Il primo spaghetti western girato da un autore cosiddetto “impegnato” (Florestano Vancini, quello di LA BANDA CASAROLI, che qui si firma all’inglese Stan Vance seguendo le regole dell'epoca), I LUNGHI GIORNI DELLA VENDETTA sembrerebbe avere tutte le carte in regola per essere un ottimo film: coproduzione italo-spagnola con una notevole fotografia di Francisco Mario, un protagonista di grido come Giuliano Gemma, sceneggiatura di Augusto Caminito e Fernando Di Leo (anche ideatori del film) per una confezione di tutto rispetto, che Vancini avrebbe il dovere di sfruttare. Invece, soprattutto per colpa del brutto soggetto di Mahnahén Velasco,...Leggi tutto il film non riesce a convincere. Parte molto bene, con Vancini che mostra una padronanza non comune della macchina da presa, con ottime scene sotto il sole bollente, con la colonna sonora di Armando Trovajoli che commenta egregiamente immagini suggestive, con una lunga e quasi “leoniana” scena di Gemma sotto “i ferri” del barbiere... poi però tutto si ferma. Si comincia a lasciare troppo spazio a personaggi secondari (e infatti il film dura ben due ore senza che se ne comprendano i motivi), si aggiungono scazzottate da saloon superflue e avviene un’involuzione deleteria, che unità all'inutile complessità dell'intreccio non può che annoiare. Ed è un peccato, perché di tanto in tanto i dialoghi di Di Leo sono intelligenti, fanno intravedere sprazzi di quella che avrebbe potuto essere un valente spaghetti-western, finalmente adatto all'espressività particolare di Giuliano Gemma, una “faccia d'angelo” troppe volte scambiata per maschera da commedia (vedi UNA PISTOLA PER RINGO). Regia comunque superiore alla media.
Unico western di Vancini, segue le varie diramazioni del genere - condanna ingiusta, vendetta, traffici d’armi e bande rivali di leoniana memoria – che lo script di Di Leo sviluppa ricorrendo a quel connubio tra violenza ed ironia già sperimentato con successo per Tessari. Il meglio si trova alla partenza (l’evasione dal campo di lavoro e la seduta dal barbiere) e all’arrivo (l’asso nella manica che conclude la lunga sparatoria), ma il film enumera altri buoni momenti garantiti dalla prestanza di Gemma e dal vigore di Rabal e di caratteristi come Sanmartin, Cobianchi d’Este, Pajarito, Corra.
Leone citava in un antico testo di Massimo Moscati questo film come esempio di fallimento d'autore; un regista di quelli "impegnati" alle prese col cinema di genere. In sintesi: fuori dal seminato i colossi cadono. Ma, vuoi per la mano di Di Leo, vuoi per il regista, comunque di talento, questo è uno spaghetti con momenti riusciti. Vancini prende mezzo cast di Tessari per la pagnotta (e Gemma è un po' fuori parte) ma si concede momenti piuttosto intensi; il barbiere, il vallone, il prefinale, il dialogo tra Navarro e Rabal sotto il baldacchino. Potabile.
Il grande Sergio Leone lo bollò come un western paranoico, ma l'unico lavoro di Vancini nel genere mostra lati dignitosi e positivi alternati ad altri carenti. Ingiustamente incarcerato, un uomo riuscirà ad evadere ottenendo la sua vendetta dopo tragiche peripezie. La sceneggiatura di DiLeo evidenzia anche lati ironici, fatti di non memorabili scazzottate e mostra un Gemma gigioneggiante poco coeso nella narrazione.
Lascia un po' perplessi questa "incursione" nel genere western di Florestano Vancini. Non un brutto film, ma l'impressione è quella di un'operazione studiata a tavolino (con alcuni degli ingredienti "archetipi" del genere), che lascia tuttavia un senso di freddezza e mancanza di spontaneità di ispirazione. Anche Gemma non è al suoo massimo.
Banale dire che è girato con professionalità ma senz'anima, però è la verità. Funziona meglio nelle piccole cose (come la Navarro sul balcone nel finale) ma non in quelle grandi (lo stesso finale, troppo prolisso e mai coinvolgente). Buono l'inizio, con bei movimenti di macchina (ma non inquadrare il viso di Gemma per oltre 20' pare un inutile vezzo), ma il calo comincia con l'inserimento di momenti comici che nulla c'entrano con l'assunto. Inutili Pajarito (non fa manco sorridere) e la Giorgelli, però qui dolcissima. **
Anche Vancini dirige il suo spaghetti western, ma il genere non era chiaramente nelle sue corde e così, nonostante le evidenti qualità registiche, il film non mantiene quello che promette, confondendo i suoi momenti migliori nelle pieghe di una storia (l'ennesima vendetta di un innocente ingiustamente arrestato) resa molto più dispersiva del dovuto (le due ore di durata non ci stanno proprio). Gemma non demerita ma altrove ha fatto senz'altro meglio; bravo, invece, Rabal nei panni dello sceriffo corrotto. Buone le musiche di Trovajoli.
Florestano Vancini tenta la strada del western, ma con poco successo. Il suo film infatti non coinvolge mai, appare rigido e con poche idee, giusto quelle tipiche del genere. La durata è eccessiva, ma soprattutto non convince Giuliano Gemma. Né la sua recitazione, poco espressiva, né il suo personaggio, che non pare per nulla il classico giustiziere dei western ma solo un ingenuo ragazzino. Qualche momento buono, qualche personaggio interessante ma il tutto è in generale deludente.
Non è uno spaghetti western stilizzato secondo il canone di Vancini: è uno spaghetti western e basta. Letterale negli esterni arrostiti e brulli e nei tagli dei primi piani, abbastanza lavorato nel canovaccio. Del resto al genere è vietato scantonare. Alcuni accenni sembrano presagire la comicità di parapiglia e cazzotti di Lo chiamavano Trinità (panzone messicano compreso). Gemma è più che dignitoso; il Terence Hill belloccio e pistolero gli sarà debitore. Neanche a dirlo, la vendetta senza prigionieri di Ted Barnett ha marchiato a fuoco il cinéphile Tarantino.
MEMORABILE: La lunga sequenza barba e capelli; Il filo legato alla pistola.
La vendetta senza lasciare prigionieri è la base di questo film che, nonostante sia caratterizzato da una confezione e un lato tecnico sicuramente di buon livello, non possiede spunti che riescono ad accendere la fiamma dell'interesse dello spettatore. Si passa da momenti nei quali si vuole intraprendere la strada comica del genere, ad altri in cui l'intenzione sembra essere quella di creare qualcosa di più criptico e ragionato, ma in entrambi i casi il film soffre di una sorta di diluizione che lo porta a essere quasi tedioso.
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Originariamente pubblicato dalla Shendene, in copia atroce; a farne giustizia l'edzione tedesca della X-Rated (Der lange tag der rache), con la famigerata confezione in cartone pesante ammazza-spazi: contiene la versione integrale del film con audio italiano.