Ciò che l'occhio non vede-L'introspezione della visione.
Profetico lo è, avanti con i tempi pure, ma a questa sentita (e sofferta) autobiografia cavariana (Leroy assomiglia in modo impressionante al regista bolognese, che, guarda caso, e caso non è, si chiama Paolo) manca quell' imprint per renderlo un vero e proprio cult movie .
Più che ai tanto strombazzati
Cannibal Holocaust, cameraman e assassini e occhi che uccidono, a me ha dato l'impressione di un
Emmanuelle senza sesso, nei viaggi esoticheggianti di Paolo e del suo operatore Gabriele Tinti (bravissimo oltretutto), in giro per l'asia, con tradizioni e pratiche del luogo.
Notevole l'incipit nel deserto (con la pelle dei protagonisti che si squama sotto il sole), dove il cinismo di Paolo (inseguire e filmare una gazzella finchè non le scoppia il cuore) e ben tratteggiato nella figura di uno straordinario e istrionico Leroy, una specie di colonnelo Kurtz della cinepresa.
Inutile rinforcare ancora la denuncia sui mondo jacopettiani (di cui si è scritto di tutto e di più, rimando al book nocturniano sui "mondo movie", dove all'opera di Cavara le si dedica un'intero capitolo, o al prezioso tomo di Curti/La Selva " Sex and Violence"), ma più interessante il meccanismo del dietro le quinte, della macchina da presa di Paolo (tenuta in spalla da Tinti) che filma esecuzioni, guerriglie, sultani rimbecilliti (bellissima la sequenza delle farfalle nel tempio e la contrattazione di comprare una delle sue mogli), il mercato delle prostitute sordomute, fino al notevole finale, dove Paolo vuole riprendere la sequenza clou del suo documentario shock, un attentato in un bar, di rara tensione emotiva, fino allo straziante risultato conclusivo (la trave che segnerà il destino funesto della Boccardo).
Continua a girare! ripete Paolo a Tinti, anche quando mette su pellicola le sue emozioni e il suo dolore (come quando viene pestato dai vietcong, domandando al suo operatore se ha ripreso mentre i viet lo picchiavano). L'ossessione dell'occhio della cinepresa va oltre, anche quando Paolo cerca di convincere un bonzo a darsi fuoco davanti ad una chiesa per protesta (naturalmente il bonzo non è così scemo), o chiede al comandante dell'esecuzione se può spostare il condannato alla fucilazione davanti al muro bianco, dove il cinismo, l'amoralità e l'insensibilità del regista si muta in un'onnipotenza quasi herzoghiana (chissà perchè mi veniva in mente
Fitzcarraldo), sul mostrare l'immostrabile.
Più debole, invece, la storiella d'amore tra Paolo e una Boccardo ai limiti del masochismo (e tutta la parte con il fesso marito di lei), con datatissimi dialoghi altisonanti da melò, sottolineati dalla OST poco azzeccata di Marchetti, che ingolfano il film, tanto da risultare inutili e stucchevoli.
Rimangono Paolo e l'operatore che filmano una guerriglia (per poi essere di sorpresa catturati dai vietcong) tra corpi in fiamme e mitragliate, il museo all'aperto delle torture giapponesi (con macabre statuine che raffigurano decapitazioni e eviscerazioni), la prestazione sessuale della ragazza indigena, le prostitute sordomute, il malessere di Tinti dopo aver ripreso il ragazzo fucilato e le riprese dei tossicomani presi a bastonate (che, però, risulta ridicola, almeno per le espressioni che fanno i vecchi quando vengono mazzulati)
Degna di nota, comunque, la regia di Cavara, che non assomiglia a nessun altro film, pregna di una personalità e di una potenza narrativa davvero sorprendente ( e spanne sopra a registi più blasonati), che si rifà più a certo cinema americano che nemmeno nostrano (in questo senso un pò come farà con quel piccolo capolavoro che è
E tanta paura, che abbandonerà gli stilemi argentiani per abbracciare atmosfere e tematiche lattuadiane), come le ottime sequenze notturne finali al bar, che anticipano certo cinema "giornalistico guerrigliero" a venire, tipo
Salvador,
Sotto tiro,
Linea di fuoco,
Un anno vissuto pericolosamente o
Urla del silenzio.
Credo anche che sia uno dei primi film italiani ( ma che di italiano ha poco o nulla, perché è un opera anomala e scheggia impazzita nel cinema nostrano- soprattutto per gli anni 60-) che mostra la guerra in Vietnam, con tanto di soldati americani e incazzosi vietcong.
Non del tutto riuscito, ma un'opera fondamentale e non poco seminale per quanto riguarda l'introspezione della visione e i meccanismi del labile confine tra realtà e finzione, dove Cavara sbertuccia , con dovizia, le false mitologie e le efferate rappresentazioni (o messe in scena) del "mondo movie".
Eccessivo (anche per l'epoca) il divieto ai 18.