Praticamente in scena dall'inizio alla fine, la coppia composta da Philippe Leroy e Dagmar Lassander dà vita a un gioco erotico cominciato dalla mente perversa del primo, filantropo che ama seviziare prostitute nei week-end per soddisfare le proprie ossessioni sadico-erotiche. Trovandosi finalmente tra le mani una vittima inconsapevole (la sua segretaria, sequestrata e portata nella grande villa teatro di gran parte della vicenda), I'uomo si divertirà a farle subire blande torture di vario genere facendole credere di volerla ammazzare. Ma lei sta al gioco e anzi si propone di riportare lui sulla retta via insegnandogli cos'è l'amore vero. Schivazappa (anche cosceneggiatore)...Leggi tutto ambienta la vicenda fra le ampie stanze futuriste dove vive il seviziatore, ne coglie lo spirito avanguardista attraverso una messa in scena stilizzata e un'ottima fotografia creando un'opera ambiziosa anche sotto il profilo formale, ponendo al centro della storia l'ambiguo rapporto tra i due unici protagonisti. Scioccato in gioventù dal letale accoppiamento di due scorpioni, Leroy vive il sesso come uno scontro maschio-femmina che deve portare il primo alla schiacciante vittoria ottenuta attraverso l'umiliazione. Troverà in Dagmar Lassander (che Schivazappa aveva visto nel film erotico tedesco ANDREE e che ottenne di far esordire con successo in Italia) pane per i suoi denti. Visivamente affascinante, FEMINA RIDENS è film di concetto e a causa di ciò muto per lunghi tratti, inevitabilmente lento, con un colpo di scena finale poco in linea col resto.
Grandissimo. Schivazappa si scatena col decor, zeppo di omaggi e riferimenti al designa e alla pop-art contemporanea (dalla Hon, la statua raffigurante la donna sdraiata con le gambe spalancate di Niki De Saint-Phalle, a Capogrossi) che incornicia la divertentissima storia sadiana e fumettistica con rovesciamento dei ruoli. Eccellente la Lassander, super-trash Philippe Leroy, notevole colonna sonora. Culto culto culto
Film curiosissimo. Lento ma decisamente intrigante, caratterizzato da scenografie futuriste indimenticabili. Regia intelligente, fotografia ottima, musiche azzeccate (anche se non troppo memorabili) e due ottimi protagonisti. Peccato solo per una certa lentezza di fondo. Prevedibile ma sicuramente azzeccato il finale. Una scena ricorda molto da vicino Funny games. Consigliato.
Interessante e psicologico film, che si muove lungo il sottile confine del dualismo e del rapporto ossessivo tra contrari -come calamite- in attrazione. O meglio: sottrazione, giacché il rapporto tra uomo (Leroy) e donna (una morbida e sublime, pur di origine teutonica, Lassander) si risolve in un conflitto, rappresentato anche sul piano iconografico per via dell'uso di scenografie futuriste e contrastanti con la verosimiglianza. La storia sembra sprofondare in un soffice incubo (à la Barker) dove supplizio e suppliziante diventano tutt'uno.
Divertente, bizzarro e gustoso film di difficile collocazione che, nonostante qualche ovvietà (specie per ciò che riguarda il finale), si continua a far apprezzare nonostante siano ormai passati quasi quarant'anni. Notevole esordio cinematografico di Schivazappa (che in futuro non si ripeterà più a questi livelli) che può contare su momenti davvero spassosi e riusciti e sulle scenografie futuriste che non si dimenticano facilmente. Un piccolo gioiellino misconosciuto, dal gusto ferreriano, da riscoprire e rivalutare. Se potete non perdetevelo.
Lode allo Schivazappa per questo lavoro interessante e per non aver usato nomi d'arte (lui che ne aveva bisogno..). Psichedelico e cinico quanto basta, si fa apprezzare soprattutto per la forma espressiva, una notevole galleria di oggetti e temi futuristici di stampo kubrickiano, ben musicata da Stelvio Cipriani. La vicenda rimane confinata al rapporto tra Leroy e la Lassander, non propone grosse sorprese ma ha il merito di non scadere in scene esplicite.
Le sgargianti scenografie pop-art e le parimenti creative musiche di Cipriani creano l’ideale setting per un’opera apolide e camaleontica, che spazia da esercitazioni di sadismo teorico e pratico a pamphlet su sessismo e misoginia e fantasie gotico-agresti: illusorio dirottamento da un prefigurato finale cinico e tragico. La Lassander, all’inizio della sua lunga e fortunata carriera italiana, forma con il virulento Leroy una bizzarra coppia sempre pendolante tra depravazione e humour. Titolo imprescindibile per uno studio della filmografia italiana anni Sessanta più estrosa ed originale.
La vagina dentata dell'artista pop De Saint-Phalle traccia i contorni dell'incubo di castrazione del povero Sayer (Leroy), la prospettiva di una futura, possibile partenogenesi è presagio di morte per il maschio, non più padre, né padrone. In uno scenario astratto, Sayer e Mary divengono astrazioni, in una guerra tra i sessi etologica prima che ideologica, una guerra silenziosamente dichiarata e combattuta fin dalla notte dei tempi, nella natura e nel mito. E che continua sotto le luci al neon, tra le moquette e le limousine di una gelida, decadente modernità.
MEMORABILE: La musica da duello western che accompagna il fatale accoppiamento tra Leroy e la Lassander.
Mitico titolo della sexploitation italiana di fine anni '60. La storia in sè è tutto sommato poco interessante e il finale protofemminista abbastanza prevedibile anche per chi non lo conosce già, ma il suo fascino va cercato nella suggestione del decor asettico e futurista che ne fa una vera summa dell'estetica psichedelica del cinema di quel periodo. Leroy funziona finché fa il sadico, dopo cade a ruota libera, mentre la Lassander regge bene le due parti del suo gioco. Pessime le musiche di Cipriani, per un film così ci voleva un Morricone.
Film che esplicita i suoi intenti ma non riesce ad esprimerli pienamente. Vorrebbe caricare l'atmosfera con una tensione erotica derivata dalle perversioni psicosessuali del protagonista Philippe Leroy, che però non riesce a rendere il suo personaggio così trasfigurato dall'ossessione; meglio la Lassander, che tra sensualità e paura riesce a trovare un ottimo bilanciamento. Belle le scenografie anni settanta, con rielaborazioni molto particolari di alcune opere d'arte.
Una visione la stramerita, ma non sfrutta appieno le sue potenzialità. I discorsi fatti in partenza, riguardo a un futuro dominato dalle donne, potrebbero infiammare curiosità e anche immaginazioni, ma vengono sommersi dalle reazioni spropositate e deplorevoli del protagonista... Alla fine, allorchè la clessidra si capovolge, mi è venuto da pensare: che peccato, anzichè fondare qualcosa di positivo si rimane con la solita medaglia a due facce sul palmo della mano e niente di più.
MEMORABILE: Tutto il design e le statue, ma sono favolosi i disegni di batteri, virus e protozoi in grado di causare le malattie più letali.
Piccolo ma geniale film di Schivazappa. Diviso in due parti che sono speculari (succedono le stesse cose a rovescio), la prima in una villa a dir poco favolosa e la seconda all'aperto. All'epoca l'inserimento di opere d'arte contemporanee era una regola, la loro volgarizzazione era fruttuosa. E della vagina di Tinguely è facile se ne sia ricordato Almodovar. Comunque, visivamente è una festa per gli occhi e lo humor e il sarcasmo beffardo traggono frutto anche dall'estetica. Favolosa l'auto anfibia che usa Leroy! Un film pazzo e memorabile.
MEMORABILE: Leroy e Lassander davanti al manichino della donna sospesa e costretta nella tuta; La vagina di Tinguely.
Molto tempo prima di Légami, Schivazzappa aveva già messo in immagini il legame che può nascere tra una preda in cattività e un carnefice dominante in questa sinuosa artistica opera pop, ma con un finale differente e soprattutto un fine differente. Della coppia è senz'altro la Lassander a fare suo il personaggio, abbandonandosi ai sensi senza mai perdere di vista la razionalità delle cose, salvaguardia di una via di fuga. La pellicola si distingue per la sua grande originalità, per la vena artistica del comparto scenografico e per le musiche. Cult.
Interessante analisi del rapporto distorto tra uomo e donna. Acute idee visive, come l'enorme statua di donna distesa e relativa porta dentata. Le scene in cui, l'uomo dominatore, sottomette la pericolosa compagna sono a mio parere quelle più noiose, mentre mi è sembrato molto più avvincente notare le sottili vendette della giovane addetta stampa, che passa da vittima a carnefice. Finale pregevole. Nell'album fotografico c'è sempre una pagina bianca da riempire. Curate e brillanti le musiche!
MEMORABILE: Il direttore che, fiaccato, cade in ginocchio stremato davanti alla sua "guaritrice".
Bellissime le scenografie (il film è ricordato perlopiù per questo), pellicola interessante anche se dopo che si scopre il tutto (la confessione di Leroy) diventa molto un esercizio di stile da parte del regista. Curioso il tema musicale da western che che funziona benissimo nella scena finale in piscina. Prevedibile il ribaltamento dei ruoli che prende la vicenda, meno l'ultima scena...
Se non può competere per lungimiranza intellettuale e conseguenzialità ideologica con il cinema di un Ferreri, certo però il film di Schivazappa si fa apprezzare anche e diremmo soprattutto per una sopraffine sovrastruttura estetico formale che sfrutta in ambito cinematografico elementi di urbanismo unitario e detournement. Così se le declinazioni del gioco vittima-carnefice sono, quando non risapute o addirittura discutibili, comunque esaurite in partenza, il mood architettonico dell'opera continua ad abbagliare e incuriosire. Sensuali Leroy-Lassander.
Ottimo film di Schivazappa sul rapporto tra uomo e donna, le sue generazioni e le sue trasformazioni, con alcune spruzzate di incisivo femminismo, al pieno passo con l'epoca. La storia semplice ed essenziale - il rapporto sado-masochistico che trasforma gradualmente il carnefice in vittima - è impreziosita dagli ottimi dialoghi e sopratutto da scenografie pop e simil-futuristiche di grandissimo effetto visivo. Assolutamente memorabili le musiche di Stelvio Cipriani, bellissime come sempre e in linea con l'estetica del film. Da riscoprire.
Il film che lanciò la splendida Dagmar Lassander nel cinema italiano è un erotico con idee diretto dall'esordiente Schivazappa. Incentrato sul rapporto vittima-carnefice, ha buoni spunti ma il regista si prende troppo sul serio. Serviva più auto-ironia alla Bava. Trionfo della rossa attrice sul rude (ma non tanto) Leroy. Bella la canzone scritta da Cipriani con la voce di Olympia.
Un capoufficio (Leroy) con qualche vizietto di troppo sequestra, nella sua sfarzosa villa, l'ingenua segretaria (Lassander). L'opera di Schivazappa insegue un filone, quello dell'erotismo estremo ma condito di veste borghese/patinata che, almeno allora, poteva soddisfare certi insiti pruriti. Rivista oggi, è una pellicola che fotografa vizi e vezzi del cinema italiano fine Anni Sessanta: modernità, coraggio, ma in definitiva sotto la crosta di contemporaneità le solite quattro idee. Un sexy-thriller in ogni caso esteticamente appagante.
Ma tu guarda: il predatore, sentendosi predato, reagisce d'istinto e chiude gli artigli sulla preda. E se i rapporti di forza fossero invertiti e la preda, strawsonianamente, avesse voluto che il predatore reagisse esattamente in questo modo? Piuttosto difficile da classificare in un solo genere (in questo assolutamente figlia del suo tempo), la commedia di Schivazappa si ricorda tuttavia non tanto per le sue invenzioni narrative, quanto per una goduriosa cura al dettaglio nelle scenografie (pura pop art!) e nelle musiche (Cipriani al meglio).
Apologo grottesco con uso urlato della pop-art (Leroy sfoggia perfino una tinta biondo platino che ricorda il Mastroianni de La decima vittima) e del gusto della simmetria (la prima parte in freddi interni futuribili e la seconda in un bosco aperto e isolato) che si ritrova anche nel rovesciamento di ruoli e situazioni. Esteticamente mette soggezione, come un capolavoro di arte contemporanea che non si comprende. Ma dopo un'esperienza sensoriale notevole, come in un ristorante gourmet alla fine la ciccia è poca e si va via che si ha ancora fame.
MEMORABILE: La porta a forma di vagina dentata, riproduzione della scultura "Lei" di Jean Tinguely e Niki de Saint Phalle.
Bizzarro trastullo pop, ottimo come idea e resa visuale ma opinabile nello sviluppo. Zampettando fra thriller, erotico e grottesco, si ritira non appena potrebbe affondare il colpo. I rapporti fra vittima e carnefice sono ondivaghi, insensati. Si passa arbirariamente dalla fuga alla devozione, dalla repulsione alla sensualità. Un teatrino giocoso del quale solo alla fine capiremo il senso, ma fino ad allora appare solo insensato. Mary poteva nascondere meglio le sue carte e condurci dalla misoginia alla misandria in modo più lineare e schiacciante, ma ha preferito gingillarsi.
MEMORABILE: L'uomo spolpato dalla vagina dentata; Il duello finale.
E' vero che l'erotismo ognuno lo vive a modo suo; quello evocato da Piero Schivazappa in questo film è cupo, incentrato sullo strano rapporto che si sviluppa tra un maniaco sessuale elegante e di buona famiglia e l'ultima delle sue vittime, diversa da quelle precedenti. Psicologia a buon mercato, dialoghi che tendono all'assurdo ma qualche bella trovata visiva.
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Trivex ebbe a dire: Scusate,ma la versione integrale è di 108 minuti?
Il Cinekult indica 88 minuti..Mentre Shameless 108.. Io ho la Cinekult... se qualcuno ha visionato l'edizione integrale, può dare dettagli sulle scene tagliate? Grazie!
Qualcuno sa dirmi se la villa, set principale, viene inquadrata qualche volta dall'esterno?Un amico mi ha chiesto di rintracciarla...purtroppo non ho il film.
Grazie.
Guardando sul sito di Italiataglia, figurano le seguenti lunghezze di pellicola:
- Versione a cui è stato negato, il 13/5/69, il nulla osta:2445m (circa 89'43")
- Versione, V.M 18 (alcune sequenze tagliate) in data 4/7/69: 2426m (circa 88'40")
- Versione che, il 1/12/95, ha ottenuto V.M14: 1974m (circa 72'08").
Quindi parrebbe che, almeno in Italia, non sia mai esistita una versione da 108'. La versione vista da Trivex su Cielo dovrebbe essere quella V.M.14 (d'altronde in Italia non dovrebbe essere ammesso trasmettere film V.M18 su TV generaliste) : infatti i poco più di 72' in PAL diventano poco più di 69'.