Daniel de la Vega con in testa il nostro cinema di genere, su tutti Argento (
i corvi, Faye Dunaway terrifica
mater suspiriorum, i l
ibri di magia nera) , qualcosa di avatiano (a vecchia decrepita
allettata, la decadente villa francese all'inizio di
Zeder), nonchè Aldo Lado (Buenos Aires sembra la Praga della
Corta notte, la morte apparente) e riverberi di
Saura (giusto per prendere a modello i classici europei).
Il tutto immerso in un'atmosfera opprimente, funerea e decadente, con tocchi poeiani (il cuore estirpato pulsante, i sepolti vivi, la misteriosa malattia degenerativa ereditiaria che consuma dall'interno, partendo dai reni fino ai polmoni) e forni crematori
o'banniani Balzano e oscuro racconto di stregoneria, dall'impianto poveristico (brutta fotografia, recitazione men che mediocre,Gina Philips in primis, non aiutata da un doppiaggio italiano infame) con dialoghi spesso deliranti e assurdi, parentesi scriteriate che vanno oltre le soglie del ridicolo (l'anziano dottore convertito a beccamorto che si improvvisa esorcista per benedire il giardino della magione, la Dunaway che sgrida il corvaccio tenendolo nel pugno, la gemella non morta nella bara che muove gli occhi che nemmeno ne
I morti viventi sono tra noi), ma pervaso da una coltre caliginosa e necrofora, che appaga nel finale crudele (il corvo che esce dallo stomaco modello
xenomorfo, il sangue che cola e sporca le candide lenzuola) insano colpo d'ala di gustosa (e inaspettata) beffa mortifera che rimanda ancora alla
Corte notte delle bambole di vetro.
Faye Dunaway, doppiata criminalmente col nostro idioma, troneggia e gigioneggia, come una
Gloria Swanson passata dal chirugo estetico e sputata dall'inferno.