Altro grande thriller diretto da Castle, con una grandissima Joan Crawford doppiata da Lydia Simoneschi e la sua notevole trasformazione, in cui si fa notare anche Diane Baker. Scritto con cura dallo specialista Robert Bloch. Da notare i titoli di testa stile quadro e il marchio finale Columbia a cui manca volutamente la testa. L'unico appunto che si può fare al film riguarda il colpo di scena finale, forse un po' troppo intuibile.
Notevole thriller che non sente il peso dell'età. L'ambigua Joan Crawford intepreta una donna psicolabile che torna a casa dalla figlia, dopo un lungo periodo di detenzione in un ospedale psichiatrico con l'accusa di omicidio. Anche lo spettatore smaliziato che non si lascia raggirare dalle varie false piste sa apprezzare la crescente tensione e il valido cast che sa trasmettere le giuste emozioni.
Follia trasmessa non geneticamente, ma moralmente. Le cinque teste ci sono e, di volta in volta, appariranno nel letto di Lucy (Joan Crawford) madre poco affidabile e, cosa peggiore, uxoricida. Dimessa dal manicomio criminale viene accolta a braccia aperte dalla figlia che ha, però, intenzioni (a lungo termine) da spietata aguzzina. Come ogni buon thriller degli anni '60 il clima di tensione è ben reso dalle atmosfere e dalle interpretazioni (volutamente retoriche) dei protagonisti. Il regista (ce ne fossero degli "Hitchcock dei poveri" come Castle!) giostra con talento l'ottima sceneggiatura.
In linea con Che fine ha fatto Baby Jane? una pellicola che, se non fosse stato per il finale, avrebbe a mio parere raggiunto come quella lo status di cult. L'interpretazione di Joan Crawford è impagabile. La follia impera e la sceneggiatura trascina lo spettatore senza sosta verso un finale purtroppo poco credibile, ma che si perdona al regista e agli sceneggiatori in quanto parte di un gran bel film dove l'instabilità mentale regna sovrana e il terrore aleggia costantemente.
Vent'anni prima scoprì il marito a letto con l'amante e, non accettandolo, li accettò. Dimessa dal manicomio criminale, va a vivere in campagna con la figlia, ma le teste ricominciano a rotolare... Psico-thriller assai datato, che alterna momenti efficaci con passaggi tirati via o puerili, compreso lo spiegone finale ammazza-suggestione. Certo, Crawford è sempre uno spettacolo, anche se anch'essa oscilla fra il patetico sublime e la guitteria parrucchinata, mentre nel resto del modesto cast si ritaglia uno spazio Kennedy, torvo ammazzagalline.
MEMORABILE: Ls presentazione iniziale del personaggio di Crawford: "intensamente donna e consapevole di esserlo"
Indubbiamente una delle migliori regie di William Castle, conosciuto più per le sue stravaganze che per l'effettivo talento. Joan Crawford, reduce dal successo planetario di Che fine ha fatto baby Jane?, gigioneggia al massimo rendendo con la consueta, monumentale professionalità le dense sfumature psicologiche di un personaggio che il mondo vuol far apparire perfido e malvagio. Il film, dal canto suo, marcia a pieno vapore, riuscendo ad integrare bene gli efferati omicidi (peraltro sempre celati) con le parti più propriamente "umane".
Per quanto la Crawford sfoggi tutta la sua bravura e il film sia girato bene nonché con una buona impostazione, è soltanto il finale a dare una grossa spinta verso l'alto, anche perché più che dall'identificazione dell'artefice degli orribili delitti, si rimane esterrefatti di come alcuni dettagli proprio casuali non siano... Curioso un George Kennedy magro, con ancora molti capelli, nel ruolo di uno stalliere.
Regista noto più per le stravaganti trovate pubblicitarie che per l'effettivo valore della sua filmografia, Castle firma un discreto thriller, per l'epoca anche piuttosto macabro, che tuttavia, a causa di un ritmo altalenate e di una sceneggiatura dal fiato decisamente corto, non regge il confronto con quelli diretti da Aldrich, ai quali viene inevitabilmente paragonato. Ottima la prova della Crawford, sempre in bilico tra tentativi di normalità e retaggi del traumatico passato, mentre il resto del cast non incide particolarmente.
Solluccheroso divertissement, imperdibile per ogni patologico ghiottone di cinema cinema. L'alchemico istinto spettacolare di Castle confeziona un prodotto il cui orizzonte di riferimento è (s)pur(i)amente filmico: il derivativo plot hitchcockiano, l'anziana diva sul sunset boulevard (una Crawford fremente nonostante lo sfrenato gusto kitsch), psicosi e pruriti a buon mercato ma funzionali alla messa in scena. Il tutto supervisionato da un sense of humor che riconduce eccessi gore, ammazzamenti, omicidi seriali alle nostre cinefile vuote teste mozze.
MEMORABILE: La statua della Columbia priva di capoccia nei titoli di testa; La decapitazione del marito nell'incipit; La Baker con parrucca e vestito di mamma Joan.
Bellissimo thriller dall'atmosfera allucinante che Castle dirige con grande senso della tensione e soprattutto con ottimi approfondimenti psicologici. L'interpretazione della Crawford è da brividi, naturale e intensa come poche altre attrici saprebbero fare. Buono anche il cast di contorno, con una convincente Baker e un laido Kennedy in un piccolo ruolo. Notevoli la fotografia, i giochi di chiaroscuro e le musiche stranianti. Un po' telefonato il finale.
Horror dal fascino e dalla profondità di una nube nera. Così eccessivo nel raccontare gli isterismi di un microcosmo contadino, eppure così meticoloso nel delineare i momenti di terrore e di ansia. Ed è infatti in mezzo a coltelli, asce, punteruoli e ferri da maglia che William Castle riesce a trascinare lo spettatore dentro un racconto matriarcale dai risvolti gotici ed estremamente morbosi. Finale inaspettato, con una sequenza, tra madre e figlia, tanto perversa quanto commovente.
Thriller abbastanza ispirato, seppur piuttosto esile a livello di soggetto e troppo squilibrato tra la sua componente psico-orrorifica e quella eccessiva e strabordante apportata da una Crawford eccellente e istrionica. Ben girato, con scene di omicidio che, per la loro lunga preparazione (seppur quasi senza splatter: solo una decapitazione ci viene mostrata apertamente, senza ombre o fuori campo), rimandano ai massacri argentiani del decennio successivo. Finale abbastanza evidente per chi mastica i classici del genere.
MEMORABILE: Verso la fine, quei pochi fotogrammi in cui, di profilo, vediamo per la prima volta il volto dell'omicida spuntare dal guardaroba intento a colpire.
Dopo un duplice delitto si fa vent'anni di manicomio e quando esce non sembra troppo guarita. Come spesso accade nei film di Castle ci si diverte. Brava Joan Crawford nel ruolo della pazza. La trama è tutto sommato buona e si fa seguire con interesse. Le uccisioni non ci vengono granché mostrate, ma per un film del 1964 sono ben fatte e funzionano. Il colpo di scena finale è ottimo, ma l'epilogo con la spiegazione smorza i toni ed è un po' superfluo.
Il film è la dimostrazione che senza l'uso di una goccia di sangue si può creare quello che si avvicina molto a essere un capolavoro. William Castle (da riscoprire) prende il meglio di Hitchcock, del cinema horror e del thriller psicologico e unisce i vari ingredienti alla perfezione, realizzando un grande film ricco di suspense, trovate straordinarie e atmosfere inquietanti. Ottimo cast, su tutti ovviamente Joan Crawford. Un film che lascia il segno, imperdibile.
Una pellicola che, a differenza di altre coeve, non è invecchiata molto bene. Se la Crawford, al solito strepitosa, conferisce un prezioso valore aggiunto all’insieme e anche il resto dei protagonisti vanta interpretazioni di classe, la sceneggiatura scricchiola un po’, soprattutto nel finale (telefonatissimo). Gli effetti speciali poi (che a definirli così viene quasi da sorridere) sono di scarso livello. Però. Ai nostalgici, amanti del thriller old style, senz’altro va consigliato. Perché aleggia sempre quell’allure oramai introvabile che rende godibili certi film un po’ così.
Il film di William Castle è truce, eccessivo, zeppo di curiosi escamotage narrativi, psicologie posticce e felicemente sovraesposte. Un atto di amore per il genere (horror) e una dichiarata lode alla sua inappuntabile interprete: Joan Crawford. La chiusa finale riserva forse più logori colpi di scena che di ascia, ma l’escalation verso la follia femminea non si dimentica.
Dopo vent'anni di manicomio criminale, Lucy viene accolta benevolmente (troppo) dalla figlia, che cerca di riportarla alla quotidianità tra la perplessità degli altri parenti. Ma l'ombra del sanguinoso passato riemerge, anzi si estende... Un thriller cucito addosso alla bravura (ma anche all'istrionismo) della Crawford che oscilla tra il sottomesso e l'aggressivo, per tirare avanti una narrazione che solo nel finale rivela una macchinazione interessante ma un po' costruita per colpire il pubblico di allora, con spiegone didascalico che spegne quel po' di tensione che si era accumulata.
Di rado si riesce a essere tanto efficaci nel rappresentare il vortice di follia mentale in cui si può essere risucchiati, senza ricorrere a immagini di violenza esplicita e sanguinolenta. Gran parte del merito va assegnato alla Crawford, la cui recitazione è inappuntabile e lascia trasparire fragilità e isteria con un realismo a tratti sbalorditivo. La solidità dello scritto si percepisce nei delicati equilibri narrativi che si incastrano come pezzi di un mosaico la cui visione d’insieme atterrisce e lascia sgomenti. Non accusa il peso degli anni e può dire la sua a tanti blasoni.
MEMORABILE: La rivelazione finale.
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CuriositàZender • 27/11/07 10:59 Capo scrivano - 48273 interventi
Fa parte dei cento film (realizzati tra il 1950 e il 1980) che Stephen King ritiene abbiano dato "un peculiare contributo al genere horror".
(Fonte: S. King, Danse Macabre, 1981)
DiscussioneZender • 18/03/09 18:09 Capo scrivano - 48273 interventi
Ciao Anna, mi hai chiamato qui ma io non leggo niente...