe, trascinando nella responsabilità della visione anche il pubblico del film.
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