Sorrentino prosegue il proprio ideale ritratto di una bellezza che si fa film dopo film più grande, inclusiva, e che per naturale estensione si allarga a comprendere, modellandoli ad arte, i tratti e le forme femminili; qui della splendida Parthenope (Dalla Porta), riflessa nelle acque azzurre di una Napoli che ne diventa l’altrettanto superba controparte paesaggistica, dalle suggestive architetture sul golfo di Villa Rocca Matilde ai faraglioni di Capri. Ogni scena racchiude in sé uno studio profondo di prospettive, spazi, luci, tagli e colori a cui s’accompagna una colonna sonora che ulteriormente sublima il quadro chiamando in attività sensi diversi. A tal punto che...Leggi tutto la storia della protagonista, creatura leggiadra d’inafferrabile ed eterea bellezza, diventa accessorio superfluo, che non troppo distrae dall’impatto visivo, privilegiando semmai i singoli dialoghi rispetto alla struttura che costituisce l'ossatura della vicenda.
Parthenope si erge a perno assoluto, catalizzatrice di ogni attenzione (maschile in primis); se ne raccontano i passi fin dalla nascita nelle acque del Golfo, poi da lì un grosso salto che riaccende le luci sull’adolescenza nei Settanta, sul rapporto ambiguo con il fratello e con il primo amore in una sorta di triangolo dai contorni volutamente sfumati, fabbrica di caotico turbamento soffiato nei fragili cervelli dei tre giovani. Lei sfuggente, lei subito improvvisamente presente, lei forte di risposte immediate mai banali, fin da quando si presenta all'esame in aula allo scafato professore di antropologia (Orlando) che ne coglie facilmente il pensiero fuori dagli schemi e lo premia, che dissemina con lei nel corso del film frammenti condivisi sul significato della vita. Eppure, strano a dirsi, gli scambi tra i due – straordinaria la predisposizione all’umorismo di Orlando - costituisce la parte meno astratta del film, quella dai signficati più facilmente accessibili, salvo poi esplodere in un finale surreale.
Tanti sono gli incontri, da quello con l'amato autore (Oldman) dei libri che Parthenope legge con avidità a quello con il ricco uomo d'affari con il quale fatica a gestire l’abituale gioco di sguardi e parole che alterna piccole concessioni a grandi rifiuti. Ma durante gli incroci con tutti loro, senza eccezioni, si legge inchiodata negli occhi della giovane una consapevolezza assoluta del potere donatole dal fascino magnetico che su chiunque esercita irresistibile senso di attrazione. Che le fa credere per un attimo di poter lasciare le ambizioni legate allo studio universitario per intraprendere la carriera di attrice. Dapprima il faccia a faccia con un'eccentrica insegnante di recitazione (Ferrari, celata dietro veli che ne nascondono il volto), quindi quello con una rancorosa attrice napoletana (Ranieri) che rinnega le proprie radici attaccando i propri concittadini con una moltitudine di accuse. Con quest’ultima Parthenope si apparterà e, ascoltate frasi nette, concluderà che non è la recitazione, la strada giusta da percorrere. Un fugace ritorno sulla Terra, per chi si era quasi convinta di avere il mondo in mano.
Si continua con il ritorno dal professore, la proposta di una pubblicazione sul miracolo di San Gennaro e il lungo (troppo) scambio erotico con il controverso religioso addetto alla cerimonia ("La parte che più mi piace di una donna? La schiena, tutto il resto è solo pornografia"). La sceneggiatura riserva piccole e grandi perle, le riprese certificano in più occasioni il talento cristallino di un autore capace di rivestire le immagini d'autentica poesia (si pensi alle ceste azzurre calate dall'alto di un palazzo nella notte) ma da sempre condannabile per l'evidente autocompiacimento che talora sfocia in una pesantezza e gratuità irritanti (l'accoppiamento nella sala biliardi). Controverso, ammaliante, sincero cantore di una bellezza nel contempo inspiegabilmente autentica e artefatta, Sorrentino penetra nell’animo estraendone una superficialità che riveste subito d’inattesa profondità mascherando le intenzioni e stordendo, lasciando soddisfatti ma a metà, senza che mai ti conceda d’averlo compreso fino in fondo. Lo ami, lo odi o le due cose insieme. Chissà se la scelta di chiamare Stefania Sandrelli per impersonare Parthenope in terza età è dovuta alla somiglianza fisica tra Celeste Della Porta e Amanda Sandrelli...
Sorrentino non tesse una trama lineare preferendo soffermarsi su una ricercata fotografia con insistiti primi piani della bella Dalla Porta, una gradevole sorpresa e paesaggi marittimi e scambi di pillole di saggezza tra la ragazza e uomini molto più anziani di lei; segue insomma un insieme di suggestioni prediligendo il lirico alla prosa per comporre un atto d’amore per la propria città, Napoli, vista attraverso il percorso vitale di Parthenope. La lunghezza del film sembra eccessiva, ma un esito più stringato l’avrebbe snaturato; come altre opere del regista, va preso così com’è.
Una vita apparentemente semplice quella di una donna bellissima, colta e desiderata da chiunque. Ma non è così, per molte ragioni e in particolare per una ferita insanabile. Sorrentino dirige il suo Io la conoscevo bene e lo fa dirigendo splendidamente un cast di livello: la magnetica protagonista (di una sensualità abbacinante), l'alcolico Oldman dispensatore di aforismi, una Ranieri esteticamente devastata ma di grande intensità e soprattutto un gigantesco Orlando. Fotogrammi come quadri, canzoni integrate nel narrato. Commovente, maturo, una giostra per gli occhi.
Sorrentino ama stupire, il suo è un cinema immaginifico fatto di eccessi, splendido visivamente, spesso incoerente e ricco di contrasti. Parthenope è la città di Napoli e l'umanità che la anima, il regista la ritrae dall'azzurro del mare e la mostra in ogni sua manifestazione, eccelsa e pura, corrotta e volgare, frivola, quasi magica, magnifica, decadente. Ma Parthenope è soprattutto un film sulla vita che scorre veloce, sulla giovinezza perduta, sulla bellezza che sfiorisce, sulla nostalgia per quel che poteva essere e non è stato. Fotografia eccezionale, ottime musiche. Notevole!
Ironico, surreale, evocativo, ma anche doloroso, con immagini splendide e siparietti cult, come sempre nei film di Sorrentino. Molto spazio (troppo?) è riservato alla seduzione esercitata dalla splendida Dalla Porta, in qualche modo simbolo della napoletanità, oggetto di desiderio e votata alla tragedia. Due ore e mezza di cinema immaginifico, irriverente, sorprendente.
Passo falso di Sorrentino che torna a girare a Napoli a tre anni di distanza. L'ambientazione scenica e fotografica è sempre notevole, non mancano lampi poetici, ma a un certo punto il film gli scappa letteralmente di mano perdendosi in operazioni drammaturgiche megalomani, che appesantiscono la narrazione in inutili e volgari lungaggini. Molto lontano dal Sorrentino dei tempi migliori. Deludente.
"Era già tutto previsto" canta Cocciante ma in effetti no, i film del nostro sono sempre terni al lotto. Questo scorre prevedibilmente incerto. La grazia e l'aforisma dovrebbero reggere una trama a salire che invita non a pensare ma a vedere: Della Porta incarna una Napoli gattamorta e incinta della camorra; Oldman, immenso tra vita e limbo, Orlando una certezza, Lanzetta idolo osceno. Da nouvelle vague la danza à trois caprese in piano sequenza, evitabili i napoletanismi (la goccia di sangue, i vicoli, la nave-tifosa). Comunque sia a Sorrentino non si può mai dare forfait.
MEMORABILE: Il professor Marotta: "Alluniversità si viene già pisciati e cacati"; L'invettiva contro Napoli di Luisa Ranieri.
Pretenzioso con strizzata d'occhio al cinema felliniano: mostri umani e viceversa bellezza totale ostentata al pubblico tramite un'opera furba nella messa in scena e sul piano recitativo; tutto ciò nuoce in parte a un film nel complesso decoroso con la virtù del lancio della nuova diva - almeno glielo si augura - Celeste Della Porta, quasi a scippare il posto alle ex belle con le rughe e l'alopecia. Ancora Napoli (Sorrentino ambienta un film a Cuneo, abbi coraggio!), ma vista sotto gli occhi edulcorati dei luoghi alto borghesi, un po' come Vanzina col suo Via Montenapoleone.
Cinema sorrentiniano allo stato puro, con tutti i vizi e le virtù del regista partenopeo. Al solito le immagini sono di rara bellezza e perfettamente amalgamate alla colonna sonora, splendidamente rese e curate, così come è intatta la capacità di scegliere le location e di costruire personaggi e situazioni che possono restare nella memoria, anche se non tutti e non sempre perfettamente riusciti. La (non) trama non è certo un problema, ma certi eccessi, certe cadute possono infastidire e anche il parlare per aforismi, a volte banali. Ma al di là di tutto sa emozionare e non è poco
MEMORABILE: "E' stato bello essere giovani, è durato poco".
Fanservice ripieno dei tic di Sorrentino (il sacro terrore di una struttura narrativa forte, i fellinismi, il complesso di inferiorità nei confronti della letteratura, forzatamente inseguita con dialoghi alla ricerca di verità fulminanti alla Céline - qui apertamente citato - e/o lepidezze pop alla Bukowski). Parthenope è uno specchio rivolto verso il suo autore, specchio che però rimanda l'immagine irresistibile di Celeste Dalla Porta. Questo perché il discorso di Sorrentino è sempre e solo "La Grande Beauté, c'est moi". Se questo vi basta, bon appétit. Altrimenti, buonanotte.
Napoli. La squadra di calcio che vince lo scudetto, Achille Lauro, San Gennaro con i suoi miracoli e tanto, tanto altro. In un caleidoscopio visionario di grande impatto, Sorrentino racconta a modo suo la sua città e al tempo stesso ci propone la sua visione del cinema, sognatrice e per l'appunto visionaria. Originalità allo stato puro anche quando cita Fellini, continue sorprese di storia e di immagini.
Parthenope è una ragazza di ambiente borghese che nasce e vive a Napoli, città notoriamente controversa per tanti aspetti. Così Sorrentino coglie lo spunto per raccontare le cose alla sua maniera, qui in un’accozzaglia di concetti e definizioni sull’amore, Dio, la religione, gli uomini, davvero pretenziosa. Ricco di luoghi comuni illuminati da una fotografia accecante, il film sembra più un insieme di spot pubblicitari di note marche di abbigliamento, che altro. Buco nell’acqua.
Paolo Sorrentino e la Napoli degli anni'70-80, visti con gli occhi della bella Parthenope, interpretata da Celeste Della Porta (da donna matura, il volto è quello di Stefania Sandrelli), fra paesaggi marittimi, feste, amori, famiglia (specie suo fratello) e incontri, fra cui quello con uno scrittore americano, due attrici e un professore universitario. Caotica trama che percorre cinquant'anni, con lunghe sequenze silenziose, parecchie comparsate importanti (tipo Oldman - che recita in inglese, Orlando, la Ferrari e la Ranieri) e il compiaciuto sorriso della bella protagonista.
Tecnicamente impeccabile, dopo un inizio sontuoso si perde più che nel Golfo di Napoli, splendidamente fotografato, in un insieme di microstorie, dallo sviluppo lentissimo, legate tra loro dalla sensualità della giovane e inafferrabile antropologa, interpretata con fin troppa enfasi dalla esordiente Della Porta. Nuovo omaggio di Sorrentino alla città e alla sua cultura, un po' Fellini, un po' Antonioni e anche un po' Visconti. Con una struttura che in qualche modo ricorda la sua grande bellezza. Forse ancor più manierata e con poca ironia. La prima visione non convince, poi chissà.
La lentezza delle immagini valorizza nelle secche di un tempo emarginato i tesori ma anche le rovine. Fra le risacche di un’epoca scaduta, quasi archeologica, convivono Parthenope e lo scrittore in vecchiaia, l’immortalità del mare e la cronaca degli amori precari. Lì si riverbera il flusso potente del mito che non è sovrastruttura ma natura. La deperibilità della vita ma anche la sua invincibilità. Poi Napoli irrompe come una roccia viscerale con i suoi centri di gravità permanente. Nel complesso il regista non sembra però amalgamare al meglio i molteplici fili che aveva intessuto.
MEMORABILE: Luisa Ranieri e il suo personaggio; La "grande fusione" con pubblico.
Definitiva ode di Paolo Sorrentino alla sua Napoli, incarnata da una fanciulla nata nell’acqua che vive con “leggera profondità“ una vita che nel finale la porterà via dalla propria città. Un film come sempre dotato di grande fascino visivo che tuttavia soffre di troppi momenti di pausa in cui la tensione narrativa cala inesorabilmente. Ci si affida alla poesia delle immagini, quasi sempre splendide e alla buona performance degli attori, dalla protagonista all’ottimo Silvio Orlando, fino a un sorprendente Peppe Lanzetta. Una durata minore e qualche taglio avrebbero giovato.
Sorrentino cerca di assomigliare a Fellini (anche fisicamente, si notino le sue foto), ma al Fellini tardo, che, privo della profondità di Flaiano, era divenuto un compiaciuto creatore di immagini straordinarie ma fini a se stesse, sino a generare una sensazione di sazietà e di eccesso nello spettatore. Ed è il caso di questo film, un collage di momenti spesso stupefacenti se presi singolarmente, ma indigesto e pletorico nel complesso. Restano nella memoria la grazia e bellezza assolute della esordiente Celeste Dalla Porta, con l'augurio di non essere solo una folgorante meteora.
Film pieno di scene vacue e dialoghi banali (vedi la protagonista che dice voler fare l'antropologa ma di non sapere cos'è l'antropologia). La recitazione è spesso biascicata, come si può notare pure in altri film recenti. Celeste Della Porta nel ruolo di Parthenope è sempre in scena ma fa poco e lo fa male; meglio Luisa Ranieri nella parte della diva alla Loren. Anche I richiami al calcio suscitano più antipatia che altro. Rimangono le buone location napoletane, che meritavano di essere portate sullo schermo in un qualcosa di più interessante.
Gli aspetti controversi di Napoli nella figura di Parthenope, ragazza di famiglia benestante,che ammalia ogni uomo le si avvicini. Film freddo, se non triste. Stilisticamente perfetto (sembra quasi di assistere a degli spot di profumi), la sostanza invece delude. Non c'è un personaggio che trasmetta qualcosa di positivo. La città partenopea meritava qualcosa di meglio.
Chi vede questo film ricercando spasmodicamente una trama ne uscirà interdetto, spaesato e forse anche deluso. Chi si lascia trasportare dalle meravigliose immagini, vive da far sentire l'odore dei luoghi, dai colori, dai volti e dalle emozioni veicolate dai bellissimi protagonisti, ne uscirà edificato, forse dolorante, sicuramente emozionato fino alle lacrime. È un film di pancia, di istinto, di immenso dolore e un grande omaggio a Napoli e al suo arcipelago.
Ricchi annoiati o depressi, avvolti in un languido glamour e in preda a pruriti sessuali o sentenze da meme prêt-à-porter, attraversano gli anni 70 e 80, accarezzati da una mdp dai movimenti altrettanto lenti e annoiati, in un affresco decadentista e post-felliniano, in cui sono estetizzanti pure i bassifondi e gli scontri studenteschi. Nonostante gli studi della protagonista c’è poca antropologia e molto manierismo in un film che vuol duplicare l’altrettanto ambizioso e inutile affresco-parabola della Mano di Dio. Autoreferenziale ma con gusto.
C'è poco da dire se non che Sorrentino a Napoli riesce a esprimere le parti migliori della sua poetica; in questo film lo fa principalmente attraverso gli occhi, i gesti e le parole di Parthenope, una donna giovane, bellissima, sagace, capace di ammaliare ma anche di riflettere sul senso delle cose. Tralasciando l'ottimo aspetto tecnico, il regista non si perde troppo in simbolismi o metafore complicatissime (anche se dei momenti lo sono e non poco) e riesce a realizzare un'opera quadrata e completa nella sua incompletezza, nonostante alcune lungaggini e momenti stantii. Buono.
Attraverso la vita di una ragazza si narra di una napoletanità mutata nel tempo. La prima parte è visivamente superba, con sovrabbondanza di frasi a effetto e momenti a sé stanti. Nel prosieguo Sorrentino introduce un'aura mortifera sia negli eventi che per i suoi pensieri legati alla Napoli odierna. Migliore quando i toni si placano (Orlando, Lanzetta), dimenticabile in altri (Ferrari, Ranieri, il figlio). La protagonista è graziosa e parla per sentenze, poco a fuoco tra l'essere furba, dotata o ignorante della vita. Discreto Goldman. Musiche non sempre centrate.
MEMORABILE: Nei paramenti; Il baldacchino; Il discorso della Ranieri.
Episodici e felliniani ormai per antonomasia, i film di Sorrentino sono sempre più un caso cinematografico e "industriale", visto che parliamo dell'unico autore italiano contemporaneo che può permettersi (o a cui viene concesso) di dispiegare il proprio immaginario. Con tutti i rischi che ciò comporta (baloccamenti, desertificazione dell'aforisma, l'insussistenza dei traumi), ma anche frangenti di bellezza grande (i molti momenti puramente "visivi" come il rapporto tra Parthenope e il prof di Orlando). Resta aperto il discorso sulla gratuità e la necessità ma era già tutto previsto.
MEMORABILE: Peppe Lanzetta infido Tesorone; I sorrisi di Celeste Dalla Porta; Il bambino di sale e acqua.
Sorrentino non sarebbe Sorrentino se ogni tanto ci lanciasse un ossicino narrativo da sgranocchiare: inutile andare a cercare una retta che porti la storia da A a B. Paolone continua (a tratti genialmente) a estetizzare tutto l'estetizzabile: la vita, la morte, il suicidio, il sole, il mare, Napoli, il sangue di San Gennaro, pure i mostri. A tratti spossante, con la sua iconografia da pubblicità del Campari e un profluvio di frasi fatte; dando una grattata alla patinata superficie si trova però quella vena di amarezza sorrentinana che piace sempre. Sbadigliosa gioia per gli occhi.
Una prima parte che abbonda di battute preconfezionate in serie, spezzoni tenuti insieme a malapena e personaggi vacui. Parthenope da sola non può reggere cotanto imbarazzo e l'autocompiacimento del regista rischia veramente di annoiare a morte chi guarda, disseminando peraltro la pellicola di sequenze volgarotte (la copula imposta, il figlio abnorme, la curva semovente). A salvare la baracca le invettive della Ranieri, l'istrionismo di Lanzetta, i sorrisi della protagonista, di tanto in tanto le note musicali e le avvertenze del cattedratico su come presentarsi all'esame.
L'incommensurabile bellezza di Celeste Dalla Porta potrebbe da un lato accentrare l'attenzione dallo spettatore, ma dall'altro i difetti della pellicola sono cosi evidenti da non essere del tutto oscurati. Rimane la sempre eccezionale cura delle immagini e delle inquadratura al servizio di una storia che, in questo caso, non appassiona nemmeno per un instante, conducendo a un finale di rarissima inefficacia. Un'opera che vive di qualche momento altissimo e della straordinaria interpretazione di un Silvio Orlando di indicibile bravura. Senza alcun dubbio il Sorrentino meno riuscito.
MEMORABILE: La sentita invettiva di Luisa Ranieri; Le scene con il Cardinale; L'unione delle due famiglie.
Due o tre cose che so di NapoLei. La vedi e poi? Muori? Risorgi? Come nel peggior Tornatore, Sorrentino fa di Napoli un bijou da reificare affogandola in stucchevoli preziosismi disfunzionali e iperstilizzati mummificati di post-it di menzioni letterarie sottovuoto (ma povero Celine!). Vieppiù immenso Orlando a parte, personaggi e situazioni sono poco più che cavilli privi di integrazione discorsiva a uso sfoggio di maestria registica che entità vere e vissute (ma povero Cheever!). Come sempre quando la bellezza è troppo consapevole d‘esser tale, si resta più abbandonati che sedotti.
Un film come una città, anzi, come il mare che la punteggia e nel quale si immerge il racconto, i suoi protagonisti, finanche lo spettatore. Un mare che è orizzonte ma anche materia di cui è inevitabile fare parte e che può condurre alla speranza (Capri) o al punto di osservazione privilegiato da cui si può infine vedere. La storia di Parthenope è un pretesto, Sorrentino mette in scena un elogio alla bellezza (alla vita? Alla giovinezza?) e come spesso accade nelle sue opere il raziocinio bisticcia mentre il subconscio assorbe, si nutre e ne esce appagato.
MEMORABILE: La Dalla Porta; La prima volta con il brano di Cocciante; Il cardinale di Lanzetta; Il professore di Orlando; La Ferrari e la Ranieri; Il golfo tutto.
La vita di una sirena che rimbambisce gli uomini dalla nascita negli anni 50 fino ai giorni nostri concentrati sugli anni della giovinezza poco vestita, spesso a mollo nelle acque campane. Le ambizioni sono quelli di un ritratto femminile fuso con quello di una città affascinante e problematica come Napoli, ma il film annega in un mare di stereotipi formato export con una protagonista bella ma poco espressiva. Sprecate le presenze attoriali di pregio e le preziosità della fotografia, irritanti i dialoghi. il film peggiore del regista.
MEMORABILE: In negativo: l'esame universitario e la domanda al professore.
Con immagini sempre in bilico tra l'autentica fascinazione e lo spot pubblicitario ad alto costo (i primi piani della protagonista stile Megal Gale periodo Omnitel), Sorrentino racconta qualche decennio della sua città, aprendosi in maniera promettente (l'ombra dell'incesto) ma poi perdendosi tra episodi sconnessi di livello variabile (notevole la parte scolastica, con un ottimo Silvio Orlando), conditi con dialoghi intellettualoidi che sembrano uscire dalla penna di Chance il giardiniere. Il finale non riesce a dare un senso all'operazione, che comunque ha i suoi bei momenti.
Specialità della casa: lungometraggio alla Sorrentino; ingredienti: una protagonista di una bellezza sfavillante, paesaggi e scorci mozzafiato, inquadrature lente, silenzi lunghissimi, dialoghi assurdi, scene dal forte impatto visivo, mostri. Cucinate gli ingredienti per oltre due ore e otterrete questo film, in cui la meravigliosa protagonista dovrebbe incarnare la città di Napoli in un viaggio tra gli anni 70 e 80. Il risultato è un film sopito che assopisce. Si salvano la bravura di Orlando e la bellezza in tutti i sensi. Autocompiacimento patologico e felliniano.
MEMORABILE: La colonna sonora tutta; La Dalla Porta vestita solo del tesoro di San Gennaro.
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unico autore italiano contemporaneo che può permettersi (o a cui viene concesso) di dispiegare il proprio immaginario.
Davvero. Adesso comincia a stufare. Stava anche riprendendosi verso la fine ma quando è comparsa la curva semovente è stato come dire "ahò beccate pure questa, io so io e voi..."
DiscussioneNeapolis • 17/05/25 10:02 Call center Davinotti - 3294 interventi
Capannelle ebbe a dire:
Giùan ebbe a dire:
unico autore italiano contemporaneo che può permettersi (o a cui viene concesso) di dispiegare il proprio immaginario.
Il cinema non ti concede mai nulla è l'autore che si piglia le responsabilità di quel che dice e che fa. Se ci sono nel film concetti difficili da capire si può dire che forse il regista ha esagerato nelle metafore ma questo Sorrentino lo sa e se lo fa lo fa a suo rischio e pericolo e infatti non ha vinto nessun David ancbe se qualcuno lo avrebbe meritato.
Capannelle, Neapolis, innanzitutto è un piacere leggervi sempre ed un orgoglio esser tirato in causa per una mia dissertazione. Direi che alla sostanza (e fatte salve le personali declinazioni e inclinazioni) ci si possa dire comunque tutti e 3 d'accordo. Tutto il mio commento infatti giocava sul concetto che Sorrentino, in virtù della propria "conquistata" (condivido in assoluto Neapolis e non lo mettevo in dubbio nelle mie righe) indipendenza espressiva è l'unico Autore italiano oggi grado di dispiegare il proprio immaginario cinematografico, il che fa sì (e qui comprendo pur se non condivido totalmente il giudizio di valore di Capannelle) che talvolta sti vellicamenti solipsistici facciano sbuffare un pochetto. Ciò detto ribadisco il mio giudizio sul film e su molto Sorrentino ultimo: una eccellenza affascinante, il cui ridondare talora ammorba. Ma insomma è il Cinema e dunque: parliamone. Un caro ed affettuoso saluto ad entrambi
DiscussioneNeapolis • 17/05/25 13:55 Call center Davinotti - 3294 interventi
Giùan ebbe a dire:
Capannelle, Neapolis, innanzitutto è un piacere leggervi sempre ed un orgoglio esser tirato in causa per una mia dissertazione. Direi che alla sostanza (e fatte salve le personali declinazioni e inclinazioni) ci si possa dire comunque tutti e 3 d'accordo. Tutto il mio commento infatti giocava sul concetto che Sorrentino, in virtù della propria "conquistata" (condivido in assoluto Neapolis e non lo mettevo in dubbio nelle mie righe) indipendenza espressiva è l'unico Autore italiano oggi grado di dispiegare il proprio immaginario cinematografico, il che fa sì (e qui comprendo pur se non condivido totalmente il giudizio di valore di Capannelle) che talvolta sti vellicamenti solipsistici facciano sbuffare un pochetto. Ciò detto ribadisco il mio giudizio sul film e su molto Sorrentino ultimo: una eccellenza affascinante, il cui ridondare talora ammorba. Ma insomma è il Cinema e dunque: parliamone. Un caro ed affettuoso saluto ad entrambi
Sorrentino sembra compiacersi di sé stesso in alcune scene. Il figlio abnorme del professore fatto di acqua e sale è un simbolismo che trovo difficile da interpretare come anche l'idolatria verso la figura del camorrista e la figura del Cardinale Tesorone. Sono tutte metafore difficili da interpretare come la figura della stessa Parthenope che si concede quasi a tutii e a cui insistentemente si domanda cosa stia pensando. Sembra di vedere in altra chiave un film di Pasolini
Una curiosità magari degna di nota: l'attore che interpreta il padre di Parthenope, cioè Lorenzo Gleijeses, è il figlio di Geppy Gleijeses, già visto in "Cosi' parlò Bellavista" nel ruolo dell'architetto, genero del professore. Me ne sono accorto per l'incredibile somiglianza tra i 2.
Quando Sorrentino ha tutto il tempo per diluire la sua narrazione, allora ci sono ottimi risultati, come l'affascinannte serie tv " The young Pope", per me la miglior opera del regista. Se Sorrentino, però, continua così, spreca il suo indiscutibile talento. Si vede che si piace molto e molti suoi film cominciano evidenziando le sue grandi capacità visionarie ed è un vero spettacolo. I secondi tempi, invece risultano ridondanti, sempre con metafore eccessive e fuori luogo, che appesantiscono il tutto. Che bello il primo ballo in "La grande bellezza", con un Servillo che sembra uscire dallo schermo; e allora perchè fare tre scene quasi identiche di ballo? Sorrentino, datti una regolata, please!