Il seme di Caino - Film (1972)

Giovanni, impotente, riceve nel ritiro di campagna il fratello Luca e gli spinge fra le braccia (e altrove) la donna che ha da poco sposato. Finale tragico, come il livello del film, della serie "se non lo vedi, non ci credi". Dilettantesco oltre ogni dire, al punto che si dispongono in modo incongruo le due lancette degli orologi. Il protagonista (apprendo che è, sotto pseudonimo, il figlio di Salvador Dalì) è esangue, mentre la protagonista ha i capelli che cambiano colore ogni cinque minuti. È un insieme di assurdità (dialoghi folli) e banalità. La Mancini o è la ragazza che scappa attorno al minuto 10 o non c'è, il che è un delitto, perché qualunque attrice c.s.c., in confronto agli altri, qui sarebbe parsa la Hepburn.

La storia è semplicissima e si potrebbe riassumere in poche parole su un kleenex. Ma non è certo questo il peggio né il fatto che il regista cerchi di allungare il brodo con lentezze di ogni tipo, "regalando" così alla pellicola ritmi micidiali. Ciò che sconvolge più di tutto, tanto da non credere ai propri occhi, è la recitazione degli attori: se è involontaria sarebbe comunque terribile, se è voluta bisognerebbe davvero chiedere al regista quale effetto volesse ottenere sugli spettatori. In ogni caso, per me, è un film insalvabile.

Attrazione, impotenza e amore-odio fraterno in una pellicola che, con un’efficacia difficilmente riproducibile se appositamente ricercata, riesce a sprigionare ilarità da ogni suo frangente e da ogni singola espressione e reazione dei suoi attori. Dispiace dover applicare la spietata logica del “pallinaggio” a un simile prodotto, tanto povero e mal realizzato quando involontariamente esilarante (soprattutto quando libero di eccedere), al quale potremmo rimproverare giusto qualche scena eccessivamente tirata per il lunghe. Imperdibile.

La più famigerata pellicola di Masi (regista e sceneggiatore altrove non disprezzabile) è una cocente delusione. Il seme è banalmente lo sperma: non è facile stabilire chi fra i due catatonici fratelli sia Abele, ma attorialmente parlando il figlio di Dalì vince per la prestazione peggiore. La vicenda ingrana dopo tre quarti d'ora, facendo sembrare infinito un film brevissimo. Sullo stesso argomento (impotente che chiede a un fratello di ingravidargli la moglie) Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è film di un altro pianeta. Si salva solo la colonna sonora.

Masi comprova a ogni minuto che non c’è ecoscandaglio che possa sondare l’abisso senza fondo del pessimo, e non c’è frame ove si sforza di scongiurare l’istigazione al suicidio del destinatario, cui fa trangugiare un fotoromanzato polpettone col cemento travestito da drammone familiare sul quale si erge, si fa per dire, un Ravaioli trapiantato da Polselli (e già ciò dovrebbe allertare i più accorti). L’asse narrativo è l’impotenza (sorta da complessi edipici irrisolti e scaturigine della tragedia), ed è uno di quei lampanti casi in cui tema e diegesi si metaforizzano vicendevolmente ad hoc.

La storia si potrebbe tranquillamente riassumere in due righe, così come il regista avrebbe potuto girare almeno quaranta minuti in meno di pellicola ma così non è stato. Siamo di fronte a un capolavoro al contrario che sposta se possibile il limite al quale il brutto può arrivare. Gli attori sembrano maschere di sale dotati di un'unica espressione e non riescono a infondere alcuna emozione se non un'involontaria ilarità. Eroicamente si arriva alla fine e dopo novanta minuti circa di totale noia si crolla come colpiti al mento da un pugile.

La vicenda, per come è girata (male), va un po' interpretata; in ogni caso un ragazzo impotente getta tra le possenti braccia - e non solo - del fratello virile la sua giovane mogliettina desiderosa di amore, salvo poi ripensarci, come i... cornuti! Dialoghi risibili e situazioni tipiche di un certo cinema morboso anni Settanta oggi possono essere "affascinanti", ma alla base c'è un'accozzaglia di scenette mal assortite e interpretate in maniera dilettantesca. Buone le musiche.

Il film affronta nel migliore dei modi una realtà molto attuale e tutt'altro che trascurabile, avvalendosi per di più di atmosfere e contorni musicali molto rilassanti (e già questo la dice lunga sul valore del film). In effetti avrei tolto due pallini per via della conclusione stucchevole, ma riflettendoci su mi son reso conto che la realtà possibile al 99% era quella, mentre la speranza in una fine migliore era solo una mia ingenua, per non dire sciocca (ma pur sempre inguaribile) vena di ottimismo.

Due fratelli si rivedono dopo un po' di tempo, confidandosi nel loro intimo, mentre la moglie dell'uno fa l'occhiolino all'altro. Una scarna commediola con risvolti drammatici si "arricchisce" di attori poco conosciuti e volti improbabili. La trama non sarebbe neanche male, con quei suoi rimandi biblici, ma il tutto il resto è carente: fotografia, dialoghi, messa in scena. Alla fine del film scopriremo chi dei due fratelli è il vero Caino.

Una sciocchezza alla Polselli (anche se il regista è Masi). Semplice, banale, scontatissimo, con un cast deprimente. Un film che però non può e non deve mancare nello scaffale dei collezionisti, specie se amanti del brutto. Un solo pallino direi che va bene.

Storia incestuosa popolata mariti impotenti, mogli ipersessuali (e zoofile) e cognati che donano il seme direttamente, senza scomodare l’apposita banca. La Kammara bamboleggia artificiosa con l'aria di una che sta per scoppiare a ridere (trasmettendo tale impulso anche a noi). Appoggiandosi a quello che è un presumibile nome d'arte, Sophia tenta pure di rinverdire il famoso shake della Loren, ma Roy Milian non è De Sica, piuttosto un improbabile stallone pesantemente ossigenato. Questa rilettura di Caino e Abele poteva essere anche interessante, ma viene letteralmente buttata.