Quando si parla di computer assassini, intelligenze artificiali in rivolta, visioni pessimistiche sullo sviluppo tecnologico, generalmente Kubrick e Dick sono i nomi cui tutti fanno riferimento.
Il computer in questione non si chiama Hal-9000, non parla, non ha monocoli rossi con cui spiare i suoi obsoleti creatori, e soprattutto non ha l'aspetto futuristico cui la sci-fi convenzionale ci ha abituato. No, si tratta di uno di quegli enormi elaboratori dei primi anni '70, quelli che occupavano mezza stanza, senza monitor, rumorosi e pieni di lucette. Vedendone uno oggi, grosso relitto di un'era tecnologica morta e sepolta, un aggettivo facente parte del campo semantico della paura è quanto di più lontano gli si possa attribuire.
Ciononostante, questo "Paper Man" riesce in tempi non sospetti a insinuare nel pubblico il dubbio e il timore che quei pericoli distopici teorizzati e fantasticati da scrittori e registi siano in realtà molto più concreti e vicini nel tempo di quanto si creda.
La storia è meno implausibile (almeno nelle premesse) dello standard: quattro studenti entrano in possesso di una carta di credito intestata per errore a un certo Henry Norman, persona che di fatto non esiste. L'idea degli amici è quella di servirsi del super-computer dell'università (collegato ai database di altre macchine) per "creare" dal nulla un Henry Norman, in modo che figuri ufficialmente come una persona reale a tutti gli effetti. Ottimo capro espiatorio virtuale per un po' di shopping compulsivo senza ripensamenti. Chiedono aiuto a un altro studente (Dean Stockwell), un ombroso mago dell'informatica, sulle prime riluttante ma che, forse grazie ai sorrisetti di Stefanie Powers, si lascia infine convincere. Sulle prime tutto va secondo i piani, ma a poco a poco le prime stranezze fanno capolino. Sembra che qualcuno abbia acquistato una pistola con la carta di credito, ma nessuno dei coinvolti pare avere nulla a che fare con la faccenda. Le cose vanno anche peggio quando, uno dopo l'altro, i giovani sprovveduti finiscono vittime di strani incidenti collegati ad altrettanto bizzarri malfunzionamenti del computer (segnalazioni di farmaci errati, ascensori impazziti, cortocircuiti letali...). E poi ci sono documenti e certificati a nome di Henry Norman che arrivano senza che nessuno li richieda. Sarà forse proprio Henry Norman l'autore dei delitti, passato da semplice "uomo di carta" a incorporea creatura cosciente?
Piccola sorpresa targata CBS: dietro l'aspetto di un datato e talvolta raffazzonato film televisivo si nasconde un tema affascinante, inquietante e in qualche modo ancora attuale, sebbene il contesto storico in cui è stato girato finisca per relegarlo, almeno visivamente, all'antiquato. Il '71 è un'epoca in cui ben pochi spettatori avevano idea di come funzionasse un computer, ed è difficile non sorridere quando il personaggio di Stockwell, usando espressioni oggi conosciutissime come "log in", si sofferma a spiegarne il significato. Al contempo è interessante constatare che opere di hacking truffaldino (senza scomodare plot spionistici stile
Il cervello da un miliardo di dollari) fossero materia conosciuta anche nell'era pre-internet, e l'idea di usarli come pretesto per un thriller orrorifico è a un passo dalla genialità.
Nonostante i nei portati dall'età, le imprecisioni e le svolte tecnicamente implausibili, il pregio dello script è quello di funzionare su più fronti. I dubbi su cui la sceneggiatura si basa sono essenzialmente due: a commettere gli omicidi è davvero il computer, in grado di ragionare per conto suo, oppure c'è una mano umana a muovere i fili? E poi, nel caso il colpevole fosse una persona in carne e ossa, di chi si tratta? Fra fantascienza e giallo in tipica formula whodunit, scorre anche un'evidente venatura horror: la coreografia degli omicidi è vistosamente declinata secondo gli standard del cinema del terrore.
Si prenda la crudelissima morte di una delle vittime: dopo aver ricevuto un'ossessiva sequela di "DEATH" sul nastro di carta del computer, che anticipa il "VENDETTA" de
Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, la poveretta viene spaventata da inusuali comportamenti delle luci, che la spingono a tentare una fuga via ascensore (da brividi la corsa lungo il corridoio con le lampadine che si spengono dietro di lei come in
Session 9). Non mi spingo oltre, ma diciamo solo che
L'ascensore di Maas deve moltissimo a questa sequenza.
Merito della regia di Walter Grauman (che deve avere qualche problema con gli ascensori, come dimostrano i suoi
Un giorno di terrore e
13° piano: Fermata per l'inferno). Sebbene non nasconda la televisività del prodotto nelle sequenze di dialogo, durante i delitti esterna capacità compositive pregevolissime.
Anche senza soffermarci sugli omicidi, comunque, gli stessi titoli di testa (con un fantoccio di carta appeso a mo' di pentolaccia antropomorfa, illuminato da un'angosciante luce rossa e accompagnato dalla dissonante colonna sonora di Duane Tatro) riescono a inquietare.
Altre incursioni fanta-orrorifiche sono meno efficaci, ad esempio il manichino computerizzato di cui gli studenti di medicina si servono per le esercitazioni, che in una scena prende "vita" per fulminare un malcapitato con una letale stretta di mano. A prescindere dall'idea balzana, fa sorridere anche l'ovvio costume da pupazzo indossato da un attore che fa di tutto per imitare movimenti robotici.
Un altro difetto è l'incapacità di mantenere viva fino alla fine l'incertezza circa la presunta coscienza del computer: troppo presto il film getta la maschera palesandosi come giallo di stampo classico, anche perché, una volta individuati i sospetti, l'identità del colpevole è decisamente facile da individuare. Se si fosse riusciti ad aspettare fino al finale, la suspense ne avrebbe di certo giovato: la seconda parte è un po' carente sotto il profilo della tensione. Per fortuna un piccolo colpo di coda nella tranche finale rimette le carte in tavola e chiude l'opera su una nota interrogativa.
Il cast è folto di volti noti, dai già citati Dean Stockwell di
Frenesia del delitto e Stefanie Powers di
Cuore e batticuore a James Olson (già con la Powers in
Crescendo... con terrore) e Ross Elliott (
Tarantola e
L'inferno di cristallo fra i tanti).
Insomma, un prodotto lodevole che, pur con qualche pretesa sulla sospensione dell'incredulità e alcune reazioni poco convincenti da parte dei protagonisti (la Powers è un tantino troppo temeraria e padrona di sé per essere una studentessa al centro di una misteriosa catena delittuosa), intrattiene, inquieta e fa riflettere per novanta minuti senza sbadigli.
Sono tanti i detrattori dei remake, ma ritengo che un rifacimento aggiornato a tempi più recenti sarebbe indubbiamente interessante.