Una giornata di peregrinazioni per Venezia (con flashback ginevrino) del diplomato ventisettenne Bonifacio, in attesa di essere forse assunto... Esordio registico di Tinto Brass, con l'aiuto (accreditato) di Kim Arcalli: divagante e ciacolante, percorso da fremiti Nouvelle vague - godardiani (JLG è esplicitamente omaggiato), è imperfetto ma sincero, a tratti persino ingenuo, e curioso nel modo (rigorosamente individualista, anarchico) di affrontare un tema allora attuale (accettare o no "l'integrazione"?). Da riscoprire.
Brass, uomo di piccole anarchie, scrive con questo film il suo libello esistenzialista aggirandosi per Venezia e laguna con una sorta di camera stylo, secondo i dettami godardiani. Il film è un piccolo adorabile racconto di un fannullone che pone a confronto la sua visione di vita alla gente che gli ronza intorno, indaffarata. Un Brass da ricordare anche per il ritratto di una Venezia sempre uguale eppure così lontana.
L’esordio di Brass è già dichiarazione d’intenti del suo stile anarchico: assoluta libertà narrativa – con incastri di flashbacks e ampio uso del dialetto veneziano da parte della voce fuori campo - montaggio spezzato, riprese bizzarre, spiccata propensione a goliardia, edonismo e a sbirciatine sotto le sottane. Lo scenario è quello dell’Italia del boom, sottesa dall’angosciante scelta tra vita squattrinata ma libera oppure benestante ma di grigia ordinarietà.
E' un Brass politico e polemico quello del debutto, che ha già ben chiare le idee cinematografiche facendo ricorso a tecniche che ne decretano un taglio e una cifra stilistica personalissima, quali, ad esempio le sfocature circolari e l'uso frequente dell'idioma francese, forzatamente inserito in un linguaggio veneto al limite del dialettale. Le disavventure dello spiantato (pur diplomato) Bonifacio vengono narrate in un formato insolito per l'epoca (non cronologico e per mezzo di flash-back) che dona al film un alone d'unicità oggi forse poco percepibile. Finale altamente tendente a sinistra.
In bilico tra Rossellini e Godard, Brass affila denti e unghie per i forsennati affondi a venire con i giri a vuoto di un apocalittico nullafacente in odor di integrazione e viceversa. Benché prodigo di sporadici guizzi e sprazzi para-avanguardistici innegabilmente taglienti, acuti e degni di encomio, l'esito complessivo si smarrisce in eccessive sottolineature da esistenzialista della domenica e tradisce un'ancora acerba capacità di Tinto di gestione del proprio estro anarcoide e visionario.
Come film d'esordio non è assolutamente male. Le riflessioni del protagonista si susseguono in un turbinio di ricordi di violenze durante gli anni della guerra e una sorta di apatia nei confronti del mondo attuale, del lavoro ma anche dei rapporti sentimentali. Lo stile del regista ha già il suo inconfondibile marchio ma è un Tinto Brass che non dispiace, impegnato, che si espone nettamente a sinistra ovvero a favor di popolo.
L'esordio registico di Tinto Brass è un interessante flusso di coscienza cinematografico attraverso il quale si ricostruisce parte della vita di un ragazzo
pigrotto e spiantatello. Risentendo del cinema dei tempi (in particolare Godard), il
regista sceglie una forma narrativa anarchica (e lo farà anche in altre pellicole successive) che risulta tuttavia interessante e si mantiene comunque godibile ad ormai quasi mezzo secolo dalla sua realizzazione. Le doti c'erano: peccato che successivamente il regista veneto cambierà completamente registro.
Anticlericalismo, un prete in odore di pedofilia, aborto, scene erotiche e di nudo più audaci della media del tempo, operai in sciopero, rifiuto del lavoro: ce ne n'era più che a sufficienza per mandare in bestia la censura del 1963. Forte della sua acquisita abilità di montatore, Brass dà un primo saggio delle sue doti d'autore raccontando l'ultima giornata di beata disoccupazione del giovane Bonifacio, in un flusso ininterrotto di immagini, fantasie, riflessioni, flashback. Il ribellismo è ancora ingenuo ma sincero. Splendida Pascale Audret.
Opera più bizzarra che riuscita, più esclusiva che destinata a tutti (già dall'uso della lingua veneta). Innegabile il talento (la macchina da presa è usata in modo sempre stimolante), curiosissimo il montaggio (Brass e Arcalli, figuriàmoci). Non sempre centrata la narrazione, che tiene bene per due terzi, poi cadendo non poco
nel tedioso. Tanti contenuti torneranno ne La chiave: il funerale in barca, la dichiarazione di guerra (là contro Gran Bretagna e Francia, qua contro gli USA), la pipì en plein air...
MEMORABILE: Buazzelli che, con l'acqua alta, vende "L'Unità".
Brass approda alla regia e lo fa in maniera caustica e irriverente, con un occhio al coevo cinema francese (viene solitamente menzionato Godard, citato anche nella breve apparizione della locandina di un suo film) ma destrutturando completamente quella che possiamo definire la classica triade del buon costume italico: Dio (i palpeggiamenti del prete, l'occhiolino di Gesù), Patria (la grottesca visione dell'esercito) e famiglia (l'aborto posto come argomento centrale, il salotto di casa trasformato in un bordello). Sperimentale e avanguardistico.
Sfrangia, tagliuzza, velocizza, sussurra. Pendeva un grappolo di idee dalla testa dell'esordiente Brass, reduce da un robusto apprendistato in Francia. La nouvelle vague lagunare produce un film-découpage, negletto per chi cerca linearità ma salutare scherzo d'autore per tutti gli altri. Lo sconosciuto Sady Rebbot sospira le parole in cadenza veneziana (bisogna allungare l'orecchio) saltabeccando in mezzo alle golosità della città turistica pur di esorcizzare un destino borghese. Prova quasi vegana rispetto alla carne degli anni a venire.
L’indolente Bonifacio vaga per Venezia meditando su un lavoro da intraprendere (se ne avesse voglia). L’esordio di Brass è permeato dalle tematiche che lo accompagneranno poi: sessualità giocosa, sberleffo alla Chiesa, la connotazione lagunare e dialettale, qualche inflessione politica. Girato con chiare influenze della Nouvelle Vague, ogni tanto accenna toni surrealistici che non dispiacciono (i flashback). Inutile, anche per la differenza di stile, l’inserire scene del cinema di Rossellini.
MEMORABILE: “Dai Bonifacio ce la faccio”; Le rime del generale; La modella d’arte; Bonifacio che fantastica sull’essere attore.
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