Indagine psicologica di un'antica concezione del mondo napoletano camorrista ambientata nella contemporaneità del carcere di Poggioreale. Quasi neorealista nel descrivere una società distrutta che vive di sentimenti istintivi profondamente radicati nella tradizione di una società dalla morale ingenuamente nicciana. Il tema è affrontato efficacemente, contrappuntato però da disperati ma scontati pianti materni e più in generale da una serie di luoghi comuni sull'amore e l'assenza di prospettive dovute alla lunga detenzione. Parlato in dialetto incomprensibile (da cui i sottotitoli).
In certe zone, quartieri, bisognerebbe avere tempra e morale d'acciaio per non imboccare una strada, che sembra già segnata fin dalla nascita, quella della malavita, che spesso porta anche alla morte in giovane età, o, in altri casi, più al carcere, che alla libertà. Uno spaccato, a tratti duro da digerire, di una realtà, che da chi non vi è invischiato, tende solo a essere disprezzata, giudicata, senza rendersi conto di che ambiente sia quello, che inevitabilmente crea e plasma questi ragazzi e, prima di loro, i genitori. Non c'è mai giustificazione per il crimine, ma attenuanti sì. Notevole.
MEMORABILE: Il ragazzino, intervistato, chiede conferma all'amico del significato delle parole; Il giovane, in carcere fino a 40 anni; Ragazze madri spacciatrici.
Michele Santoro, al suo esordio nel cinema dopo tanta televisione, racconta storie terribili sulla manovalanza del crimine a Napoli che ci spiegano meglio di qualsiasi trattato sociologico come la roga sia l'affare piu redditizio per la malavita e anche un vero e proprio cappio sul collo per i giovani. Non c'è retorica, i ragazzi parlano e raccontano storie che non vorremmo mai sentire ma che è bene vengano invece raccontate.
La criminalità minorile in una Napoli stretta tra indigenza e malaffare, attraverso le parole di alcuni giovani carcerati, dei rispettivi genitori e amici e le testimonianze di ragazze madri spacciatrici o prostitute. Una versione psicologica che è lo specchio individuale di una società che riconosce solo il denaro facile e il linguaggio della violenza, con una "morale" tutta propria e troppo elastica per essere accettabile. Santoro molto abile a evitare buonismi e retorica pur lasciando trasparire una certa comprensione, che non è affatto sinonimo di giustificazione.
MEMORABILE: Il fratello di Michele costretto a lasciare la famiglia; La vita del carcere e le fan dei giovani detenuti; "Quant'è bello 'o Kalash"!
Documentario diretto da Michele Santoro che raccoglie pregi e difetti del concetto di inchiesta para televisiva del giornalista. Pregevole l’immersione nella realtà che da un sapore decisamente neorealista, più discutibile l’evidente tentativo di agganciare il pubblico con qualche intervista ad effetto e il sospetto che a volte il tutto sia costruito con abilità ma poco sincero. Comunque meritevole di visione.
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Lungometraggio sesquipedale (cioè esageratamente lungo) che vorrebbe essere un film inchiesta di impianto sociologico, fondato sulla psicologia degli scugnizzi napoletani che si inventano una banda di camorristi di quartiere là dove scippi, droga, canzonette, amori disperati, ingenua volontà di potenza, kalashnikov, mamme con pianti e autentica disperazione sono il pane e la pizza quotidiana. Ovviamente i giovani scugnizzi finiscono in carcere e sono costretti a vivere molti anni - spesso giovinezza e maturità - a Poggioreale. Il film racconta senza troppi approfondimenti psicologici, frequentando luoghi comuni, la vita dei giovani carcerati e dei loro parenti. Vita miserabile sostanziata da disperate speranze e da nichilistici progetti, colorati da ingenuo pessimismo e da sogni non garantiti da pessima educazione e miserabile e tradizionale cultura individualistica. Il lungometraggio ha avuto un buon successo di pubblico alla Mostra di Venezia e in certi momenti può essere quasi commovente.