L'orrore dei campi di sterminio e delle esecuzioni di massa nelle camere a gas è presente dall'inizio alla fine, pur con l'abile accorgimento tecnico di lasciare sfuocati i dettagli più macabri, tenendo costantemente l'immagine soggettiva sul volto intenso e disumanizzato di Saul. I dialoghi sono quasi assenti, solo grida di comando e di disperazione e tremendi rumori. È un documento crudo e realistico, in cui trova spazio una missione dal forte valore simbolico. Film importante ma molto impegnativo per lo spettatore.
MEMORABILE: "Tu tradisci i vivi per seppellire un morto".
Potente, dolente, bello da mozzare il fiato. Non solo per l'argomento che affronta, tra l'altro trattato da una prospettiva quasi sempre taciuta (quella dei sonder kommandos), ma soprattutto per come lo affronta. Con un coraggio ed una (quasi) radicalità che meritano ammirazione e rispetto soprattutto per un esordiente. Nemes mostra già uno stile ed una maturità senza pari che gli permette di scaraventarci nell'orrore e nell'abiezione più assoluta, ma di farlo con un invidiabile rigore formale e con una eccezionale morale della visione. Pochi e scarni i dialoghi: le immagini parlano da sole.
MEMORABILE: I primi minuti ed i rumori provenienti dai forni; I piani sequenza; La sorte del figlio di Saul; L'intensissimo sorriso di Saul alla fine del film.
Lo dico subito: è un mattone. Ma dico anche subito che, in questo caso, non do un'accezione negativa al termine: è un mattone che resta lí e ti fa compagnia per un po' e ti fa riflettere. La Shoah è stata declinata ormai in molti modi, ma il POV dell'inferno messo in piedi da Nemes colpisce per rigore: la nuca di Saul e l'orrore sfocato. Praticamente nessun dialogo (che senso hanno le parole nella Babele della mattanza?), la carne come ultimo appiglio, l'annientamento della ragione e del sè: temi magari risaputi ma non meno lancinanti. Duro e senza speranza.
Lo schermo in 4:3 riduce il campo visivo; la camera a mano, implacabile, è puntata sul volto e sulla nuca del protagonista come un fucile; sonoro materico, contesto sfocato. Nemes entra nel cuore della fabbrica della morte e la lascia fuori campo: una restituzione percettiva - l'imbuto autistico della resistenza - e una scelta antispettacolare, politica. Se da un lato la sovresposizione della regia smorza lo shock emotivo, dall'altro libera l'elaborazione concettuale, la presa d'atto. Non un capolavoro, ma un tentativo di razionalizzare e contenere attraverso la forma l'entità di un genocidio.
Uno stile di ripresa del tutto ostico rende difficile arrivare alla fine e vivere la tragedia, qui raccontata dal punto di vista dei sonderkommando. Il campo stretto tenuto fino all'esasperazione, modulato con messe a fuoco variabili, l'assenza di musiche e la rarefazione dei dialoghi. Tutto si gioca sul viso di Rohrig, sulla sua determinazione e su quello che si percepisce del contorno. Ripensandolo si possono apprezzare alcune scelte ma non è la mia idea di cinema.
Indubbiamente un film di grande impegno con una visione talvolta straniante ma totalmente veritiera in cui le atrocità emergono sfocate visivamente ma detonanti nei rumori. Bravo il protagonista, che mostra il suo volto dilaniato dalla sofferenza e dalla fatica. Finale che arriva come una mazzata dopo qualche briciolo di speranza latente.
Francamente arduo dire qualcosa di "cinematograficamente" nuovo sulla tragedia dell'Olocausto. All'esordiente Nemes il merito di esserci riuscito con commendevole caparbia stilistica, quasi mai fastidiosa nonostante la sua maniacale "pedanteria" teorica. Così il pedinamento di Saul, cui il volto di Rohrig conferisce una insana ossessione ottusa, ci sprofonda in un orrore tanto più agghiacciante quanto più ci viene nascosto o sfocato piuttosto che detto e mostrato. Di indubbia coerenza lo stesso finale, che cancella ogni impossibile umana "resistenza".
Se esiste un inferno è sicuramente rappresentato da questo film di László Nemes; francamente non riuscirei a pensarne uno peggiore. Girato tutto con telecamera a mano e senza alcun tipo di colonna sonora, è un viaggio senza ritorno nella follia umana, dove non esiste un modo per tenere la propria mente al riparo dall'orrore quotidiano. Il processo di disumanizzazione è inesorabile e conduce in un abisso dove solo il calore di un figlio può scaldare corpi che sembrano automi fagocitati dalla macchina della morte.
Dopo innumerevoli film sull'Olocausto, spesso cinematograficamente pigri, l'esordiente Nemes stupisce per la caparbietà delle scelte registiche e narrative. Lunghissimi e dinamici piani sequenza con la cinepresa attaccata al protagonista mentre sullo sfondo l'inferno dantesco del campo di concentramento scorre senza sosta in maniera monotona e imprevedibile allo stesso tempo, un caos organizzato sottolineato da un sound design memorabile che ci porta in mezzo a una vicenda essenzialmente di sopravvivenza e follia, lontana dal solito pietismo.
Questo film ungherese si discosta dal classico "dramma storico" dell'Olocausto per addentrarsi nella natura umana; con l'uomo che, ormai ridotto ad automa della morta, riesce con tanto sacrificio a trovare ancora quel briciolo di umanità e amore. Il regista ci trasporta negli autentici gironi infernali del mattataoio umano tra urla, corpi accatastati, violenze e dolore. Un gran film, duro ma che lascia molto.
Il film si può leggere su due binari: il primo meramente estetico, in cui troviamo qualche difficoltà per la sua lentezza, il secondo empatico e non possiamo esimerci dall'uscirne con le ossa rotte. La bellezza di questa pellicola sta nel calarci nella più grande disumanità mai perpetrata quasi con gli occhi di Saul, che già morto dentro trovo una scintilla di vita per marcare ancora più nettamente il solco fra umani e mostri. Un esordio coi fiocchi, una storia da brividi.
Film realizzato con stile molto particolare. La m.d.p. rimane quasi sempre incollata sul volto o (più spesso) sulle spalle del protagonista, impegnato in "normali" lavori di routine nell'inferno di un campo di sterminio, tenendo quasi sempre "fuori fuoco" tutto ciò che gli sta attorno, come se (per lui) avesse scarsa importanza. Pellicola che, pur essendo di non facile visione, tocca "duro" l'animo dello spettatore, cosa enfatizzata proprio dalle scelte stilistiche. Ottimo Géza Röhrig nel ruolo principale, il cui volto esprime tutti i sentimenti del personaggio.
Ebreo che appartiene al Sonderkommando cerca di dare sepoltura a un ragazzino. Personaggio ostico trattandosi di colui che, oltre ad assistere alle atrocità dell’Olocausto, è obbligato ad aiutare i tedeschi nel genocidio. La mdp addosso è una buona scelta per circoscrivere la vicenda e per dare un punto di vista inedito dei campi di concentramento. Conclusione che sottolinea la linea sottile tra la pazzia e l’umanità. L’uso del bianco e nero avrebbe accentuato ulteriormente la drammaticità. Piccola pecca qualche libertà di movimento di troppo.
MEMORABILE: La X sulla schiena; Le menzogne prima della gassificazione; Il ragazzino sull’uscio della baracca.
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CuriositàZender • 29/02/16 08:44 Capo scrivano - 48849 interventi
Oscar 2016 come miglior film straniero.
DiscussioneRaremirko • 18/08/20 00:20 Call center Davinotti - 3863 interventi
Perlomeno originale nell'approccio, semidocumentaristico, con camera che segue sempre il protagonista, offre un modo di vedere la vita nel lager un pò diverso dal solito; lo si sa, al bottteghino e agli Oscar è terreno facile quello del nazismo, ma qui ci si sforza di esser sinceri ed innovativi.
Sul genere c'è chi ha fatto di meglio, ma il film vale di sicuro la visione.