Due liceali alla scoperta della vita: una si prostituisce per andare in Europa ma, quando la polizia sta per scoprirla, fugge e cade nel vuoto. L'amica decide di onorarla rendendo i soldi ai clienti, parallelamente il padre che ha scoperto tutto vuole invece farli fuori. C'è molta malinconia e delicatezza, sguardi persi e sereni al tempo stesso. Vendetta e moralismo rimangono in secondo piano e Ki-duk rifugge dalle facili risposte. Può piacere o annoiare, difficile che lasci indifferenti.
Entrambi i protagonisti sono "samaritani": rinunciano, per gli altri, alla parte di sé che pensavano più importante. Un'adolescente rinuncia alla sua integrità per onorare la memoria dell'amica; suo padre, un poliziotto, diventa assassino per vendicare l'innocenza macchiata della figlia. Visto il tema di base (la prostituzione minorile), poteva uscir fuori un film moralistico, invece è una smagliante parabola etica.
MEMORABILE: Il finale malinconico, ma non disperato, l'inizio per entrambi di una vita più autentica.
Inutile dire che in tutti i film di Ki Duk è presente il dolore come del resto il cinema asiatico ne è pregno a causa della situazione politico-sociale in cui sono costretti a vivere, la messa in evidenza di situazione al limite della cedibilità è uno spaccato della violenza con cui sono costretti a vivere la vita e reprimere se stessi, ma magistralmente l'autore riesce a dare una visione sempre struggente e appassionante dei sentimenti e delle scelte di vita. Facendo ogni volta riflettere.
Non saprei dire cosa mi piaccia di questo regista, ma ogni volta mi lascia qualcosa dentro, cosa che mi succede raramente. Questa volta parla di prostituzione minorile. Anzi no, parla di amore e di senso di colpa. Non sono le due ragazzine le protagoniste, ma un padre che scopre che sua figlia vende il suo corpo, la sua piccola bambina. È struggente la sua reazione. Non so ancora bene come ci riesca, devo pensarci molto su, ma quest'uomo è... indescrivibile.
Difficile che un film di Kim Ki-Duk possa lasciare indifferenti, vuoi per la fantastica fotografia che accompagna le sue pellicole, vuoi (e soprattutto) per l'intensità con cui mostra il dolore tramutarsi in qualcosa di liberatorio. Questa della Samaritana è una storia di sacrificio, dove la carne viene prima comprata, poi offerta e infine straziata. E qui, in questo processo doloroso e per certi versi sublime, avviene la trasformazione dei personaggi. Intenso.
Kim ki-duk stratifica la sua opera con temi forti, sfaccettature intense, livide, saffiche, sofferenti. Un turbinio esistenziale che vaga nell’abisso morale e coscienzioso di due ragazzine, l’elaborazione del dolore. Un percorso tortuoso – sullo sfondo una società meschina e insensibile - attraverso la ricerca, il sacrificio, la salita e il rifiuto. Con immagini splendide e cariche di poesia scansiona la pellicola in tre fasi e con grazia e levità mette a fuoco i tre momenti di questo cammino. Fotografia smagliante per un Kim ki-duk espressivo più che mai.
MEMORABILE: Splendido il finale sensibile e carico di lirismo, in cui avviene una riunione silenziosa tra padre e figlia.
Il conflitto tra bene e male è il tema di questo bel film del regista coreano Kim Ki-duk (autore dello splendido Ferro 3). La storia delle due giovani che organizzano un giro di prostituzione viene adoperata dal regista come pretesto per una forte parabola morale nella quale i protagonisti principali (la ragazza e suo padre) perseguono il fine della redenzione con mezzi opposti. Una storia forte e personaggi che lo sono altrettanto. Suggestiva la fotografia, bravi gli interpreti.
Ancora un Kim Ki-Duk che non mi ha convinto. I temi sono quelli tipici del regista: l’intreccio inestricabile tra dolore, sesso, violenza e morte come presenze ineliminabili ed ineluttabili dell’esistenza umana (la natura pessimista del regista è risaputa). Sfuggenti alcuni riferimenti religiosi, così come sfuggente è il senso globale dell’opera. Ovviamente per me, ca va sans dire. Indubbiamente meritevole però, la scelta di non esprimere alcuna forma di giudizio.
Pellicola livida e dolente, scandita attraverso tre capitoli, che parte in sordina per poi crescere lentamente col passare dei minuti. Incipit quasi in zona teen, con due ragazzine alle prese con un modo "alternativo" per far soldi. Poi la trama prende una piega molto più cupa, trasformandosi in una storia di dolore e vendetta (con qualche eco di Park Chan Wook) che fornisce una perfetta premessa per il successivo (e a mio parere superiore) Pietà. Cast in parte, regia ispirata, sceneggiatura mai banale. Riuscito.
Certi film dalle apparenze scarne lasciano maggiormente il segno. Questo “Samaria”, dal titolo evangelico come lo slogan in locandina (Chi è senza peccato scagli la prima pietra), lo fa invitando alla riflessione su temi rilevanti, senza prendere una posizione precisa. Si limita a mostrare con sublime delicatezza, che in alcune situazioni esaspera la crudezza del contesto. Elemento conduttore è la malinconia, da associare alla malinconica condizione della prostituzione, intrapresa all’inizio quasi come gioco per poi portare a dilemmi morali.
Diverse tematiche vengono affrontate partendo dalla sessualità: approccio religioso, purificazione come pulizia (nei bagni), espiazione, ripristino dei valori tramite la vendetta. Meno efficace, con mano più morbida, Ki-Duk fa riconoscere il suo stile nei momenti più poetici (con la musica di sottofondo) tralasciando la violenza esasperata e dando spazio a pause che riallineano le sensazioni sebbene coinvolgano di meno la visione. Finale che indica che la strada è segnata, ma irta ancora di ostacoli.
Kim Ki Duk è il John Woo della tragedia, tratta le disgrazie umana come fossero inseguimenti in automobile: quando pensi possa esplodere qualcosa puntualmente ne scoppieranno altre tre. E qui questo gusto nell'esagerazione raggiunge altissime vette di sadismo e macabra ironia. Tutto troppo brutto per esser vero e infatti non lo è, è solo cinema e le inquadrature strappacuore di cui è infarcito il film non fanno che ricordarcelo. Quell'automobile bloccata nel finale vale più di mille esplosioni.
La sua amica del cuore si prostituisce in allegria per pagare ad entrambe un viaggio in Europa. Quando muore, la studentessa protagonista va a ricercarne i clienti per restituire i soldi, dopo essersi fatta ripassare anche lei. Il babbo poliziotto comprensibilmente non la prende bene... Kim Ki Duk doc per temi e scelte stilistiche, rispetto alla sua produzione oscillante fra quasi-capolavori e boiate d'autore, il film si pone in media res: è interessante nei suoi eccessi che pur lo espongono al comico involontario, ma, come accade in altre opere, mi sembra più manierato che profondo.
Tre atti, ben distinti, per un'opera tanto densa quanto cangiante. C'è l'atmosfera rarefatta della "Primavera" di Ki Duk ma anche l'irruenza di Ferro 3, soprattutto nella parte finale, in cui il sangue inizia a scorrere. Dolorosamente belle le due protagoniste (indimenticabile il volto esanime di Vasumitra che sorride) e fortemente simbolico il finale, in cui Yeo-jin impara a guidare l'auto lungo il percorso tracciato dal padre sulla spiaggia. Un film (al solito per questo regista) esteticamente perfetto e avaro di parole. Lirico.
Spesso respingente se non addirittura amorfo, il cinema di Kim ki Duk frena le proprie vibrazioni più intense raggelandole in uno sguardo autoriale che si fa tanto più deus ex machina quanto più vorrebbe far credere d'esser imparziale o assente. Così la bellezza e le sgradevolezze del film stanno tutte nel suo beccheggiare in maniera estremistica tra narrazione ellittica e sovrabbondanza di simbolismi, esplosioni di naturalezza e didascalismo efferato. Al percorso di singolare redenzione/perdizione di Yeo Jin non si resta indifferenti, al cinema del messianico coreano talora sì.
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